Senza Retesi configura come un'opera
radicalmente sperimentale e fieramente di nicchia, che rinuncia
intenzionalmente alle lusinghe del mercato musicale mainstream. Il titolo
stesso evoca un senso di rischio e di totale esposizione, un richiamo a
confrontarsi con la realtà senza filtri né protezioni.
Concettualmente, l'opera si inserisce in una tradizione di
critica intellettuale che in Italia trova il suo parallelo più diretto
nell'eredità del Teatro Canzone di artisti come Giorgio Gaber, per la sua
critica radicale all'omologazione e l'uso del linguaggio come strumento di
risveglio. Stilisticamente, l'integrazione di Avant-garde e Rock Progressivo
Italiano (RPI) lo colloca idealmente nella scia dei progetti storici più
concettuali (come le prime opere degli Area o certi approcci di Franco Battiato).
Nota: le analogie con queste figure storiche non vogliono
suggerire una dipendenza stilistica, ma rappresentano piuttosto quel "profumo
di..." che, a tratti, si avverte nell'ascolto: un'eco lontana di
un'attitudine o di una tensione creativa già esplorata, ora rielaborata in
chiave assolutamente personale.
È un'opera che, secondo gli autori stessi, rappresenta un veemente
atto d'accusa e un "grido" contro la massificazione culturale e l'appiattimento
del pensiero imposto dalla società contemporanea. L'album non si limita a un
commento, ma si erge a vero e proprio manifesto filosofico-artistico.
Il compositore e tastierista Mirko
Jymidipinge un paesaggio sonoro
eclettico, attingendo alla sua vasta esperienza che spazia dal Dark Ambient e Avant-garde
fino al Jazz e al Progressive. Le musiche non sono semplici sottofondi, ma vere
e proprie architetture emotive che amplificano l'intensità del testo.
L'elemento a sorpresa è la partecipazione di musicisti
brasiliani. Questa fusione genera una tensione dinamica unica: la cupezza e
l'astrazione delle atmosfere elettroniche e jazzistiche si scontrano o si
fondono con la ricchezza ritmica tipica della musica sudamericana, creando un "oltre"
musicale che evade qualsiasi facile categorizzazione, fornendo la colonna
sonora per questo "film poetico".
Il ruolo di Gianni Venturiè centrale: l'album è strutturato come un "film
poetico" narrato attraverso la sua voce. La sua "cadenza
narrativa" è diretta, aspra e priva di compromessi.
Venturi utilizza la parola come uno strumento chirurgico per
dissezionare le ipocrisie della comunicazione moderna e le incongruenze
politiche, religiose e sociali. I suoi versi non cercano rassicurazione; al
contrario, instillano un senso di acuta consapevolezza e un pessimismo lucido,
derivato da una profonda osservazione della condizione umana. L'ascoltatore è
costretto a riflettere sul significato autentico delle parole, spogliate di
ogni retorica vuota.
"Senza Rete" è un'opera che richiede un ascolto
attivo e non convenzionale. Non cerca di piacere, ma di scuotere. È un progetto
di coraggiosa integrità artistica che unisce la sofisticata ricerca sonora di
Mirko Jymi con la tagliente e disperata poesia di Gianni Venturi. È consigliato
a chi cerca musica che vada oltre il puro intrattenimento, proponendo una esperienza
immersiva e concettuale che resiste all'omologazione con orgoglio, rivendicando
la propria identità di "nicchia nella nicchia".
Brevi Profili degli Autori
Mirko Jymi (compositore e tastierista)
Mirko Jymi è un musicista e compositore noto per la sua vastissima cultura
musicale. La sua carriera è caratterizzata da una curiosità onnivora che lo ha
portato a esplorare e padroneggiare generi complessi e interconnessi, tra cui
il Jazz, il Rock Progressivo, la Fusion, la Bossa Nova, e l'Ambient. La sua
esperienza gli consente di muoversi agilmente tra arrangiamenti ricchi e
atmosfere astratte, creando tappeti sonori che sono allo stesso tempo
tecnicamente sofisticati e profondamente evocativi.
Gianni Venturi (poeta, narratore e artista
sperimentale)
Gianni Venturi è una figura di spicco nel panorama della sperimentazione
musicale e poetica italiana, con un'attività che si concentra in particolare
nell'ambito Progressivo e Avant-garde. È conosciuto per la sua militanza in
progetti concettuali e di rottura come Altare Thotemico e la Banda Venturi. La
sua cifra stilistica è la narrazione schietta e concettuale, spesso intrisa di
un tono disincantato e critico. L'approccio di Venturi in "Senza
Rete" è il culmine di una carriera dedicata a utilizzare la parola non
solo per comunicare, ma per interrogare, sfidare e graffiare la superficie
delle convenzioni sociali e linguistiche.
Ricercando qualche
chicca nella mia raccolta video, ho trovato questa "Yer Blues", tratta da
"Rock
and Roll Circus",
ovvero due giorni di musica organizzati daiRolling
Stones, in un circo. Sono presenti lemigliori
band del 1968e, in alcuni
spezzoni, anche amici degli artisti e veri giocolieri, mangiafuoco e
trapezisti.
Insomma una sintesi dell’ambiente musicale della Londra del 1968.
Il video è stato
pubblicato soltanto nel1996e, considerando i partecipanti, vale
la pena di essere visto.
Cito ad esempioThe Who, Jethro Tull, Taj Mahal,
Marianne Faithfull, Yoko Ono.
Nell'eccezionale
spezzone seguente, oltre al presentatoreMick
Jagger, si possono vedere/ascoltareJohn
Lennon(chitarra ritmica e
voce),Eric Clapton (chitarra
solista),Keith Richard(sorprendentemente al basso) eMitch Mitchell (batteria, of
corse).
Il mondo del rock piange la scomparsa di Tetsu Yamauchi, l'influente bassista
giapponese che ha lasciato il segno in alcune delle band britanniche più
iconiche degli anni '70, tra cui Free e Faces. Yamauchi è morto
il 4 dicembre 2025 all'età di 79 anni.
Nato il 21 ottobre 1946 a Fukuoka, in Giappone, Tetsu
Yamauchi è emerso sulla scena musicale internazionale grazie al suo stile
fluido e radicato nel blues rock. La sua carriera lo ha visto inizialmente
attivo in Giappone e poi in Europa con la band prog-rock Samurai.
Il grande salto avviene all'inizio degli anni Settanta,
quando si trasferisce in Inghilterra e inizia una fruttuosa collaborazione con
i membri dei Free, Paul Kossoff (chitarra), Simon Kirke (batteria) e John
"Rabbit" Bundrick (tastiere), nel progetto Kossoff, Kirke, Tetsu
and Rabbit.
L'opportunità di unirsi ai leggendari Free arriva nel
1972, quando Yamauchi subentra al bassista originale Andy Fraser. La sua
presenza è fondamentale per il sound del loro ultimo album in studio, Heartbreaker
(1973), un disco che, nonostante le tensioni interne e la successiva rottura
della band, è ricordato per la sua intensità emotiva.
Subito dopo lo scioglimento dei Free, Tetsu è chiamato a
sostituire l'uscente Ronnie Lane nei Faces, la band capitanata da Rod
Stewart e Ronnie Wood. Sebbene il suo reclutamento sia avvenuto in un momento
di incertezza per la band, Yamauchi ne è stato un membro a pieno titolo per
oltre due anni.
Ha partecipato al tour mondiale del gruppo e compare
nell'ultimo singolo dei Faces, "You Can Make Me Dance, Sing or Anything" (1974), e nell'album live Coast to Coast: Overture and Beginners (1974). La sua partecipazione ha contribuito a mantenere viva
la sezione ritmica di una band nota per la sua energia grezza e spontanea.
Dopo lo scioglimento dei Faces nel 1975, Yamauchi ha
intrapreso una carriera solista e come session musician, pubblicando diversi
album come solista, tra cui il debutto del 1972, "Tetsu".
Verso la fine degli anni '70, è tornato in Giappone, continuando a registrare e
a esibirsi fino al suo ritiro dall'industria musicale alla fine degli anni '90.
Tetsu Yamauchi sarà ricordato come uno dei rari talenti
giapponesi ad aver raggiunto un posto di primo piano nella scena rock
britannica degli anni d'oro, portando il suo tocco unico in due delle
formazioni più celebrate dell'epoca.
Tre stagioni di musica tra analogico
e digitale, dal gruppo al controllo totale del suono
Questo articolo nasce da una intervista realizzata con Paolo
Siani, batterista e protagonista del progressive italiano con Nuova Idea e oltre, e si inserisce in un
progetto editoriale più ampio dedicato all’evoluzione della tecnologia
applicata alla musica. L’obiettivo è raccontare come la sua carriera abbia
attraversato tre stagioni distinte, segnate da un diverso equilibrio tra
creatività artistica e impronta tecnica.
Tre momenti, tre percentuali
Siani ricorda tre fasi precise del suo percorso:
Con
il gruppo:
all’inizio il rapporto era 50/50 tra contributo artistico e visione
tecnica del produttore, poi diventato 70/30 a favore del gruppo.
Come
batterista professionista: la percentuale si invertì, 30/70, perché la figura
dell’arrangiatore risultava determinante.
Oggi: il controllo è totale, 100% a
suo favore. Dopo settant’anni di musica, osserva con ironia, “è quasi un
diritto”.
Produttori e decisioni
Non ha mai avuto esperienze con “produttori fantasma”: ha
sempre lavorato con persone consapevoli del lavoro da affrontare. Le decisioni
più difficili furono prese dal gruppo stesso, come il rifiuto di partecipare a
Sanremo, giudicato troppo commerciale rispetto al loro target musicale. Una
scelta discutibile, ma coerente con la loro visione.
Giovane convinzione e produttori
marginali
Alla domanda se il produttore fosse stato più “psicologo” o
“giudice critico”, Siani risponde con sincerità: a vent’anni non c’è spazio per
nessuno, si è troppo convinti delle proprie idee per accettare opinioni altrui,
salvo errori clamorosi.
In generale, la figura del produttore discografico non ebbe
mai grande impatto nella sua storia musicale, soprattutto in Italia fino agli
anni ’80, dove spesso appariva inutile o addirittura controproducente.
Suoni da digerire e mixaggi da
recuperare
Può capitare, per mancanza di tempo, di dover accettare suoni
non perfettamente “commestibili”. Siani però riuscì quasi sempre a recuperarli
in fase di mixaggio, dimostrando un approccio pragmatico e resiliente.
Analogico e digitale
La sua età lo lega inevitabilmente all’analogico, con le sue
imperfezioni. Tuttavia, riconosce che il digitale ha “democraticizzato” la
registrazione, nel bene e nel male. Oggi le registrazioni degli anni ’70
avrebbero un suono decisamente migliore grazie alle tecnologie moderne.
Tecnici e invenzioni accidentali
Ha avuto la fortuna di lavorare con ottimi professionisti,
senza mai dover imporre o subire scelte non condivise.
Sul fronte delle invenzioni accidentali, ricorda con ironia
due episodi:
una
moneta caduta e rotolata vicino a un microfono Neumann U87, idea poi
“soffiata” da un disco dei Gentle Giant;
con
l’Equipe 84, il suono della sua pancia registrato al posto della cowbell
nell’LP Sacrificio.
Accanto a queste esperienze, resta la presenza del cosiddetto
tecnico fantasma: una figura che lavora nell’ombra, non cerca
visibilità, ma garantisce solidità e continuità al suono.
Hardware etensione della registrazione
Se potesse riportare in vita un pezzo di hardware analogico,
sarebbe un registratore multitraccia Studer a 24 piste. Perché? Perché
cambierebbe totalmente l’approccio alla registrazione. Oggi, con tracce
illimitate, il musicista sente meno la tensione del “non dover sbagliare”, e
quindi anche meno pathos.
Personalità e ottimizzazione
Nell’era di Pro Tools e dei plugin, Siani considera
l’ingegnere un ottimizzatore delle risorse, non una figura creativa. L’impronta
sonora unica resta sempre legata alla personalità del musicista o del
produttore.
Batteria, synth e Mellotron
Registrare la batteria negli anni ’70 era complicato: poche
tracce disponibili, compressori da condividere, nessuna memoria sui mixer. Per
questo serviva una prima sessione in solitario per trovare i suoni giusti. In
seconda battuta, Siani amò sperimentare con strumenti come synth e Mellotron,
cercando un colore particolare per ogni brano.
Errori delle band indipendenti
Secondo Siani, l’errore più comune delle band indipendenti è
curare molto le registrazioni individuali e trascurare il mixaggio e il suono
d’insieme. Affidarsi solo alla propria poca esperienza, senza collaboratori
esperti, porta a risultati mediocri.
Conclusione
La testimonianza di Paolo Siani attraversa tre stagioni della
musica italiana: dal gruppo al professionismo, fino al controllo totale del
suono. Tra ironia e lucidità, emerge una visione chiara: la tecnologia cambia,
ma il cuore del sound resta nella personalità e nella tensione creativa del
musicista.
Le band folk e folk rock sono
responsabili di alcune delle musiche più progressive mai realizzate. Non solo,
ma hanno influenzato il mondo del rock come lo conosciamo noi.
È una scienza imprecisa cercare di definire la musica per
categoria e genere. Gli artisti si scagliano contro di essa, i critici si
sforzano di inchiodarla nei termini più semplici, nelle definizioni più comode
e nelle frasi ad effetto. Ma, in definitiva, è utile cercare di spiegare il
legame che artisti apparentemente diversi possono condividere. Quindi, che tipo
di folk è questo genere che chiamiamo folk progressivo?
Bene, esattamente questo: gruppi folk e artisti che hanno
osato espandere i propri orizzonti rispetto al formato tradizionale. Nel
profondo, la musica folk urla tradizione. Le canzoni folk vengono tramandate di
generazione in generazione. Sono canzoni cantate nei pub e nei salotti di tutto
il mondo. In quanto tale, la vera musica folk è un importante strumento
storico.
Un contestatore al Manchester Free Trade Hall il 17 maggio
1966 chiamò Bob Dylan "Giuda" per aver osato espandere le sue radici
folk, abbandonare la sua acustica malconcia e prendere e collegare una chitarra
elettrica, ma in verità il folk è spesso stato tra le forme di musica più
progressiste. Doveva esserlo, semplicemente per sopravvivere così a lungo. La
musica ha dovuto cambiare con i tempi.
Ai tempi in cui non c'erano le chitarre, la musica folk
veniva cantata a cappella di default. Poi a volte veniva cantata a cappella di
proposito. Poi, quando la tecnologia ci ha portato chitarre, mandolini,
pianoforti, chitarre elettriche, sitar, mellotron e migliaia di altri
strumenti, la musica folk poteva essere suonata su qualsiasi cosa.
Gli artisti folk sono al centro delle forme di musica rock.
Ammettiamolo, senza folk e blues non ci sarebbe il rock'n'roll. Senza
l'innovativo lavoro di chitarra di Bert Jansch dei Pentangle o l'intrigante
modo di suonare di Roy Harper, i Led Zeppelin avrebbero probabilmente avuto un
suono molto diverso. Se Rick Wakeman non avesse iniziato la sua odissea
musicale con gli Strawbs e non avesse abbracciato la loro natura progressiva,
sicuramente gli Yes sarebbero stati una bestia dal suono completamente diverso.
Probabilmente la rock band più influente e grande del mondo
avrebbe potuto svilupparsi in un modo totalmente diverso se non si fosse
incrociata con un folk progressivo. Se Donovan non avesse ampliato le sue prime
inclinazioni folk e non si fosse seduto a suonare la chitarra con John Lennon e
George Harrison, i Beatles, forse, non avrebbero suonato come la band che
conosciamo oggi.
I folk progressisti non avevano (e non hanno ancora) paura di
sperimentare, sia vocalmente, sia nei testi, sia in termini di arrangiamento,
usando musicisti extra, orchestre o semplicemente armeggiando con le loro
chitarre che suonano così incredibilmente aliene. Usare violini e chitarre elettriche,
sitar e zucche, voci all'unisono e linee di chitarra brucianti è la normalità
per i nostri amici progressisti, e dobbiamo esserne loro grati.
Pentangle, da Londra
Formazione classica: Terry Cox
(batteria e voce), Bert Jansch (chitarra e voce), Jacqui McShee (voce), John
Renbourn (chitarra e voce), Danny Thompson (contrabbasso).
Supergruppo folk? Beh, se mai ne è esistito uno, allora è
sicuramente quello dei Pentangle.Due luminari del folk revival degli anni '60 si sono
uniti per creare una gloriosa cacofonia di rumore folk progressivo: i
chitarristi Bert Jansch e John Renbourn si sono uniti all'inizio del 1968 con
la voce cristallina di Jacqui McShee, il contrabbassista Danny Thompson e il
batterista Terry Cox. La sezione ritmica proveniva entrambi da un background
jazz/blues che avrebbe avuto una profonda influenza sul sound della nuova band.
Jansch (una grande influenza su Jimmy Page dei Led Zep) e
Renbourn avevano stili di chitarra diversi che si scontravano delicatamente,
bruciavano e sottolineavano la voce slanciata di McShee. I ritmi jazzati che
Thompson e Cox portarono alla band fornirono una leggerezza al folk rock
prevalentemente acustico dei Pentangle.
Avendo i mezzi per realizzare che il rock e il folk non
devono necessariamente escludersi a vicenda, la band arruolò il produttore Shel
Talmy (che aveva lavorato sia con The Who che con The Kinks) per dare forma al
loro sound. Mixarono con successo canzoni folk tradizionali come “Let No Man Steal Your Thyme” con standard jazz di artisti del calibro di Charlie Mingus.
I Pentangle hanno avuto un notevole successo mainstream: il
loro terzo album “Basket Of Light” è entrato nella Top Five nel Regno Unito ed
è rimasto nella classifica degli album per oltre sei mesi. La loro influenza
rimane profonda e, infine, quest'anno la band è stata riconosciuta per i suoi
risultati e la formazione originale si è riunita per i BBC Radio 2 Folk Awards,
dove hanno ricevuto un Lifetime Achievement Gong. E ovviamente hanno anche
suonato.
Formazione classica: Dave Cousins
(chitarra e voce), John Ford (basso e voce), Richard Hudson (batteria e
percussioni), Rick Wakeman (tastiere),Tony Hooper (chitarra)
Sia Rick Wakeman degli Yes che Sandy Denny dei Fairport
Convention hanno trascorso del tempo con gli Strawbs
prima di avventurarsi nel loro futuro progressivo. L'album di debutto degli
Strawbs è riuscito a cavalcare i confini tra folk e prog rock più tradizionale
con canzoni come “Oh How She Changed” e “The Battle”.
Ma la band non riuscì a mantenere questo ritmo con la loro
seconda uscita “Dragonfly” nel 1970, e il membro fondatore Dave Cousins
coinvolse Rick Wakeman. Questa collaborazione fu un successo e gli Strawbs
pubblicarono un autentico album crossover folk rock/prog rock chiamato “Just A Collection Of Antiques And Curios”.
Registrato dal vivo alla Queen Elizabeth Hall di Londra nel
luglio 1970, il disco ha visto la band estendersi e include un'esaltante
performance di Wakeman su “Temperament For A Mind”. Se non altro, questo è
stato il disco che ha segnato in modo succinto la transizione degli Strawbs dai
folk al rock progressivo più tradizionale. “Bursting At the Seams” del 1973 ha
finalmente prodotto alla band un singolo di successo in “Part Of The Union”, ma
ormai i loro inizi folk stavano svanendo.
Formazione classica: Robin Williamson
(violino), Mike Heron (chitarra), Licorice McKechnie (voce e piatti a dita), Clive Palmer (banjo)
Non si penserebbe necessariamente che Glasgow sia il luogo da
cui il folk progressivo ha tratto le sue influenze indiane e africane, ma The
Incredible String Band ha preso il suo marchio infuocato di folk celtico e lo
ha mescolato con alcuni sapori molto internazionali. Il chitarrista Mike Heron
e il suo compagno di crimine violinista Robin Williamson sono riusciti senza
sforzo a fondere sfumature indiane e africane nella loro musica.
Le cose arrivarono davvero al culmine dopo che Williamson
trascorse un po' di tempo in Marocco, dando vita al completo, impossibilmente
eclettico “The 5000 Spirits Or The Layers Of The Onion” nel 1967 (che vedeva
anche Danny Thompson dei Pentangle al basso). Molti critici lo citano come un
disco psichedelico, ma se questo non è il titolo di un album prog, non sappiamo
cosa lo sia.
Nonostante le sue canzoni disparate, insolite e, francamente,
folli (con testi su ricci canterini e riferimenti casuali agli alberi di
Natale), la comunità folk lo adorava. “The Hangman's Beautiful Daughter” seguì
nel 1968, e fu altrettanto psichedelico.
Il contributo di Roy Harperal folk progressivo non può essere sottovalutato.
Cresciuto nella scena folk londinese della metà degli anni '60, Harper si è tenuto
alla larga dall'interpretazione degli standard folk e si è concentrato sul suo
materiale fin dall'inizio. I suoi primi album consistevano nel suo eccentrico
lirismo poetico sostenuto dal suo intrigante modo di suonare la chitarra
acustica.
Cercando sempre di spingere i confini del folk tradizionale,
Harper era creativo con la sua esplorazione sonora: un primo album (“Flat Baroque And Berserk“) lo vedeva suonare la sua chitarra acustica attraverso un
pedale wah-wah nel brano "Hell's Angels". Mentre Hendrix ci aveva fatto conoscere
il wah-wah su una chitarra elettrica, ascoltare l'effetto su uno strumento più
tradizionale era sorprendentemente diverso.
Harper aveva sempre ampliato il formato della canzone e il
suo quinto album distintivo galvanizzò questo talento. Con solo quattro
canzoni, “Stormcock” era un'opera sbalorditiva, che spaziava liricamente dalla
religione che criticava (“The Same Old Rock”, una canzone che presenta un cameo
furtivo di Jimmy Page mascherato da S. Flavius Mercurius) a “Me And My Woman”,
un tributo epico alle donne della sua vita, sottolineato da un grande
arrangiamento orchestrale. Tanto di cappello a (Roy) Harper, davvero.
Chitarrista e cantante fenomenale, John Martynha cambiato il suo
stile di folk progressivo nel corso della sua lunga e brillante carriera.
Rifuggendo il folk tradizionale, Martyn incluse molti
elementi sia del blues che del jazz nei suoi primi lavori. Ciò fu ulteriormente
esaltato dai suoi trucchi con la chitarra. Senza paura di sperimentare, Martyn
fece passare la sua chitarra acustica attraverso molti pedali di effetti, dalla
distorsione (tradizionalmente usata con uno strumento elettrico) al flanger e
al phase-shifter, trasformandone il suono in qualcosa di alieno e unico.
Per molti, il modo di suonare di Martyn è sinonimo di
Echoplex, un'unità che aggiunge un eco/ritardo al suono della chitarra,
rendendolo distintivo e ultraterreno. Questo processo è stato utilizzato per
ottenere un effetto raffinato sulla traccia “I'd Rather Be The Devil”
nell'album “Solid Air di Martyn” del 1973, la cui traccia del titolo era un
omaggio all'amico di John e collega folk prog Nick Drake.
Nel corso della sua carriera, Martyn ha abbracciato tutti gli
stili musicali nel suo modo di suonare idiosincratico. Ha persino lavorato con
il flautista/sassofonista jazz Harold McNair per il suo secondo album, "The Tumbler". Pur rimanendo un folkie nel profondo, Martyn ha spinto i confini
musicali per tutta la vita. E se questo non è progressive, non sappiamo cosa lo
sia!
Sottovalutato in vita (morì nel 1974 all'età di 26 anni per
overdose di antidepressivi), Nick Drakeriuscì comunque a cambiare la percezione della musica
folk tradizionale, seppur postuma. Cronicamente timido e ostinato dalla
depressione e dall'insonnia, Drake non fu mai veramente tagliato per essere un
artista, ma furono queste condizioni psicologiche a influenzare chiaramente la
natura inquietante del suo lavoro.
Principalmente un chitarrista (e uno che usava alcune delle
accordature più strane e innovative immaginabili), i testi di Drake
riflettevano spesso il suo fragile stato mentale. Ma fu la combinazione del suo
modo di suonare idiosincratico, dei testi toccanti e degli abili arrangiamenti
orchestrali del suo amico di college e collaboratore Richard Kirby che
portarono davvero Drake oltre l'essere un semplice cantautore qualunque. Il suo
secondo album ("Bryter Later") avrebbe persino contenuto elementi di jazz.
Con solo tre album all'attivo, Drake è stato poco più di una
figura di culto durante la sua vita. Suonava raramente dal vivo e, nonostante
fosse stato scoperto da Ashley Hutchings dei Fairport Convention, la scena folk
non lo abbracciò mai veramente. Rimase un musicista per musicisti fino alla fine
degli anni '80, quando iniziò a essere citato nella stampa musicale popolare.
Oggi, Nick Drake è probabilmente il cantante folk progressivo
più citato nella cultura mainstream.
Formazione classica: Sandy Denny
(voce), Dave Swarbrick (violino e viola), Richard Thompson (chitarra e voce),
Simon Nicol (chitarra e voce), Ashley Hutchings (basso e voce), Dave Mattacks
(batteria e percussioni)
I Fairport Conventionnacquero nel 1967 a Muswell Hill, Londra. Frutto
dell'ingegno del bassista Ashley Hutchings, dei chitarristi Richard Thompson e
Simon Nicol, i Fairport erano una band che inizialmente aveva un grande debito
nei confronti della musica folk tradizionale americana e della nascente scena
acustica della West Coast.
Prima che il loro album di debutto omonimo arrivasse sugli
scaffali nel 1968, i Fairport avevano già sostituito la loro cantante solista
Judy Dyble con Sandy Denny. Conteneva principalmente materiale originale,
scritto principalmente da Thompson, fatta eccezione per una cover di Chelsea
Morning di Joni Mitchell. Il loro sound era abbastanza eclettico da attirare un
po' di attenzione e la band fu persino brevemente definita "i Jefferson
Airplane britannici".
L'aggiunta di Denny portò la band a vette più alte. Fresca
del suo periodo negli Strawbs, era una voce familiare al contingente folk
tradizionale. Il secondo album della band (“What We Did On Our Holidays”, 1969)
mescolò le cose: la band affrontò canzoni di Mitchell e Bob Dylan insieme a
melodie folk tradizionali inglesi.
Con “Unhalfbricking” (luglio '69) la band continuò su questa
strada, ma dopo un tragico incidente stradale in cui perse la vita il
batterista Martin Lamble, la band si riunì per registrare la loro definitiva
affermazione “Liege And Lief”. Il violinista Dave Swarbrick si unì a tempo
pieno e la band si immerse nel materiale, dai feroci riff acustici al violino
ad alto voltaggio, il tutto completato dalla straordinaria voce di Sandy Denny.
Sarebbe stato il loro momento decisivo, ma avrebbe anche
decretato la fine della formazione classica. Verso la fine del 1969, sia
Hutchings che Denny avevano lasciato la band.
Tim Buckley, a cavallo tra il mondo del prog folk e quello della
psichedelia, è stato uno dei cantautori più intriganti della fine degli anni
'60.
Sebbene la musica folk fosse sicuramente al centro della sua
attività, Buckley riuscì a infondere nella sua scrittura di canzoni elementi di
così tanti stili musicali diversi, dal progressive jazz alla West Coast
country. Di conseguenza, molti detrattori di Buckley (e persino fan) lo
criticano per il suo sound non coerente.
E, con il passare degli anni, Buckley si interessò sempre di
più al jazz, infondendo nel suo lavoro una bravura che raramente si sente nel
folk. Avrebbe usato la sua voce come uno strumento d'avanguardia e, come tale,
l'album “Lorca” del 1970 lo alienò da molti dei suoi fan. Sparito il cantautore
sensibile e pieno di sentimento, al suo posto c'era uno sperimentatore
eccentrico, pieno di scat vocali su jam stridenti e discordanti.
Purtroppo, il 1975 segnò la fine del viaggio musicale di
Buckley, che morì per overdose di eroina. Ma, per quanto riguarda i folkster
progressisti, Buckley rimane ancora all'avanguardia.
Formazione classica: Tim Hart
(dulcimer, chitarra e voce), Bob Johnson (chitarra e voce), Rick Kemp (basso,
batteria e voce), Peter Knight (violino, tastiere e voce), Maddy Prior (voce)
Quando lasciò i Fairport Convention, il bassista Ashley
Hutchings aveva bisogno di un altro progetto: non aveva ancora finito nel mondo
progressive. Così si unì ai folk affermati Maddy Prior e Tim Hart per creare
gli Steeleye Span. Ma il mandato di
Hutchings non durò a lungo e dopo tre album prese strade diverse.
Questo non significò la fine degli Steeleye, però. La band
aveva lavorato duramente per tutta la sua esistenza per essere accolta nel
mondo del rock. Così decisero di continuare. Sfruttando un lato più duro e
proggy, gli Span pubblicarono “Below The Salt” (1972) e “Parcel Of Rogues”
(1973). Le grandi chitarre rock lottarono per la supremazia tra i violini
elettrici killer e le loro ormai caratteristiche linee vocali armoniche.
Per promuovere il loro sound prog folk, la band ha coinvolto
Ian Anderson dei Jethro Tull per produrre “Now We Are Six” (che ha visto anche
la partecipazione di nientemeno che David Bowie al sax), un album di canzoni
folk principalmente tradizionali con il trattamento Steeleye. La loro svolta
commerciale è arrivata sotto forma di “All Around My Hat” (1975) prodotto da
Mike 'Womble' Batt, e nel 2019 la band ha pubblicato il suo 24° album in
studio.
Spesso è stato chiamato "mellow yellow", ma Donovan è molto più di quel successo del 1966.
Salito alla ribalta nello stesso periodo in cui Bob Dylan stava facendo
progressi negli Stati Uniti, Donovan è stato spesso ingiustamente etichettato,
o addirittura liquidato come "il Dylan britannico".
Ma questo non sorprende affatto, dato che sia Dylan che
Donavan ammiravano il lavoro di Woody Guthrie e di altri primi folk americani
tradizionali. Il cantante fu anche influenzato dalla musica folk scozzese e
inglese (trascorse del tempo su entrambi i lati del confine durante la sua
crescita), e prese in mano la chitarra in giovane età e iniziò a imparare a
suonarla da solo. In termini di chitarra, il collega folk Bert Jansch ebbe
un'enorme influenza sul giovane chitarrista, tanto che Donovan scrisse la canzone
“Bert's Blues” in omaggio.
Una volta perfezionato, lo stile di Donovan nel suonare la
chitarra era davvero distintivo: sviluppò la sua tecnica distintiva, il
"flatpicking", e spesso gli viene attribuito il merito di aver
insegnato questo specifico stile di picking a George Harrison, Paul McCartney e
John Lennon dei Beatles mentre erano tutti in ritiro in India con il Maharishi.
Donovan non si accontentava di scrivere semplici canzoncine
folk acustiche e leggere; il suo sound si sarebbe presto evoluto, incorporando
elementi jazz (era un grande ammiratore di Billie Holiday), sfumature
psichedeliche e, grazie al suo soggiorno in India, orchestrazioni di sitar.
Nonostante avesse ampliato i suoi orizzonti musicali e reso
il suo genere folk il più progressivo possibile, Donovan rimase comunque una
presenza fissa sulla scena folk britannica, riuscendo a coinvolgere il suo
pubblico anziché alienarlo.
Oggi, Donovan continua questo viaggio musicale e ha
pubblicato il suo album più recente, “Gaelia”, nel dicembre 2022. Attualmente
si sta preparando per gli spettacoli del 60° anniversario nel 2025.
C’è un vento che soffia sulle dune, e porta con sé sabbia,
sale e memoria. Tra i cardi e le erbe spontanee che resistono al mare, nasce
un’immagine fragile e tenace: l’“erva de
ientu”, l’erba di vento che gli anziani salentini chiamavano
così, quasi a riconoscerne la forza silenziosa. È da questa immagine che prende
vita il nuovo lavoro di Airportman
insieme al pittore Egidio Marullo.
Il progetto appare come un viaggio che intreccia suono e
pittura, radici e resistenza. Ogni brano è accompagnato da un’immagine, e ogni
immagine diventa tappa di un percorso che si guarda e si ascolta allo stesso
tempo. Sei quadri, sei titoli, sei atmosfere: Erva de ientu, Sentiere,
Èpopteìa, I cardi e l’alba, Orazione, Elegia.
Il lettore e l’ascoltatore sono invitati a entrare in questo
paesaggio sospeso, dove la musica si fa pigmento e la pittura vibra come suono.
È un’opera che chiede tempo, attenzione e apertura, come un sentiero che si
percorre lentamente, lasciandosi guidare dal vento.
Ogni quadro di Marullo dialoga con un brano di Airportman, e
insieme costruiscono un’opera che non si limita al suono ma si apre a
un’esperienza multisensoriale.
Erva
de ientu - L’immagine
iniziale è essenziale, quasi scarna, come la pianta che resiste al vento.
La musica che la accompagna è fragile e sospesa, ma proprio in questa
fragilità si trova la forza. È l’apertura del viaggio, il manifesto di
un’estetica che celebra la resistenza silenziosa.
Sentiere
- Qui la
pittura suggerisce un cammino, una traccia che si perde e si ritrova. La
musica diventa passo lento, esplorazione interiore. È come seguire un
sentiero che non porta a una meta precisa, ma invita a perdersi nel
paesaggio.
Èpopteìa
- Il titolo
enigmatico richiama ritualità e visioni iniziatiche. L’immagine sembra
custodire un mistero, un segno che non si lascia decifrare subito. La
musica accompagna con atmosfere più dense, quasi sacrali, come se ci
trovassimo di fronte a un rito segreto.
I
cardi e l’alba -
La pittura evoca l’asprezza dei cardi, ma anche la luce che sorge. È un
contrasto tra durezza e rinascita. La musica riflette questa tensione:
suoni spigolosi che si aprono a una luminosità improvvisa, come il primo
chiarore del giorno.
Orazione-L’immagine qui si fa più
meditativa, quasi liturgica. La musica è contemplativa, lenta, come una
preghiera che non chiede ma ringrazia. È un momento di raccoglimento, di
sospensione, dove il tempo sembra fermarsi.
Elegia
- L’ultima
immagine è malinconica, ma non cupa. È memoria, è ricordo. La musica
chiude il viaggio con un tono elegiaco, lasciando l’ascoltatore in uno
stato di quieta riflessione. Non c’è finale netto, ma un dissolversi che
invita a restare nel silenzio.Registrato alle Airport Officine nell’inverno 2024/2025,
mixato da Paolo Bergese e rifinito da Paride Lanciani presso Oxygen Studio, Erva
de ientu esce per Lizard Records nella collana Open Mind. Una
cornice perfetta: perché questo è un lavoro che richiede apertura, ascolto
lento, disponibilità a contemplare.
Musicalmente, Airportman conferma la sua vocazione per un
suono sospeso tra ambient e post-rock, dove il silenzio è parte integrante
della composizione. Non ci sono esplosioni o virtuosismi, ma tessiture
rarefatte, elegiache, capaci di evocare paesaggi interiori e naturali. È una
musica che non si consuma in fretta, ma che chiede tempo e attenzione, come un
quadro che si osserva a lungo per coglierne le sfumature.
Le immagini che accompagnano il disco – segni astratti,
figure frammentarie, tipografie essenziali – non cercano di spiegare, ma di
evocare. La palette cromatica sobria, fatta di bianchi, neri e grigi, amplifica
il senso di resistenza silenziosa. È come se la grafica fosse anch’essa un
paesaggio: dune che respirano, spazi che si aprono, simboli che rimandano a un
mistero più grande.
Erva de ientu è una vera e propria esperienza multisensoriale, un viaggio
che unisce suono e immagine, fragilità e resistenza, natura e arte. È un lavoro
che parla di radici e di vento, di ciò che sembra fragile ma in realtà è capace
di durare.
Un incontro tra musica e pittura che diventa esperienza, e
che invita chi ascolta e chi guarda a lasciarsi attraversare, come l’erba di
vento che resiste sulla sabbia.
Venerdì 5 dicembre uscirà per Lizard RecordsErva de ientu, un
album che unisce sei brani di Airportman a sei acquerelli di Egidio
Marullo, pensati per dialogare con la musica e valorizzati dal formato
20x20. La gestazione è stata veloce e libera: un lavoro a distanza, fatto di
confronti periodici e di rimandi poetici tra immagini e suoni.
Con una ventina di dischi all’attivo, Airportman rappresenta
una delle realtà più solide e tenaci del rock indipendente italiano, custode di
un’idea di musica totale che nasce dalla provincia e dalla periferia, e che
continua a resistere grazie alla visione di Loris Furlan e della sua Lizard
Records.
Commento all'evento: Live Aid – Un ponte
tra storia e solidarietà
La serata del 5 dicembre 2025, presso la Sala
Stella Maris di Savona, ha celebrato in grande stile un anniversario
fondamentale della storia della musica e della televisione: i 40 anni dal Live
Aid (13 luglio 1985), con la presentazione del volume “LIVE AID – Il juke-box globale compie 40 anni”
di Angelo De Negrie Aldo Pedron.
L'evento si è rivelato un successo su tutta la linea. La sala
strapiena e il pubblico attento e partecipativo hanno creato l'atmosfera ideale
per ripercorrere un'epoca e un evento che hanno ridefinito il concetto di
musica come veicolo di solidarietà globale.
Il cuore della serata è stato il dialogo tra il co-autore Angelo
De Negri e lo storico Giovanni Fabbi (autore dell'inquadramento
dedicato agli anni Ottanta in Usa e Uk). Il confronto ha saputo intrecciare con
grande profondità l'analisi del contesto storico e musicale che portò alla
realizzazione del Live Aid.
Si è spaziato dai grandi brani solidali che fecero da
apripista - come Do They Know It’s Christmas? dei Band Aid e We Are
the World degli Usa for Africa - fino alla ricostruzione della giornata del 13 luglio 1985, con una buona aneddotica, gradita dai presenti. Gli interventi hanno ben
evidenziato come il volume sia un'opera essenziale non solo per i fan della
musica, ma per chiunque voglia comprendere il primo grande spettacolo
televisivo benefico mai realizzato, toccando temi centrali come l'altruismo e
l'immenso sforzo tecnologico che rese possibile il tutto.
A fare da cornice musicale alla presentazione, in un set
intimo e acustico al servizio dello spirito solidale dell’evento, sono stati
gli ospiti speciali The Cost of Freedom,
che hanno proposto un sentito omaggio con sette brani eseguiti originariamente
al Live Aid, sottolineando il ruolo della musica come forza motrice per il
cambiamento.
I presentihanno potuto
riascoltare, ma in chiave acustica, sette brani simbolo del Live Aid:
Brano
Artista (Live Aid, 13 Luglio 1985)
Imagine
Patty LaBelle (a Philadelphia)
Let It Be
Paul McCartney (a Londra)
All You
Need Is Love
Elvis Costello (a Londra)
Teach Your Children
Crosby,
Stills and Nash (a Philadelphia)
Southern Cross
Crosby,
Stills and Nash (a Philadelphia)
Blowin' in the Wind
Bob Dylan (a Philadelphia)
We Are the
World (Finale)
USA for Africa (eseguita come finale con tutti gli artisti a
Philadelphia)
I The Cost Of Freedom hanno proposto un set acustico
elettrificato ridotto, pensato per la serata. La band è la seguente: Ivo
Bologna (basso e cori), Marco Briano (chitarra 12 corde e cori), Fabrizio
Cruciani (cori e percussioni), Athos Enrile (chitarra e cori) e Roberto Storace
(voce, chitarra 12 corde, armonica e arrangiamenti).
In conclusione, la presentazione è stata un’occasione ricca e
stimolante che, a quarant'anni di distanza, ha saputo riaccendere i riflettori
su un evento spartiacque, confermando che il Live Aid non è solo un ricordo, ma
un modello per la solidarietà globale, magnificamente documentato in questo
nuovo volume.