sabato 30 gennaio 2021
CIRCA
domenica 24 gennaio 2021
Eve Of Destruction/L'ora del fucile-Barry McGuire/Pino Masi
L’Italia era ben predisposta al cambiamento, ma la cosa che risultò più rapida e semplice per i giovani musicisti e i loro "gestori" fu quella di pescare a man bassa nella produzione anglosassone e farla propria, in tempi in cui non si guardava molto ai diritti d’autore.
Eve Of Destruction/L'ora del fucile - Barry McGuire/Pino Masi
"EveOf Destruction" di Barry McGuire,
una canzone composta da P.F. Sloan, è stata la base musicale per una
canzone politica, L'ora del fucile,
pezzo forte del cantautore Pino Masi, poi entrato a far parte del gruppo teatrale di
Dario Fo.
La canzone originale di P.F. Sloan parlava di una ipotetica terza guerra mondiale, ma si espandeva al pericolo rappresentato dalla "Cina rossa"...
In italiano diventò "L'ora del fucile": ecco il testo…
Tutto il mondo sta esplodendo
dall’Angola alla Palestina, l’America Latina sta combattendo, la lotta armata
vince in Indocina;
in tutto il mondo i popoli acquistano
coscienza e nelle piazze scendono con la giusta violenza.
E quindi: cosa vuoi di più, compagno,
per capire che è suonata l’ora del fucile?
L’America dei Nixon, degli Agnew e
Mac Namara dalle Pantere Nere una lezione impara;
la civiltà del napalm ai popoli non
piace, finché ci son padroni non ci sarà mai pace;
la pace dei padroni fa comodo ai
padroni, la coesistenza è truffa per farci stare buoni.
E quindi: cosa vuoi di più, compagno,
per capire che è suonata l’ora del fucile?
In Spagna ed in Polonia gli operai
dimostran che la lotta non si è fermata mai contro i padroni uniti, contro il
capitalismo, anche se mascherato da un falso socialismo.
Gli operai polacchi che hanno
scioperato cantavan l'Internazionale
Gridavano: Gomulka, per te finisce
male. Marciavano cantando l’Internazionale.
E quindi: cosa vuoi di più, compagno,
per capire che è suonata l’ora del fucile?
Le masse, anche in Europa, non stanno
più a guardare, la lotta esplode ovunque e non si può fermare:ovunque
barricate: da Burgos a Stettino, ed anche qui da noi,
da Avola a Torino, da Orgosolo a
Marghera, da Battipaglia a Reggio,
la lotta dura avanza, i padroni avran
la peggio.
E quindi: cosa vuoi di più, compagno, per capire che è suonata l’ora del fucile?
Autori: P. Masi, P. Nissim, G. Marini (?)
E da lì a poco sarebbero sbocciato in
Italia il corso fortunato del cantautorato impegnato…
venerdì 22 gennaio 2021
ATLANTIDE
giovedì 14 gennaio 2021
Il dramma di Adriano Urso
Sono rimasto molto colpito da questa
storia di cui oggi hanno parlato e scritto tutti i media e riguarda un dramma non
per tutti evidente, quello relativo alla perdita della dignità conseguente
alla mancanza di lavoro, anche se la tragedia che ha colpito Adriano Urso non pare
strettamente legata a problemi economici. E quando passione e attività primaria coincidono, il non poter alimentare una delle due componenti porta ad un disagio che pare privo di confini.
Adriano era un pianista jazz molto
noto ed era considerato,
insieme al fratello Emanuele - conosciuto come King of Swing, anche lui
jazzista - uno degli artisti più talentuosi del panorama romano.
Ho avuto modo di ascoltare una breve
intervista che oggi ha rilasciato Emanuele, dalla quale emerge un quadro
familiare ben preciso: “ragazzi” antichi i due fratelli, probabilmente fuori
dal tempo sin dal periodo scolastico, lontani dalle mode del momento e amanti
della musica del passato, così come di tutti quegli aspetti che potrebbero tranquillamente
definirsi retrò.
Utilizzo di auto d’epoca, vestiti di
un’altra epoca, linguaggio di un’altra epoca.
Abituato ad esibirsi quotidianamente
in differenti contesti, Adriano aveva all’improvviso perso la sua musica la
scorsa primavera, ritrovandola in estate ma rimanendo nuovamente senza da
ottobre in poi.
Emanuele sottolinea come il vivere tutti assieme in una grande casa - immagino in famiglia - eliminasse l’urgenza immediata di avere entrate utili al sostentamento, ma il bisogno di incontrare la "sua" gente e alimentare lo status di “uomo che vive nella notte”, lo aveva spinto a trovare una sorta di impiego come “rider”, lui, diplomato in violoncello e laureato in Farmacia, un grande musicista, non solo un pianista… un musicista!
Fra gli appassionati uno ha ricordato:
«Quando suonava si stava improvvisamente zitti ad ascoltarlo».
È morto all’età di 41 anni, mentre
cercava di consegnare cibo a domicilio, tradito dalla sua Fiat 750 d’epoca, costretto
a spingerla inutilmente con l’aiuto di due passanti, sino a che il cuore ballerino
- che il giorno successivo avrebbe dovuto essere oggetto di controllo - è scoppiato.
Un infarto, forse causato dallo
sforzo fatto e dal freddo intenso che non gli ha lasciato scampo.
Morire, di questi tempi, non fa notizia, nemmeno se sei un giovanotto di quarant’anni, ma riesco a far mio il grande dolore di chi improvvisamente resta a mani nude, privato di ciò che ha di più importante, e se parliamo di musica e dintorni non si può chiudere gli occhi davanti ai tanti professionisti che, ultimamente, hanno perso… la professione.
Lascio agli esperti - politici,
sociologi, scienziati e antropologi - la ricerca delle cause profonde, mi
limito a prendere atto delle conseguenze e mi intristisco.
Quando la nebbia cala e offusca la
mente la razionalità perde valore. Rivela un’amica di Adriano:
“Prima di Natale mi hai scritto
che d’ora in avanti avremmo suonato solo per noi, che anche con la fine
dell’epidemia non sarebbe cambiato nulla. Senza musica eri perso, vedevi tutto
nero”.
Ecco chi era e cosa era in grado di
fare…
lunedì 11 gennaio 2021
Black Spirit
sabato 9 gennaio 2021
DAVIDE CRUCCAS - “Ballate fra terra e cielo”
DAVIDE CRUCCAS
“Ballate fra terra e cielo”
2020 – GTCD006 – G.T. MUSIC
Nella musica, così come nella vita,
gli sforzi e l’impegno, alla lunga, dovrebbero ripagare.
Certo, ci vuole talento per comporre
un brano musicale o far parte, come strumentista, di una band di successo, ma anche
per diventare un grande chirurgo o un super carpentiere, servono attitudini,
impegno ed esperienza.
Questo inizio, forse fuorviante, mi
serve a sottolineare come Davide Cruccas - che non avevo mai avuto opportunità di ascoltare - abbia
alle spalle una lunga gavetta fatta di sangue e sudore, sacrifici e
perseveranza. Al mestiere di “cantautore” ci è arrivato per gradi, quasi in
punta di piedi, dopo anni di blues nei pub piemontesi e performance da strada
londinesi: nulla capita per caso.
Come ho più volte sottolineato negli ultimi
tempi, la figura del cantautore ha perso -fortunatamente a mio avviso - il significato
che fu il marchio di fabbrica dei seventies italiani, quel diventare bandiera di
un movimento molto politicizzato, spesso un’élite che ha mantenuto tale status
nel tempo.
Ma ogni rappresentazione espressiva è
figlia del periodo in cui nasce e prolifica, e oggi riproporre tale modello antico
attraverso forze fresche rappresenterebbe un ossimoro.
Molto meglio tornare all’etimologia
del termine cantautore, che si può sintetizzare nella figura di chi costruisce
e a seguire propone la sua creazione.
Cruccas mi ha convinto da subito attraverso la sua freschezza e genuinità, mi piacciono i suoi racconti, la sua verve, la sua malinconica linearità, ma è certo che tutto questo non mi avrebbe colpito se non ci fosse stata piacevolezza di ascolto, atmosfere accattivanti e una voce che resta impressa.
A fine articolo propongo una bignamica biografia estrapolata dal comunicato stampa ufficiale, ma proverò a descrivere, passo dopo passo, l’album che ho tra le mani, “Ballate fra terra e cielo”, rilasciato la scorsa primavera.
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Apre il disco “Storia di un cantante disoccupato”, una ballad veloce di facile appeal, autobiografica ma applicabile ad una marea di anime, musicisti e non: “Fin troppo semplice sentirsi miseri, io sono ricco e non si vede e non ho mai leccato nessun piede”.
Segue “Nelle mie tasche”, musicalmente impreziosita dall’intervento prolungato del violino. Capita che le salite che affrontiamo quotidianamente siano addolcite da porzioni di strada pianeggiante: sono quelli gli attimi in cui tutto appare sotto un’altra luce, la positività si fa largo tra le tante ombre oggettive e basta poco per arrivare a sfumature tenui, capaci di scacciare l’oscurità. Coinvolgente il ritornello: “Grazie per questa giornata di sole, per sempre la ricorderò, ho un libro nuovo e domani se piove di pagine mi coprirò, voglio cantare ma non ho parole, domani le inventerò…”.
“Come Charlie Brown” racconta di sogni disattesi e di progetti che non si sono realizzati, ma la delusione non demolisce i sani principi ed essere considerati un loser non è la peggiore delle cose se si posseggono determinazione e testardaggine, come accade da sempre a Charlie Brown: “Solo, sei rimasto solo come Charlie Brown, credi ancora agli aquiloni e perdi al volo tutte le occasioni; forte sei rimasto forte come Charlie Brown, credi ancora nella gente e non cadrà la tua stella perdente…”. Pezzo musicalmente melanconico che rispecchia il tema proposto, sonorità acustiche delicate che lasciano addosso un mood nostalgico.
“Un altro inverno” tratta il tema della lontananza rispetto ad affetti e alla terra amica, nella ricerca di sé stessi e della realizzazione personale, o forse solo della comprensione dei propri desideri reali, non sempre comprensibili: “Passerà un altro inverno sopra l’autobus delle sei, passerà un altro giorno che oggi smetto e non smetto mai, passerà un’altra notte sveglio presto pensando ai guai…”. Un gradevole arpeggio iniziale dà il via ad una ritmica che ben rende l’idea del movimento, con un virtuoso gioco vocale finale che evidenzia le skills dell’autore.
Quando si guarda indietro, al tempo passato, viene automatica la ricerca del bilancio e spesso nasce naturale la domanda: “Che me ne faccio” … delle stesse risposte alle solite domande: “Che me ne faccio, dicevi, di questi 20 anni, e ridevi, ridevi, poi alzavi il braccio alla luna, brindavi, che favola eri…”. Arrangiamento sontuoso per un brano riflessivo e stimolante per la mente.
“Siamo ancora vivi” rispolvera il passato blues di Cruccas e affronta il problema di chi è costretto a lasciare la propria terra per “provare a vivere”: “Eravamo stanchi, coi vestiti sporchi, in balia dei venti tra i capelli bianchi, fermi in mezzo al mare… ci odieranno, ci useranno, non avremo niente ma saremo vivi… ci hanno tolto tutto ma siamo ancora vivi…”. Sonorità lancinanti per un tema drammatico che la musica può solo sottolineare.
“Ballata fra terra e cielo” fornisce altri spunti interessanti ed evidenzia la caducità delle nostre vite, quelle che nell’età dell’illusione viviamo come se il futuro fosse un presente replicabile all’infinito, salvo poi capire che così non è, come accade al protagonista della canzone che trova la saggezza nel momento della maturità e nel confronto con un padre, un tempo, forse, difficile da comprendere: “Passeremo sopra a questo mondo, la sciocchezza di un momento, si sorride e si va via, qualche sogno resta nel cassetto, vecchi amori dentro al petto e finché batte siamo qua…”. La musica prende un altro andamento, tra folk e prog, un connubio che riporta alla combinata PFM/De André.
“Sogni sbagliati” sono quelli che, spesso, caratterizzano gli inizi di un percorso, quando non si ha coscienza delle prove a cui si sarà sottoposti cammin facendo. Basterà una fotografia per alimentare i ricordi e accorciare spazi temporali immensi e a quel punto verrà voglia di fuggire dal dolore che un frammento del passato è in grado di causare: “Passa un ricordo e mi porta via, ho le ginocchia sbucciate medaglia al valore al mio dire la mia…”. Melodia che può far sanguinare i più sensibili e virtuosi.
Chiude l’album “Il re della pioggia” una poesia conclusiva la cui bellezza lascio giudicare al lettore presentata a seguire in una forma basica, voce e chitarra:
https://www.youtube.com/watch?v=ypRi_6Bkp_o&feature=emb_logo
Concludendo… un disco carico di
significati, musicalmente molto curato, semplice, diretto, rispettoso della
forma canzone, un bilancio di vita in cui risulterà facile riconoscersi.
Aggiungerei non semplice, perché l’ascolto
attento, tra musica e liriche, porta ad una razionalità che fa male, ad una
dimensione umana votata all’insoddisfazione; i momenti di luce intensa, in linea
generale, esistono, ma sono davvero poca cosa rispetto a quella nebbia che
a volte cala e offusca la vista, un’opacità rispetto alla quale ci si trova
spesso impotenti.
Potrà essere d’aiuto, in quei
momenti, ascoltare una canzone? Beh, non sarà risolutiva ma diventerà comunque un
nutrimento per chi ne usufruirà e una "testimonianza per sempre" per chi l’avrà
creata.
Un bell’album per Davide Cruccas.
BIOGRAFIA SINTETICA
Da sempre appassionato di canto, con
una voce potente ed espressiva, chitarrista autodidatta, un approccio musicale
che spazia dal blues al folk alla canzone d’autore, Davide Cruccas decide di
cimentarsi come cantautore nel 2008 con la produzione del primo EP.
Nel 2009 la passione per la musica lo
porta a mettersi in gioco come busker per le strade di Londra, un’esperienza di
tre anni nei quali espande il suo panorama artistico e registra una demo in
lingua inglese, partecipa a numerosi open-mic e viene ospitato in diverse
trasmissioni radiofoniche londinesi col suo trio folk-rock (chitarra, violino e
fisarmonica).
Nel 2012 rientra in Italia
continuando a portare in giro la sua musica in numerosi live, anche come opening
act per artisti più affermati (Claudio Lolli, Zibba e Almalibre).
Dopo qualche anno di pausa ricomincia
a scrivere nuovi testi, e nel 2019 decide di entrare nuovamente in studio per
registrare l’album “Ballate fra terra e cielo”, contenente 9 brani.
TRACKLIST
01. Storia di un cantante disoccupato
(03:49)
02. Nelle mie tasche (02:46)
03. Come Charlie Brown (03:40)
04. Un altro inverno (04:35)
05. Che me ne faccio (02:50)
06. Siamo ancora vivi (04:28)
07. Ballata fra terra e cielo (03:58)
08. Sogni sbagliati (04:02)
09. Il re della pioggia (02:38)
Prodotto da Davide Cruccas, Paolo
Rigotto e Vannuccio Zanella, e distribuito da G.T. Music distribution, “Ballate
fra terra e cielo” è disponibile in CD e in formato digitale.
Contatti e link utili:
www.soundcloud.com/davidecruccas
https://www.facebook.com/cruccas.davide
martedì 5 gennaio 2021
CROMOLUX-“Dust Of The Time”
Commentare il progetto dei CROMOLUX mi riporta all’essenza della (M)usica,
alla passione vera, alla sfida contro tutto e tutti pur di alimentare necessità
basiche, alla voglia di creare e condividere.
La zona di “lavoro” è quella di Alba
e dintorni e la storia che viene presentata in questo articolo profuma di un
basso Piemonte che regala soddisfazioni da ogni punto di vista, un tessuto
sociale molto attivo in cui nasce una band che, dal 1983, non ha mai cessato la
propria azione.
L’intervista a seguire, realizzata
col batterista Enzo Patri, permette di entrare nei rivoli di un’incessante
attività che, nel tempo, ha assunto una dimensione sempre più professionale e
autarchica, tanto che il nuovo album, “Dust Of
The Time”, nasce e viene rilasciato come produzione propria, ad
eccezione del mastering finale.
A fine chiacchierata viene fornita la modalità che permette di acquisire l’album, tenendo conto che la stampa del CD prevede, come nelle occasioni precedenti, un numero limitato di copie che verranno regalate a chi lo richiederà anche se, nel caso specifico, le eventuali donazioni saranno devolute in beneficenza.
Vediamo qualche nota generica partendo
dalla sintesi del mio feeling successivo all’ascolto.
“Dust Of The Time” è una cartolina
sonora che riporta al passato, una sorta di pop di estrema qualità che rispecchia
i tempi di avvio della band e che ha mantenuto il mood di quei giorni, capace
di lasciare in tutti quelli che hanno vissuto quel periodo una devastante - almeno
per me - nostalgia.
I brani, presi singolarmente,
potrebbero vivere di luce propria, ma approfondire la proposta porta ad avere
una visione concettuale che è poi quella di Biagio Cairone, autore della quasi
totalità delle liriche, pensieri che riportano al quotidiano che, per un
osservatore esterno quale io sono, presentano gli stilemi di un importante
bilancio personale.
La lingua utilizzata è quella
inglese, che è certamente di grande appeal, ma va segnalato che i testi sono
stati pensati nella nostra lingua e solo successivamente tradotti. In ogni caso
il booklet contenuto nel CD presenta la traduzione per ogni canzone.
Provo a delineare la scaletta, costituita da nove episodi, utilizzando il metodo step by step.
Si apre con “Desire” e arriva una
significativa sorpresa, la vocalità di Cairone ricorda quella di David Bowie,
così come l’atmosfera generale.
Un testo molto poetico che evidenzia la
passione che nasce tra un uomo e una donna, un disegno che diventa struggente
quando l’uso della chitarra elettrica tocca gli anfratti della psichedelia.
A seguire “Sign Of The Moon” e
va segnalato come certi elementi “naturali” e quasi mistici (il sole, la luna)
abbiano ruolo preminente nella narrazione, tanto da caratterizzare l’immagine
di copertina.
Musicalmente parlando siamo al cospetto di una ballad quasi west coast che sfocia in un modus floydiano molto coinvolgente, mentre la luna diventa testimone di un atto finale, di un amore che scema, di una luce scomparsa, in attesa di un nuovo giorno.
“Silent Walk” apre ad un mood
distopico che è sentiero del disco.
“We
are sitting now on the edge of the sky, watching the life that’s moving under
our feet; close your eyes, it’s only way to really see the truth, because
tomorrow you know we’ll be gone from here”.
Ritmo lento e regolare, voce
cavernosa e lungo assolo gilmouriano, il tutto a disegnare un’ambientazione tra
sogno e angoscia.
“Burned Man” sarebbe stata una
potenziale hit in tempi remoti.
La sensazione che il tempo dei sogni
sia finito e che, dopo tanti errori, non ci sia più la possibilità di voltare
pagina: rimpianti e rimorsi tangibili sottolineati da un ritornello vincente e
da arrangiamenti ad ampio respiro, dove i fiati contribuiscono alla creazione di
uno spleen impossibile da tenere alla larga.
Rilevante il duetto vocale in “Fly”,
pezzo acustico e intimistico, con un finale struggente che prende il largo, tra arpeggio di chitarra e tromba, un’ambientazione in un formato bianco e nero.
Un mondo visto dall’alto, col giusto
distacco, con il cuore e la mente libera, in uno stato di moderata follia che
annulla il pregresso e crea serenità: “I, here alone, in this madness of the
fly I can see the clouds touch my legs, touch my heart”.
Melanconico è “1961”, un brano
di oltre sette minuti che propone il tema della lontananza dagli affetti legata
alla necessità di sostentamento: un treno che corre nella notte, tanti uomini
tutti uguali pronti a scavare nelle budella di una montagna, il cuore rimasto
nel luogo di origine ma con un obiettivo che mantiene vivi.
Meravigliosa la seconda metà del
pezzo, completamente strumentale, sognante, capace di disegnare il concetto di
viaggio, tra disperazione e speranza.
E arriviamo alla title track, “Dust
of the time”, giustamente rappresentativa dell’intero album.
“Ora lasciatemi tranquillo, io
chiuderò gli occhi alla fine del giorno, abituatevi senza di me; ho vissuto
tanto che un giorno dovrete per forza dimenticarmi, ma non crediate che io muoia,
ma accade il contrario, che sto per vivere…”.
Non è mai facile decodificare i
pensieri di chi scrive e lascio all’interpretazione personale questa “polvere
del tempo”, un incedere musicale sontuoso che scava nelle profondità dell’ascoltatore
virtuoso.
L’utilizzo, nel finale, di un apporto
esterno estratto da un documentario della BBC dedicato a George Orwell, contribuisce
concettualmente a sottolineare la necessità di eliminare quella nebbia che ogni
tanto appare nelle nostre vite, capace di incantare, di offuscare la mente e di
allontanare la ragione.
Il brano numero otto si intitola “Raining
Light”.
Anche in questo caso troviamo una
dicotomia che divide il cantato dallo strumentale, rimarcando un’altra
caratteristica del disco che è più tipica della musica progressiva, ovvero la
proposizione di brani lunghi - un terzo superano i sette minuti - entro i quali
è possibile abbinare il messaggio alla voglia di dilatare gli aspetti musicali.
Il concetto di “pioggia di luce” e di “gocce brillanti” in caduta libera conducono ad un pensiero positivo per il finale della storia.
La conclusione è affidata a “Red”,
l’episodio più lungo.
Il colore scuro invade ogni angolo
della terra, mentre ciò che tutti sognano è un mondo colorato, perché la nostra
vita ha bisogno di tutte le sfumature esistenti.
Una chiusura che abbina la visione
realistica alla speranza che ci sia ancora spazio per una completa libertà,
quella di cui parla il protagonista aggiunto, Martin Luther King.
Una canzone che potrebbe essere un manifesto, capace di toccare il cuore e la mente.
Davvero un bell’album, alla faccia
dei “musicisti nei ritagli di tempo”.
Un vero viaggio, un vero concept, un
vero percorso fatto di parole importanti e di sonorità significative.
Un piacere averlo ascoltato e averne scritto.
Per i dettagli rimando all’intervista
realizzata con Enzo Patri, titolare della sezione percussioni.
Partiamo dalla band e dalla storia: come e quando siete nati,
con quale obiettivo e cosa avete realizzato sino ad oggi?
Ci siamo formati alla fine del 1982 esibendoci per la prima
volta dal vivo nel 1983. La formazione comprendeva due chitarre, tastiere,
basso e batteria. Proponevamo alcune cover e brani composti dal nostro
chitarrista Biagio. Alcuni testi erano in italiano e altri in un inglese un
po’… improvvisato! Da allora Biagio Cairone, Ezio Bogliolo, Enzo Patri e Alberto
Flori hanno continuato fino ad oggi a suonare con la denominazione CROMOLUX.
Negli anni hanno fatto parte del gruppo, in aggiunta ai su menzionati, altri
chitarristi, percussionisti, cantanti, fiatisti. Gli ingressi più significativi
sono senz’altro stati quelli di: Paolo Ciliutti (chitarre e voce, durante i
primi anni), Bruno Battaglino (voce e flauto per oltre una ventina di anni) e Alfredo
Ottaviani (chitarre e cori dai primi anni 2000). Agli inizi degli anni Ottanta,
poco più che ventenni, non ci ponevamo alcun obiettivo se non quello di suonare
(soprattutto dal vivo). Da considerare anche che in quegli anni le
documentazioni sonore sono rappresentate esclusivamente da alcune cassette
audio con materiale qualitativamente molto scadente, per cui poco resta di quel
prolifico periodo. Nel 1996 vengono registrati due brani nello studio di
Emanule Ruffinengo (in seguito produttore e arrangiatore con Area, Pooh, Ornella
Vanoni, Chick Corea…) poi pubblicati ufficialmente sulla cassetta “A place to
survive”, panorama delle band del cuneese. Con l’avvento del cd e la
possibilità di registrare a costi molto contenuti, la nostra produzione è
avvenuta sempre in modo autonomo: “Finisterre” (2004), “Il confine” (2009), “Anima
persa” (2015) e quest’ultimo “Dust of the time” (2020). Il tempo è trascorso ma
noi abbiamo comunque sempre continuato a provare quasi una volta a settimana
per il gusto di ritrovarci e penso che le motivazioni siano ben espresse da Biagio:
“Se siamo ancora insieme è perché il
piacere di suonare è per noi privo di velleità”, e da Ezio: “Il successo della nostra unione è dato
dalla musica: abbiamo il semplice piacere di farla”.
Il nome che avete scelto per la band ha una motivazione
precisa?
Nasce da un particolare tipo di carta tipografica usato negli
anni Ottanta. A noi piaceva.
Da chi è composta la vostra formazione?
In questo ultima produzione da: Biagio Cairone (chitarre,
voce, tastiere), Alfredo Ottaviani (chitarre, armonica, cori), Ezio Bogliolo (tastiere),
Enzo Patri (batteria), Alberto Flori (basso). Come riportato nelle note di
copertina i brani sono stati composti tutti da Biagio Cairone, così pure i
testi, ad eccezione di “Fly”. Tutti gli arrangiamenti sono di Biagio, Alfredo
ed Ezio.
Avete avuto nel tempo la possibilità di esibirvi dal vivo?
Agli inizi abbiamo fatto parecchi concerti, soprattutto in
provincia. Erano gli anni che ad Alba non c’erano manifestazioni musicali e noi
nel 1983 ci siamo inventati “RICCAROCK” in un salone parrocchiale a Ricca
d’Alba. Verso la fine degli anni Novanta abbiamo ridotto notevolmente le nostre
uscite. L’ultima è stata per il trentennale della band nel 2012. Abbiamo
invitato a suonare sul palco molti degli amici che avevano collaborato, riproponendo
una scaletta che ripercorreva un po’ la nostra storia.
Avete appena realizzato un CD di brani originali: quali sono
i contenuti lirici?
Giro direttamente la domanda a Biagio. “I temi trattati sono spesso autobiografici: l’amore e i rapporti con
gli altri, esperienze di vita e ricordi indelebili del passato. Sensazioni
vissute di gioia e felicità ma anche di rabbia, malessere, confusione. Riflessioni
sul mondo che ci circonda con i suoi colori, profumi, suoni, umori. Molte volte
vengono citate la luna e il sole, ed è per questo che ho proposto agli altri la
rappresentazione del sistema solare per la copertina”. Anche in questo CD, come già accaduto
in passato, sono stati inserite sezioni con voci fuori campo: un estratto di un documentario della BBC su George Orwell
in “Dust of the time” o la voce di Martin Luther King nella conclusiva “Red”.
Come definireste la vostra musica a chi non l’ha mai
ascoltata?
Difficile da definire! Abbiamo iniziato suonando cover di
rock e poi quasi subito Biagio ha incominciato a proporre brani propri; nella
composizione è naturalmente influenzato da quanto ha ascoltato nei vari
periodi. Ad oggi pensiamo che Biagio abbia composto la musica di almeno 200
brani di cui molti sono stati regolarmente provati e suonati. Generalmente i
nostri pezzi possono essere etichettabili come Pop-Rock con derivazioni Prog,
dove sono sempre presenti i testi ma viene concesso molto spazio alle parti
strumentali con assoli di chitarre o inserti elettronici.
I testi sono in lingua inglese: da dove nasce la scelta?
Per parecchi anni nella band era presente un cantante che componeva
i testi e li eseguiva in italiano. Da questo CD siamo tornati agli inizi,
quando la voce era Biagio, che per l’occasione ha scritto anche i testi e ha
preferito cantarli in inglese perché ha ritenuto che tale lingua sia
particolarmente adatta all’impiego nel genere musicale che proponiamo. Sono
stati scritti in italiano (infatti ci sono le traduzioni a fronte di ogni
brano) e poi tradotti in inglese. Potremmo poi disquisire su come sia più facile
cantare in lingue come l’inglese dove le parole sono spesso costituite da una o
due sillabe, oppure come un termine breve possa racchiudere il significato di
più parole in italiano, o, ancora, come le parole tronche (in italiano
terminano tutte con una vocale…) siano più facili da cantare. Questo è però un
discorso troppo tecnico in cui eviterei di entrare!
Nel progetto compaiono alcuni ospiti: sono collaboratori di
lungo corso? Che ruolo hanno avuto?
Per la prima volta abbiamo invitato questi amici che hanno
contribuito perché c’era necessità di una doppia voce femminile (Fabiana in “Fly”)
e di fiati “veri” e non campionati (Matteo in “Fly” e “Burned Man” e Francesco
in “Burned Man”).
Ho captato che siete molto autarchici e fate tutto in
proprio, dalla creazione sino alla distribuzione passando per registrazione e
arrangiamenti: precisa scelta o necessità contingente?
Per parecchi anni abbiamo pagato affitti in sale prove in
condizioni spesso precarie, posti in cui portavamo gli strumenti ogni volta.
All’incirca nei primi anni del 2000 abbiamo allestito una nostra sala, ricavata
all’interno di un capannone industriale di proprietà di uno di noi. Questa è
diventata la nostra “casa/studio” (disponibile solo ad un’altra band dove
militano alcuni di noi) e l’abbiamo dotata di tutto ciò che serve per provare e
anche per registrare in qualsiasi momento si decida di farlo. Non siamo quindi
condizionati da giorni, orari, ecc. per cui con molta calma (un po’ di alcol,
nicotina e molte parole…) proviamo i
vari brani e poi decidiamo quali possono essere registrati in multitrack digitale.
Seguono tutte le fasi di missaggio, equalizzazione, sovraincisioni e
naturalmente gli arrangiamenti che spesso sono suggeriti dopo i numerosi
ascolti dei pezzi. Solo l’ultimo passaggio prima dell’incisione, il cosiddetto
“mastering”, viene affidato a studi professionali per ottenere il master
definitivo, sempre sotto il nostro diretto controllo. La distribuzione è la
cosa più semplice: infatti i nostri cd (la stampa ne prevede almeno 300 copie) sono
sempre stati regalati a chi ne ha fatto richiesta senza pretendere alcuna
somma, salvo in alcuni casi, come quest’ultimo, per scopi benefici.
Anche l’artwork è molto curato e così il booklet annesso che
presenta anche le traduzioni dei testi: chi ha seguito questi aspetti?
Abbiamo sfruttato la risorsa interna: Biagio, infatti è un
grafico molto apprezzato in zona ed in passato ha collaborato alcune volte alla
realizzazione di copertine di dischi e cd. Sua è la creazione della copertina
dell’LP “Forse le lucciole non si amano più” (1977) del gruppo prog LOCANDA
DELLE FATE. Abbiamo inoltre deciso per la traduzione dei testi in italiano
perché ci pareva giusto dare importanza e accessibilità alle liriche scritte da
Biagio. Nella realizzazione grafica ha collaborato anche Andrea, figlio di
Biagio.
Come hai già indicato avete stampato un numero di copie
limitato: come sarà possibile ascoltare “Dust of the time”?
Per un brano è stato creato un video (SILENT WALK) che si può vedere su Youtube https://youtu.be/YPBwZWDLAt0. Le copie che non sono state ancora distribuite possono essere richieste su whatsapp al 3394479799. Le regaliamo, ma se qualcuno vuole fare un’offerta di almeno 5,00 euro, contribuirà alla raccolta fondi per la Comunità l’Accoglienza di Ricca d’Alba.