Gianni Sapia ci racconta qualcosa su (in)quiescenza, dei
Mathì
Napoli è una delle cose più belle che mi siano capitate nella
vita. Ho vissuto quasi un anno a Napoli, avevo diciotto anni, e per me è stato
un po’ come superare le colonne d’Ercole. Ragazzino della provincia ligure mi
ritrovavo all’improvviso a vivere la dionisiaca realtà napoletana. Il puledro
scaturito dalla mia fantasia poteva finalmente lasciar esplodere la potenza dei
suoi muscoli e cavalcare al galoppo le immense praterie dell’irrazionale, che
quella città mi offriva. Ho conosciuto odori e sensazioni che mai più ho
provato negli anni. Napoli mi ubriacò coi suoi sapori forti, col suo epidermico
fatalismo. Napoli mi stordì col suo gridare, perché a Napoli, se non gridi, dai
l’idea che potresti essere malato. Ma nel contempo mi stupì, coi suoi silenzi,
fatti di fumettistiche espressioni facciali e sguardi ammiccanti. Infine
m’innamorò, con le sue contraddizioni. Miseria e nobiltà. In questo contesto
contraddittorio si inseriscono a buon merito i Mathì, che della napoletanità
rendono la parte più raffinata e delicata, diretta discendente di Partenope, la
sirena più bella del golfo. Ve li presento: Francesco De Simone (voce e
chitarre), Antonio Marano (piano elettrico, glockenspiel, synth), Gennaro
Raggio (chitarra elettrica), Raffaele Manzi (basso) e Gennaro Coppola
(batteria, percussioni). Contraddittorio dicevo. Sì, perché il loro album (in)quiescenza sembra più il frutto di un
bosco fatato di qualche leggenda del nord che il piatto piccante di una cucina
del sud. Ma anche questa è Napoli. L’atmosfera che si respira in tutto l’album
è fatta di odori metafisici, gusto surreale, visioni immaginifiche. L’uomo dei Mathì torna a vivere quel sogno da cui
l’imperante materialismo dell’attualità ci ha allontanato. La musica
sapientemente minimalista accompagna e si fa accompagnare da una poetica
barocca resa armoniosamente dall’amalgamante voce di De Simone. Più che poesia
in musica è musica in poesia, è musicoesia. L’accento è posto sulla dimenticata metafisica,
che viene rinvigorita per essere contrapposta ad un mondo soggiogato da realtà
e materialismo. Il titolo stesso dà quell’idea di ancestrale intimismo
dell’essere umano fatto di inquietudine e attesa.
La poetica dei Mathì
inizia a prendere forma già dal primo pezzo, La Mano di Dio Sulla Mia Schiena, dove l’intrinseco desiderio umano
di conoscenza divina si palesa tra sogno e realtà, tra sensazioni tattili e percezioni
oniriche. Una squisita dolcezza musicale che ci introduce ne L’Abisso e l’altrettanta dolcezza del
canto, si intersecano con la preghiera dei versi, in cui si invoca una pioggia
di “afflati in barlumi di luce”. Con Il Muro viene affrontato il tema della
ricerca. Le parti cantate sono intramezzate da una batteria quasi rock, che
aiuta a sottolineare quella frenetica voglia di scavare per scoprire cosa c’è
aldilà del muro della realtà, fino ad arrivare alla fatalistica conclusione, “bene posso dire ora cosa vi trovai: un vuoto
colmo di Nulla”. La quarta traccia, anzi, la quarta inquiescenza è la mia preferita. La Serpe è un pezzo che gode di una musicalità melodica e tribale
nello stesso tempo, accompagnata da una voce che abbandona la consueta dolcezza
per divenire acida e schizofrenica, lasciando intravedere una peculiarità che,
parere personale, andrebbe sfruttata maggiormente. Nel testo l’uomo tenta di
liberarsi dall’ansia malata che lo sta soffocando, rappresentata dal serpente “avvinghiato al collo molle”, ma, “abbandonate le fedeli catene, maciullerò la
tua testa, dimenticando le mie pene”. La fine dell’album è vicina, sono
rimasti due pezzi. Rileggo quanto scritto finora è mi accorgo di quante volte
ho citato i versi delle canzoni e so perché. Perché sono canzoni fatte di
poesia e la poesia non si spiega, si cita, perché la poesia regala emozioni e
le emozioni non si spiegano, si vivono, ognuno a modo suo. E Segue La Notte non fa che confermare
questa vena poetica, fatta di pennellate che sembrano essere indipendenti tra
loro, ma che disegnano un quadro d’insieme che non lascia scampo e tocca le
corde dell’anima e inizia il viaggio tra mille splendenti pianeti e “tra mille fuochi in emblemi incastonati,
sono io la torcia più ardente, di ansietà infinita e niente più”. E siamo
all’atto conclusivo, dove il surreale raggiunge la sua sublimazione scandito
dal tintinnare del glockenspiel, fino all’ossessivo finale. A Ritmo Di Pioggia ci congeda da un
album coraggioso, perché in un modo devoto al dio Apparire e servo dei
sacerdoti del materialismo, fare della poesia e della metafisica il proprio
marchio di fabbrica, beh, ci vuole coraggio e, cito ancora, “tripudio sarà, le tue mani a ritmo di
pioggia”.
I Mathì sono:
Francesco De Simone: voce | cori | chitarra elettrica | chitarra acustica
Antonio Marano: piano elettrico | glockenspiel | synth
Gennaro Raggio: chitarra elettrica
Raffaele Manzi: basso
Gennaro Coppola: batteria | percussioni