Josh Ritter nasce a Moscow (Idaho) il 21 ottobre del 1976.
Qualche nota carpita dalla biografia presente nel sito del fanclub italiano.
Vive un’infanzia tranquilla nella sua cittadina natale, a 120 miglia dal Canada, senza particolari stimoli musicali fino all’età di 18 anni quando, durante una gita scolastica a Boise, compra i suoi primi due cd: Folsom Prison di Johnny Cash and Bringing It All Back Home di Bob Dylan.
E’ subito amore: il giorno dopo compra la sua prima chitarra, fulminato da “Girl from the North Country” di Bob Dylan.
Inizia a scrivere canzoni quando ancora frequenta neuroscienze all’Oberlin College, e presto capisce che una laurea neuroscienze non gli interessa più.
“E’ stato come un orribile segreto per me. Mi sembrava che non studiare scienze o non prendere una laurea sarebbe stato un fallimento: la maggior parte della mia famiglia è composta da scienziati o comunque da gente laureata, mio fratello aveva preso la sua laurea in Computer Science e stava per cominciare il dottorato e cose di questo genere. Sentivo che amavo suonare e far musica ma sentivo anche che non potevo deluderli non raggiungendo quello scopo. E’ ridicolo, ma ci ho messo un sacco di tempo prima di dire a me stesso “Perché non sto decidendo di far musica, quando è ciò che amo davvero?”. Mi ci sono voluti due anni e mezzo e un sacco di mal di testa. Ma una volta deciso non me ne sono mai pentito.”
Josh cambia dunque il suo corso di laurea da neuroscienze a un percorso studiato personalmente e basato sull’analisi della storia americana attraverso la musica, perlopiù musica “narrativa”.
Così si trasferisce per sei mesi in Scozia dove studia alla School of Scottish Folk Studies.
Si concentra sulla musica religiosa americana, sulla musica del tardo 19esimo secolo, sulle ballate, sulle canzoni dei cowboy.
Dopodiché torna nell’Idaho per tre mesi cercando di decidere cosa fare. Sceglierà di trasferirsi a Boston: come dirà lui stesso, Boston era la città di cui aveva letto nei libri, la città in cui aveva mosso i primi passi musicali Joan Baez, e se vieni dall’Idaho vivere a New York o in un posto simile può farti paura: Boston era la città perfetta. Qui lavora e comincia ad esibirsi durante gli open mic, una forma di show molto diffusa negli States: si tratta di serate in cui si alternano sul palco 15-20 artisti, spesso alle prime esperienze on stage, che suonano per una ventina di minuti a testa e collaborano e/o si supportano a vicenda. Un ottimo modo per fare esperienza e farsi conoscere quando non si ha ancora la capacità o il repertorio per sostenere un intero concerto.
“Suoni la tua canzone e hai finito. E’ una cosa molto alla Tenacious D - ‘Impara a suonare la chitarra davanti a un vero pubblico’. Ecco cos’è - è pazzesco! Come il songwriting è stare seduti in una stanza e tentare di scrivere qualcosa, gli Open Mic sono lo schiaffo in faccia che ti ricordano che se non puoi esibirti live, allora quello che fai quando scrivi è tutto lavoro inutile. Ho imparato un sacco dagli Open Mic.”
Nel 2002 Josh partecipa al Newport Folk Festival e nel frattempo pubblica il suo primo album “ufficiale”: Golden Age of Radio la cui canzone Me & Jiggs viene rilasciata come singolo in Irlanda e ottiene un ottimo successo.
L’album che lo porterà al successo uscirà però nel 2003: è Hello Starling, secondo posto in classifica in Irlanda.
“Penso fossi meno concentrato sulla preoccupazione legata a come andavano le cose e più eccitato dall’idea di parlare, capirmi e capire perché facevo musica e perché andavo avanti così. Ero più disinvolto. In Golden Age c’era più nervosismo. C’era più tensione sottocutanea, vera… Come dire? Ambivalenza rispetto al viaggio, rispetto a quello che mi attendeva di lì a 5 anni - starò ancora a suonare come un pazzo per le strade o…? Ero nervoso per tutto e nell’incisione penso si colga. Io riesco a sentirlo.
Quando feci Golden age non avevo mai suonato in pubblico, mentre con Hello Starling mi ero già esibito, avevo imparato ad usare la voce un po’ meglio e con le canzoni… penso di aver dato più possibilità alle canzoni. Spinsi di più in alcune direzioni e penso ci siano un sacco di sentimenti diversi nell’incisione. Ho voluto perfezionare alcuni di questi sentimenti e tirarli fuori nel corso della registrazione, infine ho messo assieme le canzoni che credevo stessero meglio assieme. Hello Starling è pieno di serenate, di canzoni alla finestra. L’dea mi piace, perché tu sei lì fuori a cantare e talvolta, quando sei sul palco… vai fuori e spari il tuo pezzo migliore e la gente ti ascolta o no. Tutto sta nel cantare lì fuori. Penso che sia di questo che parla il disco.”
L’album successivo è The Animal Years, uscito nel 2006: Josh dirà al suo pubblico di Washington DC che “era un album sugli Stati Uniti, ma è venuto fuori come una canzone d’amore”.
La traccia Good Man, contenuta nell’album, farà la sua comparsa tra la colonna sonora della terza stagione di Dr. House.
L’album riscuote un successo fantastico e raccoglie ovunque consensi: Stephen King lo pone al primo posto della sua lista di album del 2006, recensendolo in un articolo come :
“Il migliore album dell’anno, forse il migliore album che abbia udito negli ultimi cinque anni. Misterioso, malinconico, melodico… e queste sono solo le parole con la “m”! Canzoni come Girl in the War, una volta che le hai sentite, semplicemente non abbandonano la tua consapevolezza; ma la vera gemma dell’album è la strana e meravigliosa Thin Blue Flame. E’ il più esuberante scoppio d’immaginazione dai tempi di A Hard Rain’s A-Gonna Fall di Bob Dylan, nel 1963. The Animal Years è un album meraviglioso.”
Nel frattempo Josh apre concerti per artisti del calibro di Damien Rice e Joan Baez (che ha pubblicato anche una sua versione della canzone Wings) e rilascia il live In the Dark- Live at Vicar Street (cd + dvd) e un EP, il Live at the Record Exchange. Registra anche un concerto a Paradiso (Amesterdam) visibile per intero e gratuitamente su Fabchannel.com.
Nell’aprile del 2007, Josh Ritter viene invitato a partecipare a un tributo a Bruce Springsteen al Carnegie Hall di New York City. Quella notte, prima che lo stesso Bruce salisse sul palco, Josh ha suonato una emozionante versione acustica di “The River” che, non essendo stata registrata, è rimasta una delle esecuzioni memorabili e più ricordate di quella notte. Laversione presente online è stata registrata durante una performance successiva a Berlino, il 12 settembre 2007.
Il 2007 è anche l’anno di uscita di The historical conquest of Josh Ritter.
“Riguardo ai testi, alla musica e in termini di produzione, è l’album più avventuroso che abbia fatto finora e penso che all’orecchio possa risultare sorprendente. Seriamente, ripetutamente, e in modo positivo.”
E’ un album di trasformazione, sia sonora che tematica, cui segue un tour energetico.
E’ on stage, infatti, che Josh riesce a trasformare e infuocare le sue canzoni: erede della concezione springsteeniana dei concerti, salendo sul palco tira fuori il massimo della carica e dell’entusiasmo, riuscendo a trasmettere la sua eccitazione anche in casi in cui la diretta comprensione dei testi (considerati uno dei suoi punti di forza) non risulta immediata (per esempio di fronte a un pubblico non di madrelingua inglese).
“E’ una cosa incredibile e rara, per uno come me, venire qui e suonare per la gente ed essere ascoltato, ho bisogno che questa gente capisca quanto questo sia eccitante per me e se la mia eccitazione affiora, sento che le parole non hanno importanza; voglio dire, mi sembra abbastanza universale che qualcuno sistemi una chitarra o qualsiasi cosa e, semplicemente, canti e speri che la gente apprezzi; e la gente risponde anche senza gli effetti luminosi, tecnici e attrezzature. C’è qualcosa che prende. Con i testi vi è sempre un pericolo potenziale; la gente risponde molto ai testi e io uso molte parole che amo. Uso parole desuete qualche volta e credo siano difficili, e penso siano difficili da tradurre al volo quando ascolti. Penso che siano importanti, ma allo stesso tempo è sbalorditivo come la gente risponda lo stesso. Penso sia così bello.”
Citazione del giorno:
Nessun commento:
Posta un commento