martedì 22 aprile 2025

Spirito defilato, luce costante: omaggio a Richie Heavens, mancato il 22 aprile del 2013

 


Se chiudo gli occhi e mi concentro forte, l'eco di quel mare di volti mi travolge ancora. Un'onda umana palpitante sotto un cielo che minacciava tempesta e, invece, partorì la leggenda. Era il 1970, il buio della sala cinematografica squarciato dalle immagini del Festival di Woodstock e lì, in mezzo a quel caos vibrante di corpi e di suoni, su un palco improvvisato che pareva un'isola fluttuante nell'aria densa di erba e speranza, vidi lui per la prima volta: Richie Heavens.

Fu in quel momento, seduto nella penombra del cinema, che compresi quanto quell'evento accaduto un anno prima si fosse inciso nella mia memoria. Non una semplice cronaca, ma un crocevia di anime e di vibrazioni sonore che avrebbero plasmato il sentire di un'intera generazione. E Richie, con la sua chitarra acustica stretta al petto e quella voce capace di graffiare l'anima per poi cullarti in un abbraccio caldo, divenne una delle prime, indimenticabili scintille di quella magica follia.

Ricordo ancora quella sua versione dilatata di "Freedom", trasformata in un'improvvisazione epica che sembrava contenere tutto il dolore e la speranza del mondo. Le sue dita correvano veloci sul manico, strappando accordi potenti che si libravano nell'aria, mentre la sua voce si innalzava, un lamento blues che si faceva preghiera, inno. In quel momento, Richie Heavens non era solo un musicista su un palco, era un tramite, un canale attraverso cui passava un'energia primordiale che ci univa tutti.

Non era un dio del rock con la "R" maiuscola, di quelli che riempivano stadi e facevano tremare le fondamenta del mondo. Richie era un'altra pasta, un artigiano del suono venuto da un altrove un po' sbiadito, un pittore di boogie-woogie con pennellate di soul e una voce che sembrava arrivargli dritta dalle viscere della terra.

Ho sempre avuto un debole per questi spiriti un po' defilati, per le comete che illuminano il cielo per un attimo prima di perdersi nella notte. Richie Heavens era una di quelle. La sua storia non è costellata di scandali ed eccessi da rockstar, ma di una genuina passione per la musica, un amore viscerale per quelle ottantotto tasti che parlavano una lingua antica e potente.

Il suo boogie-woogie non era una sterile riproduzione dei maestri del passato. Ci metteva dentro l'anima, il sudore delle notti passate a suonare nei bar di periferia, le storie ascoltate tra un bicchiere e l'altro. C'era il blues malinconico delle strade polverose, il gospel che gli risuonava dentro fin dall'infanzia, e quel pizzico di soul che gli scaldava la voce e gli dava un timbro inconfondibile.

Forse non ha scalato le classifiche, forse il suo nome non campeggia sulle copertine patinate. Ma chi l'ha ascoltato una volta, chi si è lasciato trascinare dalla furia controllata delle sue mani sul piano, non l'ha dimenticato. C'era qualcosa di autentico, di non filtrato nella sua musica. Era come assistere a una conversazione intima tra un uomo e il suo strumento, un dialogo fatto di note che vibravano nell'aria e ti arrivavano dritte al cuore.

Richie Heavens era un custode di un certo tipo di suono, un ponte tra le radici del blues e le nuove vibrazioni del rock and roll. Non cercava la fama a tutti i costi, sembrava contento di suonare la sua musica per chi aveva orecchie per ascoltarla. E in quel suono c'era un'energia contagiosa, una gioia di vivere che ti faceva dimenticare per un attimo le grane del mondo.

E se fossero questi i veri custodi della fiamma? Non abbagliano con fuochi d'artificio, ma la loro luce è costante, un faro nella notte per chi cerca un suono vero, un'emozione sincera. Richie Heavens era uno di quelli. Un boogie astrale che continua a risuonare, piano, tra le pieghe del tempo. E se tendi l'orecchio, forse, lo sentirai ancora.

Richie Havens è morto il 22 aprile 2013.