martedì 1 agosto 2023

Commento al libro "La frattura spontanea della simmetria", di Antonio Papagni


Ho incontrato virtualmente Antonio Papagni nel 2019, quando commentai il suo “Dai Led Zeppelin allo Zen”, libro che mi coinvolse particolarmente per effetto di un certo parallelismo, di azione e pensiero, tra me e l’autore, due coetanei che hanno vissuto momenti simili e che sentono l’urgenza di salvare e proteggere ciò che viene ritenuto oggettivamente positivo - come esperienza, non sempre come esito finale - per poi condividerlo spudoratamente.

Musica e vita, almeno in quel caso.

Ed oggi mi ritrovo tra le mani un altro suo lavoro, frutto di un lustro di impegno, e sento l’importanza di dover dosare le parole.

La musica in questo caso esiste, perché è la nostra essenza, ma non rappresenta il fulcro del racconto di Papagni.

Ho impiegato un tempo di lettura lunghissimo, per me fatto inusuale, ma sentivo di dovermi soffermare su ogni anfratto, su ogni sentiero, entrando e uscendo dall’iter narrativo, avvertendo pressione e dolore, e anche se non ci sono tracce autobiografiche, quelle nubi scure e cupe che disegnano distopicamente la lettura non possono essere invenzione, magari elementi indotti o afferrati, racconti di terzi che improvvisamente si ritiene di fare propri.

Arrivato a tre quarti di libro ho sentito l’esigenza di fermarmi un attimo e raccogliere un po' di oggettività, un aiuto da parte dell’autore, e così ho formulato qualche semplice domanda che si è trasformata nell’intervista che propongo a seguire, e proprio dalla chiacchierata tra noi intercorsa arriva la sintesi del book, estrapolata dal pensiero di Papagni.

A proposito, il titolo è La frattura spontanea della simmetria, concetto su cui tornerò.

Questa è la vita di Ulrich Borromini, nato in un ambiente privilegiato, tormentato da quell’infelicità desiderante che prende chi tutto può desiderare ma poco e nulla riesce a prendere. Contraddizioni e contrasti con la sua classe sociale, sensi colpa per un mondo che non vede fatto nella giusta misura, lo conducono verso un serio disagio mentale. Uscito dal suo “anno sacro” (il 1986, in cui gli avvenimenti furono determinanti) grazie a un trattamento psichiatrico di élite, trova il suo punto di svolta nella psicoterapia lacaniana. E anche se riesce a realizzare importanti obiettivi (scrivere, insegnare e sposarsi con una donna eccezionale) i residui sintomi depressivi rimangono sempre costretti in una faglia interna.

“In fondo non sarebbe poi una gran cosa se morissi” ha pensato prima di lasciarsi travolgere da un Ford Transit. Un sessantenne, o giù di lì, morto in uno schianto.

Ho la quasi certezza che, giunti all’età che preannuncia il tratto finale del percorso, i bilanci di vita lascino spazio alle certezze, tanto da credere fermamente che, se ci fosse una seconda possibilità, le cose potrebbero andare, davvero, nella giusta direzione. Illusione?

Nel corso della lettura ho avuto la netta sensazione di farmi spazio spostando i rami che mi si ponevano davanti, mentre sui due lati scorreva un film che non mi tangeva personalmente ma mi coinvolgeva, con tutta una gamma di sentimenti che prendeva forma, e con una costante atmosfera impregnata di angoscia, infelicità, dolore…

I temi trattati sono specifici e Papagni afferma di “inseguire la pretesa di comprendere” il malessere mentale, il terrorismo e la violenza sulle donne, e su questi assi si dipana il “romanzo”, con salti temporali a volte faticosi, ma con la cura di dettagli che permettono di entrare in profondità, di scavare e rovistare, esercitando un continuo parallelismo tra il protagonista - e affini - e la nostra storia personale, scoprendo cose nuove e riconoscendo qualcosa del vissuto.

Lo stato d’animo di Ulrich mette agitazione, aggiungerei preoccupazione, quando si realizza che, probabilmente, alcuni frammenti di ogni storia potrebbero essere comparabili con il nostro percorso, giacché certe sensazioni prima o poi si provano, e i malesseri dell’anima non guariscono con una medicina.

Il titolo “La frattura spontanea della simmetria” prende ispirazione dalla fisica, quindi, da regole rigidamente definite, ma è cosa abbastanza naturale per chi scrive, cercare ed usare concetti legati alla scienza applicata per evidenziare aspetti metafisici e, più in generale, la complessa gamma dei sentimenti e dei comportamenti.

Ulrick, al cospetto dell’osservatore esterno (il mondo è pieno di persone che giudicano a prescindere, senza prima approfondire) non avrebbe motivo di fuoriuscire dalla simmetria e per l’occhio inconsapevole potrebbe persino rappresentare un esempio, un punto di riferimento estetico. Ma qualcosa accade, una rottura impercettibile di cui nessuno può accorgersi - tantomeno chi vive la situazione come protagonista -, un’incrinatura che giorno dopo giorno prende consistenza e cambia la vita, tante vite, e tornare indietro, a quel punto, appare impossibile.

E la pioggia scende su tutto e su tutti, una pioggia liberatoria che porta a pensare che sia meglio trapassare baldanzosi nell’altra vita, nel pieno della passione, che appassire e svanire a poco a poco nello squallore degli anni…”.

Rapporti sentimentali, relazioni generiche, aspetti sociali e politici, violenza, temi che rientrano nel quotidiano, che spesso si osservano con distacco, usati in modo superficiale, come se prendessero forma solo dietro ad uno schermo televisivo, fiction fornite di un filtro che sembrerebbe proteggere dalla dura realtà.

Antonio Papagni affronta tutto questo, provando a dare risposte a quesiti che difficilmente si ha il coraggio di porre e di porsi, probabilmente spaventati dall’eventuale responso.

L’alienazione di Ulrick raggiunge livelli che producono dolore nel corso della lettura, e anche se non credo fosse questo lo scopo del racconto, la capacità di realizzare immedesimazione - magari non nel personaggio ma nella situazione - mi appare come esempio di saggezza compositiva.

Non andrò oltre nella narrazione, sperando di aver creato un principio di curiosità e spinta alla condivisione.

Non poteva mancare una sezione dedicata in modo specifico alla musica e ad un fatto reale, che vide Papagni partecipare ad un workshop con un suo mito musicale, Robert Fripp, fondatore dei King Crimson, e giunto al termine del capitolo, quando ancora la fine lettura era lontana, mi si è parato davanti un frammento di “Starless” e ho deciso che sarebbe diventato il paradigma del mio commento, esempio di ermetismo e del come poche parole possano esprimere concetto pesanti, che spesso si materializzano senza preavviso, qualcosa che si cercava da tempo senza mai trovare il bandolo della matassa…


Tramonto di un giorno abbagliante,

Oro che mi attraversava gli occhi,

ma i miei occhi si rivolsero in dentro

Vedendo solo

una notte senza stelle e nera come la Bibbia

 

Leggiamo ora le parole di Antonio Papagni, sollecitato dalle mie curiosità…

Sono passati quattro anni da quando lessi e commentai “Dai Led Zeppelin allo Zen”: cosa ti è capitato di… raccontabile, in questo periodo che ha condotto al rilascio di un nuovo book?

Nei cinque anni che mi dividono dalla pubblicazione della prima edizione di DAI LED ZEPPELIN ALLO ZEN (2017) nulla è capitato che abbia portato alla scrittura di questo nuovo libro. Nessun episodio scatenante, situazioni che ne abbiano alimentato la scrittura. LA FRATTURA SPONTANEA DELLA SIMMETRIA è un lavoro che viene da lontano. È un libro che ho sempre avuto dentro, inseguito negli anni a ogni costo. Ho sempre saputo che lo dovevo portare a termine. Quindi non c’è stata “l’ispirazione”, se l’ho scritto è proprio perché non potevo farne a meno, quando la pancia e la mente non mi davano tregua (e il cuore, potrei aggiungere pateticamente).

Potresti decodificare il titolo - “La frattura spontanea della simmetria” - passando dalla definizione tecnica - nota e obiettiva - alla tua necessità di uso del linguaggio metaforico?

Il titolo del libro ha avuto una genesi lunga è controversa. In origine doveva essere VOLEVO ESSERE UN TERRORISTA, ma mi è stato caldamente consigliato (non dall’editore ma da vari amici) di non usarlo, di mantenermi su un “politicamente corretto” (cosa che ho accettato a malincuore pur comprendendo la giustezza dell’obiezione). Le prime copie dattiloscritte date in lettura, hanno girato con il titolo V31T (il 3 stava per “essere” e 1 per “un”). Ho scoperto poi che la sigla identifica una famosa vespa e quindi praticamente inutilizzabile. L’attuale titolo si è rivelato grazie a un affascinante processo della fisica: la rottura spontanea della simmetria (era la tesi di laurea di un ragazzo che frequentava mia figlia). Le simmetrie sono un fondamentale strumento di esplorazione della fisica moderna, tuttavia, il concetto di simmetria in fisica, non si presta a un’intuizione immediata. Per evitare spiacevoli emicranie mi limito a riportare (come ho fatto in esergo) ciò che Pierre Curie disse: “E’ la dissimmetria che crea il fenomeno”. E questo è stato ciò che è successo, metaforicamente, a Ulrich: a un certo punto una linea di faglia interna ha fratturato la simmetria della sua vita, una faglia che con meticolosa cura lavorava dentro di lui già da molto tempo. Fratturata la simmetria, si è presentato il fenomeno della malattia psichica.

Mi è capitato di scrivere un book “non musicale” e, nonostante la ricerca della piena ombra, ogni persona che mi ha conosciuto bene non ha fatto fatica nel riconoscere le mie vicende: senza forzare la tua privacy, quanto c’è di autobiografico in questo scritto così profondo?

Di paralleli autobiografici, per quanto riguarda la vita del protagonista, purtroppo (essere scrittore affermato, professore all’università di Osaka) e per fortuna (la sua condizione di malato psichiatrico) non ci sono. L’episodio del Seminario è direttamente ripreso dalla mia esperienza al Guitar Craft, anche se il mio spirito era completamente diverso. Altri episodi sono tratti dalla mia esistenza senza essere determinanti. Ciò che è veramente autobiografico è il malessere generale, il tormento esistenziale che coltivo da adolescente.

Le note ufficiali informano che esiste un obiettivo ambizioso e complicato, quello di provare a comprendere il malessere mentale, il terrorismo e la violenza sulle donne: a giochi terminati e dopo aver condiviso il tuo lavoro, quanto credi di aver centrato il tuo proposito?

“Inseguo la pretesa di comprendere” questi fenomeni. Una corsa per cercare di raggiungere e vedere da vicino queste pesanti condizioni. Non volevo descriverli didascalicamente, non ho mai usato la parola stupro. Inseguendoli li ho guardati da lontano, dando al lettore la possibilità di avvicinarsi. È determinante, per due di questi aspetti, quello che succede a pag. 244, quando Ulrich e Giovanna si salutano. Entrambi si portano dentro un grumo di dolore impossibile da sciogliere e da comunicare. Luoghi comuni e pregiudizi impediscono il passaggio dell’emozione. La malattia mentale non è presa seriamente in considerazione da chi ruota intorno al sofferente. Non gli viene riconosciuta la malattia come avviene per le malattie del fisico. Non bisogna essere deliranti per stare veramente male. A chi ha subito uno stupro, allo stesso modo, non viene concesso il dolore lacerante che cambia la vita e che non si può dimenticare. Nessuno dei due aveva capito quanto male era presente nell’Altro. Per quanto riguarda il terrorismo, quello che ho voluto mettere in evidenza, è stato che negli anni ‘70 alcune persone sarebbero entrate nelle BR se ne avessero avuto modo e coraggio. Li ho conosciuti personalmente. Aspetti del testo che, credo, non lascino indifferenti.

Il dolore diffuso è palpabile, riga dopo riga, pagina dopo pagina, e mentre la lettura scorre, le riflessioni sulla vita si moltiplicano, uno spazio temporale che appare luminoso solo per pochi eletti: come ci si sente alla fine di una raccolta di idee e di uno sforzo così intensi, quelli necessari alla creazione di un libro così impegnativo?

È stata una scrittura faticosa e dolorosa, lasciata e ripresa per cinque anni. Faticosa non tanto per l’impegno tecnico, quanto per le accese critiche raccolte in questi anni. Più di una volta mi è stato consigliato di cambiare la struttura, di rendere più “intrigante” la trama. Tutto questo non mi interessava. La forza del mio libro è proprio nella struttura, in quest’uomo che racconta senza nessun obiettivo strategico. Non cerco storie, la narrazione, lo storytelling (odio questi termini). Non aspiro a essere un grafomane “che scrive libri” che devono piacere. Infine, se non ho nulla da dire, non scrivo. Dolorosa perché sono dovuto entrare nelle piaghe dell’anima del protagonista, nella sua condizione di vigliacco davanti alla scelta di non entrare nella lotta armata, e mi sono dovuto immedesimare in una donna che era stata stuprata sei anni prima. Un’amica che pubblica, dopo averlo letto, mi ha detto: non è un libro per tutti. Non so se è vero, quello che so è che è un libro che amo. E alla fine senti un turbamento triste, senti che hai scritto per quelle idee in cui credevi e sono esattamente quelle che volevi e le hai fatte vivere in un personaggio “reale”. Ho messo anche la sua foto.

Ho trovato complicati i salti temporali e spaziali, gli spostamenti tra ere e luoghi: quanto è stato impegnativo creare “La frattura spontanea della simmetria” dal punto di vista “tecnico”?

Tecnicamente questi salti temporali non mi hanno creato problemi. Posso dirti che è stato quasi naturale raccontare, nella prima parte, la sua vita attraverso questi episodi che si muovono tra “ere e luoghi”, clips che tornano in Ulrich dopo il suo decesso. Nella seconda parte, dove ci muoviamo nel suo “anno sacro”, ho avuto più difficoltà nel far emergere il passato. Non dovevo confondere ma neanche lasciare la trama incompiuta, inconcludente, lacunosa. Alcuni capitoli si intitolano tutti “Neurotica”. Escono dalla trama, sono come gli “a parte” in teatro e raccontano sogni, elucubrazioni. Forse la difficoltà maggiore è stata nel legare tutti questi elementi per non “dissociare” il lettore. Spero di esserci riuscito.

Quando ci siamo sentiti a fine maggio ti sei premurato di sottolineare che il libro non era a carattere musicale: trovi ci siano importanti differenze nella scrittura a favore di argomenti specifici, nell’approccio e nel “tenere il filo del discorso”?

Nel 2003, quando mi separai da mia moglie, portai nella nuova casa tutti i miei dischi, i libri e le esperienze. Mia figlia a quel tempo aveva quasi sei anni. Mi chiesi come avrei potuto, a quel punto, trasmetterle tutto il mio patrimonio. Fu così che decisi di scrivere DAI LED ZEPPELIN ALLO ZEN, questo saggio narrativo che percorre gli anni dal 1972 al 1990. Perciò la scrittura è stata scandita dagli anni. La struttura era già presente, bisognava solo riempirla.  Per quanto riguarda LA FRATTURA SPONTANEA DELLA SIMMETRIA è stato scritto “come sia riuscito a tenere ferma la barra di una trama così complessa”. L’ho fatto, sembra che ci sia riuscito, alla fine il libro si è scritto da sé passando sul mio corpo.

Mi dai una tua definizione del termine “felicità”?

La felicità non è per questo mondo. Come fai a essere felice su questa Terra devastata e percorsa da individui insensibili?

Mi fanno pena e rabbia persone come Richard Wiseman che dicono “per essere felici la prima cosa da fare è voler essere felici e comportarsi come se già lo fossimo”. Se mi guardo dall’esterno non posso dire di aver avuto, fino a questo momento, una vita particolarmente infelice. Ma se entro dentro di me, mi sento come un bodhisattva, colui che, pur avendo raggiunto l’illuminazione, sceglie di rinunciare al nirvana sotto la spinta della compassione. Ma poi, sarà vero?

Un’ultima domanda che esula dall’argomento ma che riguarda uno dei tuoi miti musicali: come giudichi le divagazioni pubbliche di Bob Fripp e Toyah Willcox?

Ho iniziato ad amare Fripp ai tempi di LARK. Il Fripp in maglietta nera, defilato dal gruppo su un palco spoglio con tra le braccia la Gibson Les Paul. Per me rimane quello Robert Fripp. Eppure, ciò che ha fatto nel suo percorso professionale (che non ho sempre condiviso) me lo hanno fatto apprezzare sempre di più. Ora provo per lui tanta tenerezza perché sembra, ma certamente non sarà così, soggiogato dall'esuberanza della moglie.

Rimane il fatto che la chitarra e il palco sono la sua vita, e deve trovare un modo per perpetuarsi in essi.