mercoledì 31 dicembre 2014

Roberto Ciotti nel ricordo di Guido Bellachioma




Il 31 dicembre 2013 moriva Roberto Ciotti "uomo di blues": il ricordo di Guido Bellachioma

A ROBERTO CIOTTI (20 febbraio 1953 - 31 dicembre 2013):
FROM MY BLUES TO MY SOUL: UN ANNO E SEMBRA... ORA!

Giusto un anno fa scompariva Roberto Ciotti, artista che ha attraversato il blues con un uragano di emozioni. Sembra ieri, eppure è trascorso già un anno. Per ricordare di non dimenticarlo voglio ripubblicare ciò che ho scritto a pochi giorni dalla sua morte, un po' di foto, copertine e poster di momenti vissuti insieme.

... il 31 dicembre 2013 a Roma muore Roberto Ciotti, persona ruvida nel suo modo di essere ma, anche per questo, estremamente vera, oltre che artista e chitarrista, non solo blues. Una malattia bruciante l’ha consumato in pochissimo tempo. Prima di lasciare questa terra, ha sposato Adriana, che con amore gli è stata vicina fino all’ultimo. Non mi piacciono i santini, non mi sono mai piaciuti, e non piacevano neanche a Roberto. La sua anima era la musica stessa“… e sento che il meglio non è ancora arrivato. Come Jimi Hendrix, quando affermava di picchiare talmente forte con la sua musica sull’anima da riuscire ad aprirla: “Continuerò a picchiare forteogni giorno che suonerò la mia musica".(Roberto Ciotti).

di Guido Bellachioma

Al funerale di Roberto, Chiesa degli Artisti a Piazza del Popolo, c'era tanta gente... gente normale e qualcuno "conosciuto", ho notato con piacere molti che avevano suonato con lui (non cito nessuno per non far torto a... nessuno). L'unico che mi sento di abbracciare è Fabio Treves, altro bluesman italiano di quella generazione (nato 4 anni prima). Durante la fulminante malattia è venuto a Roma da Milano 2 volte per andarlo a trovare in ospedale. Cercando di strappargli un sorriso col suo milanese romanizzato, codice complice di queste due anime in blues. Non sono entrato in chiesa, ho scherzato e riso, abbracciato amici che non vedevo da tanto tempo, ma al momento che hanno portato la bara fuori ho faticato a ricacciare indietro le lacrime e, forse, una mi è scappata fuori... non c'è l'ho fatta a non ricordarlo come volevo io, non era un santo e non voleva esserlo, però era vero, anche nelle sue debolezze così umane... come le mie.
L'ho conosciuto alla fine degli anni 60 (1969... 14 anni io, 16 lui), andavamo nella stessa scuola, il liceo scientifico Marcello Malpighi di Roma). Io molto comunista, lui molto freakkettone. Due mondi vicini ma non proprio sovrapponibili, almeno allora. La prima volta che lo sentii suonare fu nel 1970, durante il primo festival pop nella nostra scuola, quando militava nellHarp Blues Band, gruppo il cui repertorio pescava brani nel blues revival, britannico e statunitense, che io adoravo: Savoy Brown di Kim Simmonds, Bluesbreakers di John Mayall, Rory Gallagher, Fleetwood Mac di Peter Green, Canned Heat di Al Wilson e Bob Hite, Ten Years After di Alvin Lee rimasi fulminato dallo stile aggressivo e dalla presenza di questo ragazzetto dai lunghi capelli e silenzioso, allora magrissimo, ma che faceva parlare la chitarra come pochi altri. La sua versione di Me And My Baby, proprio dei Ten Years After, cover praticamente in diretta dallo splendido album Cricklewood Green, inciso pochi mesi prima, mi si stampò a fuoco nella testa e nel cuore. Pensai: questo non può che diventare un grande.
Infatti negli anni 70 e 80 si divertì con la sua musica e in giro con altri artisti: Alan Sorrenti, Francesco De Gregari, Edoardo Bennato, Antonello Venditti, Blue Morning con Maurizio Giammarco, Ginger Baker dei Cream. E poi i due dischi per la Cramps, i concerti prima di Bob Marley i viaggi fino a Marrakech, grazie alle colonne sonore dei film di Salvatores... la sbornia del successo nel 1989 con No More Blue, il suo brano più conosciuto, faceva sembrare normale che il blues potesse essere così maledettamente mediterraneo e melodico. Una ballata che ti spaccava il cuore in mille frammenti. In seguito, per tanti anni, ci siamo incrociati raramente in questa Roma frettolosa, anche musicalmente, città a cui lui era particolarmente legato le origini a Garbatella, il padre Giorgio, lavoratore alla Romana Gas, poi Italgas, sulla via Ostiense, dove molti ancora lo ricordano.
Andava sulle strade del mondo ma tornava sempre a Roma, anche quando sarebbe potuto, e dovuto, rimanere negli Stati Uniti, avrebbe faticato per riuscire ma poteva dare un senso più compiuto alla sua musica, d’altronde gli Stati Uniti sono o non sono la patria del Blues? Non se la sentì, troppo sornionamente romano per non sentire il peso dell’assenza dalla sua città.
Nel 2006 ci siamo riavvicinati e abbiamo fatto due dischi insieme (anche con un altro ragazzo della nostra scuola proprio Paolo Corciulo di SuonoMy Blues nel 2008 (CD+DVD live dal concerto romano della prima edizione dell’A Kind of Blues Festival, rassegna pazzesca che lo vedeva vicino a Joe Bonamassa, Hot Tuna, Jerry Portnoy, Preston Reed, Albert Lee, Dirty Dozen Brass Band) e Troubles & Dreams nel 2010, dove riuscii a convincerlo a non usare solo linseparabile Fender Stratocaster del 62 e l’acustica Martin D 421 del 70, che avevano contraddistinto i suoi lavori precedenti. Pensavo fosse giusto riscoprire il suo essere chitarrista, che secondo me teneva troppo nascosto; così sistemò il ponte della sua Gibson 335 del 64, tirò fuori il Dobro, ormai impolverato per la lunga assenza dalla sua musica, e persino la Gibson J45, splendida acustica dal suono nero. Quelle canzoni ascoltate su demo mi avevano affascinato, commosso, e pensavo che dovessero dare una svolta al suono pigro di Roberto, talmente riconoscibile da risultare quasi cristallizato. Gli dissi che volevo contattare due chitarristi con cui avevo buoni contatti, proprio per includerli nel disco, che allora aveva il titolo provvisorio di Blues Rider: Derek Trucks (Allman Brothers Band, Eric Clapton, vincitore del Grammy Award per il blues nel 2010) e Buddy Whittington (mastodontico texano, per 15 anni membro dei Bluesbreakers di John Mayall, amico di Billy Gibbons degli ZZ Top, con cui suonava spesso negli Stati Uniti!) mica due qualunque!!! E lui, serafico, davanti a un buon caffè in uno dei bar vicino casa sua a Porta Portese:”vabbeh, però je dico come devono suonare, magari je scrivo le parti, poi ascoltiamo quello che fanno e se ce piace lo usamo!!!”. Voleva dire a Trucks e Whittington, due che suonavano col mondo intero, quello che dovevano fare. Così era Roberto, talmente convinto di se stesso e delle sue canzoni da risultare autolesionista nella produzione, ascoltava solo se stesso, al tempo stesso la sua forza e la sua debolezza. Fiero come un orso, un orso blues, ma, anche se pacioso, sempre orso. In quel disco c’è una canzone reggae, molto solare, intitolata Hot Summer. Appena ascoltata gli dico:”Robbe, questa nun la sonà cor gruppo tuo, famola davvero Giamaica style con una band che ha accompagnato molti degli artisti reggae in giro per l’Italia negli ultimi anni (Laurel Aitken, Max Romeo, Alton Ellis) e che ha il suono giusto”. Telefono a Giulio di Radici nel Cemento e incidiamola con loro la tua chitarra blues in un vero suono reggae.
Stranamente l’idea gli piace e il gruppo delle Radici si dimostra entusiasta di fare questo brano con il Maestro, come mi dice Giulio al telefono, parliamo anche di presentare il brano dal vivo insieme, magari a Villa Ada dove loro hanno già il concerto fissato per lestate. Ci vediamo in cantina dove loro provano a Testaccio e dopo qualche giorno mi mandano il provino. Fico, penso io peccato che Roberto nel frattempo avesse già cambiato idea: ”No, mejo de no, snaturebbe il mio suono, magari facciamo un mix successivamente. Peccato, sono convinto che Troubles and Dreams poteva essere il disco più bello di Roberto. Canzoni meno canzoni con un suono più chitarristico che avrebbe valorizzato la sua straordinaria anima, selvaggia e malinconica al tempo stesso.
Durante quel disco capimmo che il tempo non aveva avvicinato i nostri caratteri e ci allontanammo nuovamente, solo fisicamente. Nel dvd di My Blues" c'è anche l'intervista che realizzammo sul palco di Stazione Birra nel 2006 per la trasmissione Indie, che all'epoca conducevo su Romauno... fu la volta che ci sentimmo più vicini... lui e io soli sul palco, in questo locale vuoto che aveva qualcosa di magico; lui suonò anche qualche canzone in acustico con la voce ispessita dal tempo e dal fatto di cantare alle 10 di mattina, con il sonno che ancora gli bruciava in gola. E cantò una splendida versione di Blue Square (inclusa nell’album No More Blue), struggente ballata che ho sempre amato molto, dedicata a una delle tante piazze di Roma...

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