Dopo il tour americano in partenza ad aprile e già’ quasi interamente esaurito, il leggendario Greg Lake di Emerson Lake & Palmer e King Crimson sarà’ in tournèe’ in Gran Bretagna nel novembre 2012 con “Songs Of A Lifetime, – uno show interamente autobiografico, intimo ed interattivo.
Lake,
considerato una delle piu’ belle voci del rock, ha cambiato, –
sia con ELP che con i King Crimson– il panorama del rock.
Nello show Greg parlerà’ di se’ e della sua storia, e suonerà’ la sua musica più’ conosciuta
assieme alla musica che lo ha influenzato.
Il
concerto è’ inoltre aperto alla partecipazione del pubblico, in un
format di domande
e risposte alle quali Lake risponderà’ onestamente;
questo format ha già’ registrato un enorme successo lo scorso anno nel tour
americano di Emerson & Lake, e quest’anno Greg lo ripropone da solo.
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informazioni sullo show suwww.greglake.com– incluso un link esclusivo per acquistare
i biglietti del tour britannico in anteprima dal 29 marzo!
Sono
in progetto date europee ed italiane che saranno disponibili suwww.greglake.comal piu’ presto.
“Devi assolutamente
sentire Pino Forastiere e...”, inizia così il mio avvicinamento a questo straordinario
chitarrista… attraverso le parole di un altro virtuoso dello strumento, Claudio
Bellato che, come tutti i cultori della buona musica, trova appagamento nell’opera di condivisione.
Ciò che mi trovo tra le mani, una settimana dopo, è una parte
di mondo di PinoForastiere, due CD, due progetti differenti, ma alla base
l’utilizzo della chitarra, sostantivo che evoca le situazioni più disparate,
anche per chi non è addentro alle “cose della musica”. Per inciso, sto parlando
di “from
1 to 8”, disco solista, e “Guitar Republic”, sorta di trio
delle meraviglie nel quale Sergio Altamura e Stefano Barone si aggiungono a
Forastiere.
Due album sono una consistente porzione di vita musicale e possono quindi dare una ricca immagine di
un artista. Nel caso specifico credo ci sia una importante mancanza che spero
di colmare al più presto… la partecipazione ad un’esibizione live. Vediamo
perché.
Scrivere di musicisti così talentuosi, dalla preparazione
tecnica così lontana dallo standard, mi ha posto un problema di giudizio: è
giusto dare un’opinione su qualcosa la cui comprensione di dettaglio non può
prescindere dalla buona confidenza con lo strumento? E’ sufficiente
il mio “saper suonare” per fornire utili indicazioni? Questo dubbio è svanito
in pochi attimi.
La musica di Pino Forastiere è obbligatoriamente musica di
settore, elitaria, ma non certo nelle intenzioni. In genere ci si racconta, si
passano messaggi, si protesta e si gioisce attraverso i mezzi che si conoscono,
che magari si affinano col passare del tempo ma, e questo è il mio feeling del
dopo ascolto, hanno nell'occasione un fine che niente ha a che vedere col mero
virtuosismo. Le skills che emergono nel “solo” e nel progetto in trio sono il
risultato di anni di studio e duro lavoro, e lo sfoggio delle differenti
tecniche-i video a seguire sono rappresentativi e significativi-rispondono alla
mia esigenza citata in precedenza, quella di poter assistere ad una
performance, e godere appieno dell’aspetto visual.
Fantasia, tecnica, coraggio esecutivo, coscienza della
propria forza, sono una parte del contenuto della musica di Forastiere, quello
che quasi tutti possono afferrare, ma credo che la differenza tra i musicisti
della sua taglia-probabilmente non molti al mondo-e un “comune” fantastico
esecutore, risieda nella capacità compositiva, nella possibilità di parlare di
sé senza … aprire bocca, arte in cui mi pare Pino sia un maestro, e a quel
punto i grandi esempi del passato, l’esperienza accumulata, l’educazione
ricevuta, lo studio di anni, diventano un contenitore in cui tutto viene
miscelato e messo a disposizione di un obiettivo ben preciso, lontano dal narcisismo
musicale, con la grande soddisfazione
personale di emozionarsi regalando emozioni.
Lo scambio di battute a seguire, e la biografia di fine post,
forniranno elementi oggettivi su Pino Forastiere e la sua musica.
L’intervista
Un amico comune mi ha
parlato di te in termini entusiastici, sottolineando al contempo ciò che è
sotto i miei occhi quotidianamente, e
cioè la difficoltà che si trova nel presentare dal vivo la musica di qualità,
almeno in Italia. Che differenze trovi tra la situazione di casa nostra e le
realtà estere, in cui tu normalmente ti muovi?
Non
saprei dire se si tratta di un problema solo italiano. Oggi la qualità non è
facile da proporre perché la tendenza è quella di applaudire il riconoscibile,
piuttosto che l'unico. L’ enorme quantità di pseudo-arte rintracciabile in
internet sta confondendo le idee perché mischia cose fantastiche con cose
inutili e brutte offrendole sulla medesima piattaforma, sul medesimo
palcoscenico. Dal vivo forse le cose cambiano un po’, ma non è facile tenere
pulita una cultura che si sporca ogni giorno di più.
Mi pare di capire che
la gestione del tuo lavoro (ma è diffusa l’opinione che la musica non sia un
lavoro… Bill Bruford lo spiega bene nel suo libro) abbia una dimensione
familiare, e i casi simili sono molti. L’autarchia è diventata ormai una necessità
in ambito musicale?
Io amo
seguire tutto lo sviluppo del mio lavoro artistico, e quindi l'autarchia è in
primo luogo una scelta. Sono fortunato a poter lavorare con mio cognato
Gabriele Benigni, che oltre ad essere violinista, compositore, arrangiatore, è
anche un mio carissimo amico, e di fatto realizza insieme a me tutti i miei
dischi. Però l'autarchia diventa pure una necessità di post-produzione: il
mondo della musica non ha più figure di intermediazione, non mi viene in mente
un solo direttore artistico degno di tale nome, capace di avere la forza di
fare una proposta, di essere affidabile per il proprio pubblico quando mette in
cartellone qualcosa che ha scelto. I festival sono la fotocopia l'uno
dell'altro; gli agenti, che sono gli unici che capiscono ancora qualcosa,
vivono tempi difficilissimi perché oggi il musicista si deve imporre da solo,
deve poter esibire un certo numero di click, di “mi piace”. E allora sono
fortunato a poter contare anche sul lavoro di mia moglie Stefania, io non sarei
capace di stare dietro a queste cose, di “spingere” come si dice oggi.
Suonare, cantare,
esprimersi, significa “passare” il proprio messaggio, e le liriche non sono
fondamentali. E’ anche naturale che ogni ascoltatore personalizzi e interpreti
ciò che gli arriva, e il “prodotto” da neutro si trasformerà qualcos’altro.
Nel caso di un album
come “From 1 to 8”, qual è la tua
chiave di lettura, al di là della tecnica e del
gusto di cui è intriso?
“From 1
to 8” è il mio disco di sintesi rispetto ad una muscolarità o ad un fuoco
specifico, o ad esperienze di altro tipo come il concerto “Why Not?” per
chitarra e orchestra, espresse nei
lavori precedenti. Mi piace definirlo un disco “compositivo” e non
“performativo”.
L’intimismo dell’album
appena citato contrasta col “percorso” di “Guitar Republic”, dove l’interazione
con altri musicisti permette di dare un aspetto diverso alla tua “acustica”,
tra ritmo e melodia. Quali sono le maggiori soddisfazioni che trai dai due
progetti?
Amo
entrambe le cose. La ricerca solitaria
nei lavori solistici come la ricerca condivisa con Sergio Altamura e Stefano
Barone nel trio. In un certo qual modo proprio l’essere solisti ci permette di
condividere lo stesso spazio rispettando le reciproche “solitudini”.
Esistono “enormi “, talentuosi
e innovativi chitarristi che hanno fatto la storia del rock, completamente
autodidatti. Cosa significa essere un “grande chitarrista”… cosa serve oltre
all’educazione scolastica e al talento?
L’educazione
- e non solo quella scolastica - ed il talento sono condizioni necessarie.
Aggiungerei curiosità e consapevolezza. Essere curiosi può spingerti ad
esplorare mondi nuovi, ed essere consapevole può darti il senso della misura…
gli autodidatti di cui parli erano dei geni che hanno saputo studiare da soli:
e di geni, si sa, ce ne sono pochissimi in giro. Vorrei puntualizzare che con
il termine autodidatta si intende “persona che studia autonomamente”, e non
“persona che studia pochino perché non ne ha bisogno”.
Quanto è stata e quanto
è ancora importante la ricerca e l’applicazione di nuove tecniche
chitarristiche? Come si supera la fase umana di autocompiacimento per arrivare
ad una vera condivisione?
Per me le
nuove tecniche servono solo per esplicitare nuove idee! Non confondiamo il
mezzo con il fine. L’autocompiacimento si affievolisce (difficilmente sparisce
del tutto) proprio quando si marca la differenza tra ciò che è mezzo e ciò che
è fine. Per me l’unica cosa importante è la musica, perché è appunto l’elemento
condivisibile.
Esiste uno strumento
che ti affascina e su cui ti cimenti, oltre alla chitarra?
Tanti
strumenti mi affascinano, ma suono solo la chitarra.
Quali sono stati in
origine i chitarristi che ti hanno influenzato… quelli che ti hanno portato sul
sentiero dello studio chitarristico?
Ho
iniziato a studiare a 7 anni perché era l’unico sentiero che volevo percorrere
e non mi ricordo miti che mi hanno introdotto a questo sentiero. Molti
chitarristi mi hanno influenzato, certo! Senza Michael Hedges non avrei mai
composto e suonato musica per chitarra acustica, ma senza Arturo Benedetti
Michelangeli non avrei mai capito l’importanza della qualità del suono e della
chiarezza musicale. Sono molteplici le influenze, tra queste ci sono pochi chitarristi.
Esiste un chitarrista
tuo contemporaneo che giudichi una sorta di linea guida, magari
irraggiungibile?
Penso che
non esistano cose e persone irraggiungibili.
Prova a disegnare il
tuo futuro musicale dei prossimi tre anni.
Nei
prossimi anni dovrei essere impegnato con il mio amico regista-attore Enrico
Frattaroli in un lavoro sui versi de La Voce a tedovuta di Pedro
Salinas. Una sorta di melologo attraverso il quale cercherò di esorcizzare la
mia antipatia verso la parola, soprattutto quando è accostata alla musica. Sto
scrivendo altra musica per chitarra acustica solista, e sto pensando insieme a
Sergio e Stefano cose nuove per Guitar Republic. In tutto questo ho già un po’
di tour programmati… spero bastino tre anni per fare tutto.
La musica di Forastiere nasce da una
solida formazione in ambito classico, contemporaneo e rock, e sfugge a una
precisa definizione di genere. Considerato come uno dei più interessanti
chitarristi compositori nel panorama internazionale, virtuoso ex classico con
la sei e la dieci corde, Forastiere si è rapidamente affermato anche nel mondo
della chitarra acustica per la novità nella scrittura delle sue composizioni e
una tecnica esecutiva davvero straordinaria. Di lui il "guru" della
critica musicale newyorkese John Schaefer ha detto: "La sua musica è un
mix di pattern ritmici incrociati di Steve Reich che incontrano le tecniche di
Michael Hedges, il tutto ammirando Eddie van Halen".
Lucano ma ormai romano d’adozione,
diplomato in chitarra classica al Conservatorio di Musica Santa Cecilia, oltre
che in varie rassegne in Italia Forastiere suona regolarmente per festival e
stagioni negli Stati Uniti e in Canada, dove radio e stampa musicale gli hanno dedicato
diversi speciali. Nei suoi tour americani ha suonato - tra gli altri - al
Canadian Guitar Festival, al New York Guitar Festival, e all'International
Guitar Night 2010/2011 (UK, Canada, USA). Nel mese di gennaio 2008 Forastiere
ha presentato al Teatro Palladium di Roma il brano per chitarra elettroacustica
e orchestra d'archi "Why Not?", eseguito in prima assoluta con la
Roma Tre Orchestra diretta da Pietro Mianiti. La registrazione del concerto è divenuta
la “title-track” del suo terzo disco solista; dopo “Rag Tap Boom” (2003),
“Circolare” (2005) e “Why Not?” (2008), nel 2009 Forastiere ha pubblicato un
ispiratissimo DVD live, sempre per l'etichetta statunitense CandyRat.
Sin dagli inizi Forastiere collabora
con l'editore John Stropes, storico del finger-style e figura di riferimento
internazionale per la chitarra acustica; autore di importanti testi e studioso
innovativo, editore di chitarristi come Leo Kottke, Michael Hedges e Alex de
Grassi, Stropes dirige il Dipartimento degli studi di chitarra presso la UWM –
Università del Wisconsin, Milwaukee.
I video di Pino in rete contano
centinaia di migliaia di viste; uno tra i brani più apprezzati (e rieseguiti
come cover) dal popolo di Youtube, “Fase 1”, è stato scelto come sigla del
meteo di RaiNews24.
E' infine di recentissima formazione
il trio Guitar Republic, con i due chitarristi acustici Sergio Altamura e
Stefano Barone; il trio ha appena pubblicato l'album di debutto (Candyrat,
2010) e si appresta a partecipare a tutti i principali festival internazionali
di chitarra.
“Caro Tornado”è il disco di debutto degliIceberg, giovane band della provincia pavese.
L’intervista e la
biografia a seguire, procurano chiara luce al progetto, e
forniscono una concreta preparazione all’ascolto.
La musica, sia in
fase di costruzione che di ricezione, ha delle fondamenta istintive, e le
reazioni conseguenti non sono certo basate sulla razionalità, ma un minimo di
indagine preventiva, quando se ne ha la possibilità, non può che giovare, per
almeno due motivi: la proposta è talmente ampia-e la qualità non sempre
eccelsa-che qualche indicazione supplementare può aiutare nella scelta
d’ascolto. Ma la cosa a cui personalmente tengo di più quando mi avvicino
ad un nuovo gruppo, è l’apprendimento dell’esistenza di un mondo “nuovo”, tutto
da scoprire, che da quel momento diventa in parte mio.Iceberg, come tanti
altri artisti di cui mi occupo quotidianamente, non nascono dall’oggi al
domani, ed entrare nella loro “casa” dalla porta principale significa venire a
conoscenza di un percorso di anni di lavoro e di impegno. Affascinante!
Quali quindi gli
indizi precedenti l’ascolto?
Un trio rock(il
tipico power trio, chitarra, basso e batteria), un forte amore per una ben
specifica musica del passato, una vocazione per la performance live e la
necessità di far comprendere alla perfezione i propri testi, passando nel corso
degli anni dall’ utilizzo dell’inglese a quello dell’italiano.
Da questo quadretto
emerge una marcata anomalia rispetto allo standard dei gruppi che possono
trovare collocazione nella stessa famiglia musicale: l’attenzione ai testi.
L’energia che la
musica di Iceberg è in grado di rilasciare è già un messaggio… in altro
contesto potremmo definirlo ‘il messaggio’.Significa rottura, forza,
giovinezza, voglia di cambiare e intenzione di dare contributo concreto alla
mutazione… c’è sempre, in qualsiasi epoca, qualcosa da modificare!
Ma le liriche non
sempre vengono tenute in seria considerazione, preferendo spesso il
‘suono’ che solo l’inglese sa regalare, e privilegiando la facilità metrica che
la lingua di Albione può dare. E in questo caso invece si dedica del tempo alla
creazione di tappe testuali significative, scoprendo alla fine-e questa è una
loro indicazione- che si potrebbe quasi parlare di un concpet album, esistendo
un saldo filo di collegamento tra le nove tracce. Gli argomenti?
Quotidianità, e che altro si potrebbe raccontare?! Gli spunti sono
talmente tanti che le occasioni non sono mai troppe. Ma se la normalità a volte
tragica del nostro presente, e se la denuncia dei problemi del mondo-o
personali- si accompagnano alla forza espressiva, quasi devastante, di un certo
tipo di rock in ottima salute, il risultato può essere una vera scossa che,
immagino, in fase live, sia in grado di trasferire grandi quantità di energia.
E in quel momento, non appena tale energia ritornerà sul palco, anche l’Iceberg,temporaneamente,si scioglierà.
Come nasce la vostra
passione musicale e quali sono stati i musicisti che vi hanno influenzato a tal
punto da spingervi sulla via della musica “attiva”?
Alessandro:Io penso di essermi avvicinato alla musica “tardi”,
a 14/15 anni, quando al liceo gli amici iniziarono a passarmi i cd di Nirvana,
The Doors, Led Zeppelin e altri gruppi rock stranieri. Cercai subito qualcuno
che potesse insegnarmi le basi della chitarra, per suonare sui cd che
consumavo. Poi i primi concerti da spettatore e il primo gruppo nel quale
suonavo la chitarra, a 16 anni.
Marco:Posso dire quando ho iniziato a
suonare: avevo 14 anni. Ma la passione della musica direi da sempre. Ho
iniziato ad ascoltare musica da piccolo, diciamo che ho ascoltato quasi di
tutto, ma sicuramente il periodo punk è stato quello che più mi ha più
condizionato spingendomi ad avvicinarmi al mio strumento. Suonando insieme ad
Ale, anche prima di essere gli Iceberg, ho accolto le sue influenze
abbandonando in parte il punk per avvicinarmi ad altri generi, sempre violenti
e distorti, ma magari più curati.
La vostra formazione
in trio riporta alla storia del rock blues, dai Cream alla Jimi Hendrix
Experience. Quali sono le linee guida del vostro progetto?
A:Non abbiamo linee guida precise, siamo nati come
trio penso prima di tutto per necessità e fino ad ora non abbiamo avvertito
l’esigenza di cercare altri componenti. Sicuramente questa formazione a tre è
determinata anche dalla voglia di esprimerci interamente attraverso i nostri
strumenti, nessuno dei quali vogliamo passi in secondo piano. Così il basso a
volte diventa una seconda chitarra o la batteria regge intere parti di canzone
con un determinato pattern. Spero di essermi spiegato.
M:Anche perché tutte le migliori
band sono un trio!
Leggendo la vostra
biografia si evince che da un certo punto in poi i vostri testi sono passati
dalla lingua inglese a quella italiana. Quali i motivi della trasformazione?
A:è stata una “scelta” che ho imposto io al gruppo, in
quanto sentivo l’esigenza di comunicare in modo più diretto con l’ascoltatore,
e avevo voglia di misurarmi con la scrittura in italiano. Ancora oggi non so se
sia la scelta migliore per l’identità degli Iceberg, abbiamo riscontrato pareri
discordanti ma penso che non cambieremo di nuovo direzione; inoltre trovo più
stimolante lo scrivere in italiano, forse per il fattoche essendo
comprensibile a tutti si è più esposti alle critiche e quindi risulta più
rischioso ma anche più divertente.
Mi pare di capire che
la fase live sia uno dei vostri punti di forza. Che tipo di rapporto riuscite a
stabilire con chi vi sta di fronte?
A:Sì, penso che il live sia sicuramente il nostro
punto forte. Con gli anni abbiamo maturato quello che è il nostro suono, che
anche se non è definitivo, è comunque parte delle canzoni e della nostra
proposta. Nei live cerchiamo principalmente di essere noi stessi, ci esponiamo
con tutta l’onestà possibile cercando di arrivare a chi ci sta di fronte
attraverso le canzoni e il sudore evitando troppe parole o battute studiate a
tavolino.
Lavorare in gruppo
presuppone un certo affiatamento. Esiste tra voi anche un forte vincolo di
amicizia?
A:Sì siamo molto legati tra di noi e ci frequentiamo
anche al di fuori degli impegni musicali. Capitano a volte momenti di tensione,
come penso sia nella normalità di ognuno di noi, ma finora abbiamo saputo
gestirli senza troppi sforzi. Attualmente non penso avrebbe senso suonare in
condizioni di stress o vittime di incomprensioni che porterebbe via spazio alla
realizzazione che deriva dall’essere un gruppo musicale, almeno per me.
Che cosa ha
significato per voi l’incontro conla
New ModernLabel
di Govind Khurana?
A:Magari ti rispondo tra un annetto! A parte tutto
abbiamo cercato fortemente qualcuno che si interessasse agli Iceberg ed in
particolare a “Caro tornado”, il nostro primo album, perché volevamo che
uscisse dalla cerchia di persone che lo comprano ai concerti e diventasse il
nostro biglietto da visita per quante più persone possibili. Govind con la sua
New Modern Label si è interessato al progetto, ci siamo conosciuti e abbiamo
iniziato a lavorare insieme; lui si occupa della promozione del disco,
dell’ufficio stampa e della distribuzione digitale di “Caro tornado”.
Nella vostra
discografia esiste un tributo a John Lennon. Omaggio alle sue idee o alla sua
musica?
A: Non penso che i
due aspetti di questo artista siano scindibili. La cover diLucy in the Sky with Diamondsè stata prima di tutto un’occasione
per misurarci con l’interpretazione di un classico della musica rock
ricordando, se ce ne fosse bisogno, che ci sono stati musicisti che hanno
scelto di vivere e di credere pienamente nei loro ideali, con tutte le
conseguenze che questo può comportare.
Che cosa pensate del
proliferare dei Talent Show e dei musicisti che li popolano?
A:Onestamente non ci penso! Magari sbaglio ma non mi
hanno mai preoccupato, sono troppo lontani dalla mia idea di musicista e penso
che abbiano ragione di esistere ma solo se confinati all’interno dello spazio
mediatico che li riguarda, un programma di intrattenimento come un altro. Penso
che l’importante sia che le persone ricordino la differenza tra il personaggio
che è la star del talent show, e spesso del momento, e l’artista vero e proprio.
M:Mai guardati e condivido il
pensiero di Ale: non fanno parte della mia idea di musicista.
E’ ipotizzabile per
il futuro pensare all’utilizzo di nuova strumentazione/tecnologia, magari in
fase live?
A:Non saprei cosa risponderti, non vogliamo
precluderci alcuna possibilità. Più che a nuovi strumenti penserei a nuove
soluzioni per arrangiare al meglio i brani con gli strumenti che abbiamo… ma
chissà!
Se prendiamo il
vostro vocabolario dei sogni, cosa sta scritto alla voce “… da realizzarsi
assolutamente entro tre anni…” ?
A:Restando in ambito musicale ti direi qualche palco
importante e trovare conferme in un pubblico più vasto, ma tre anni sono troppi!
BIOGRAFIA
2008 – 2009
Il gruppo inizia
l’attività live riuscendo, solo con l’autopromozione, a fare un buon numero di
date in locali, centri sociali e festival del Nord Italia, raccogliendo sempre
ottimi consensi; il trio divide inoltre il palco con il gruppo americano DES ARK,
prodotto da J. Mascis, con Joe Lally, bassista dei FUGAZI, e con i gruppi
italiani SICK TAMBURO e FRANCESCO-C. Nel 2008 il brano Sunlight viene inserito
nella compilation di gruppi pavesi voluta e stampata da Orquestra record.
Nel 2009 continua
l’attività live ed il trio partecipa ai concorsi “Bustock”, organizzato dalla
Comunità giovanile di Busto Arsizio, e “Fly Zone Rock Festival” organizzato in
provincia di Ravenna, vincendoli entrambi.
2010 – 2011
I tre decidono di
cantare in lingua italiana, scelta che comporta la riscrittura di alcuni brani
oltre alla composizione di nuove canzoni; nello stesso anno la band partecipa
alla compilation in tributo a John W. Lennon “A day in the life” con una sua
personalissima versione di Lucy in the Sky with Diamonds; la doppia
compilation, ideata e prodotta da Downtown Studio di Pavia, raccoglie al suo
interno le migliori canzoni di J.W. Lennon, interpretate dai maggiori musicisti
della scena musicale pavese. Nell’estate 2011 il gruppo inizia le registrazioni
delle canzoni che andranno a comporre il primo album.
2012
A febbraio 2012 è uscito il primo disco degli ICEBERG,” Caro tornado”,
registrato e mixato nel loro piccolo studio nella campagna pavese. L’album è
composto da 9 brani, tutti in italiano ed è distribuito principalmente durante
i live e in digital download. Il CARO TORNADO tour2012 è iniziato ufficialmente
il 25 Febbraio 2012, giorno di uscita dell’album.
Formazione: Alessandro Mogni: chitarre e voce
/ Renzo Carbone: basso e voce/ Marco Monga: batteria
Gli incontri musicali occasionali possono essere estremamente
piacevoli, se si è ben disposti verso il “ non conosciuto”. Ed è stato davvero
il caso che mi ha condotto nel mondo di Fabio Brunelli e del suo “the Fabius Project”. E io non perdo
mai l’opportunità di allargare le mie conoscenze specifiche.
Leggendo l’intervista a seguire, e analizzando il pensiero di
Fabio inserito a fine post, emerge un filo conduttore che unisce la sua filosofia di lavoro-e di vita- che si riversa,
ovviamente, nella musica. A metà tra un “j’accuse” e una richiesta di aiuto
(non tanto personale, ma genericamente a favore della musica), si delinea un contesto
che appare impossibile da non condividere. Il sunto potrebbe essere… “conserviamo la storia, ma spalanchiamo le
nostre porte al nuovo che arriva…”. E di “nuovo” da scoprire nel nostro
mondo ce n’è tanto, tantissimo, e di estremo valore, e se cotanto talento fosse
stato presente in particolari momenti storici più fortunati, beh,
avrebbe forse trovato una più giusta collocazione.
Fabio fa naturalmente parte del nuovo, anche se la sua
attuale espressione è il frutto di anni di gavetta, sudore e lacrime.
E’ soprattutto sorprendente il risultato del suo progetto,
che ho potuto “toccare” attraverso due CD autoprodotti.
In questo caso il know
how storico, fatto di prog, jazz, rock e molto altro, non è servito ad alimentare la nostalgia
musicale di cui periodicamente tutti un po’ soffriamo (e in dosi limitate non
può che essere positivo), ma ad elaborare una personalissima idea che non è
sfociata in un tributo alla band dei sogni- e accade spesso -, e nemmeno nella
clonazione, più o meno volontaria, del genere che più si ama. Certo, l’inconscio musicale non si
potrebbe cancellare nemmeno se lo si volesse, ma l’operazione di Fabio, secondo la
mia interpretazione d’impatto, è la più trasparente possibile. E questo è già
un pregio.
Tutto ciò che ho ascoltato è strumentale, e Fabio ci racconta
che è la prima volta che accade, essendo i testi colonna portante delle
proposte precedenti.
Un musicista “scrive” innanzitutto per se stesso, e ogni
traccia inserita in questo progetto appare come il frutto di un’emozione
catturata al volo ed elaborata per
essere ingabbiata e vivere per sempre. In fondo che differenza c’è, nel metodo,
tra una poesia ed un brano strumentale? Entrambi i prodotti conquisteranno uno
spazio significativo perenne, se mossi dalla spontaneità e dalla sincerità a
cui accennavo.
Ma lavorare esclusivamente
per sé sarebbe riduttivo, anche se molti, presi dalla delusione, si
accontentano. E allora ecco l’interattività, che vale sempre nella musica, ma
che nel caso specifico pare elemento imprescindibile all'interno del progetto stesso.
“Non
scrivo liriche perché… non utilizzo immagini in movimento perché…”; Fabio lascia ampia scelta di interpretazione,
grande spazio ai trip-legali- personali,
e si racconta, spingendo l’attento fruitore di musica a creare un
proprio disegno fatto di forme e colori mutevoli. Come definire la musica di
Fabio Brunelli? Forse nessuna etichetta
conosciuta potrebbe racchiudere i veri intenti progettuali e quindi… a ciascuno
la propria definizione, mantenendo così saldo il concetto di essenza della
musica, intesa come totale scambio tra chi la propone e chi la recepisce.
Sì.. io la chiamerei musica
interattiva!
L’INTERVISTA
Iniziamo da Fabio
Brunelli… come nasce la tua passione per la musica e quale è stata la scintilla
che ti ha trasformato in propositore delle tue idee?
La mia
passione per la musica, devo dire folgorante, nasce nel 1974 quando un amico,
con qualche anno in più di me, mette sul piatto Burn dei Deep Purple, e da quel preciso momento in poi non ho fatto
altro che divorare dischi e passare tutte le mie giornate ad andare a sentire
le prove o i concerti dei miei amici, perché come sai in quegli anni
praticamente tutti avevano un gruppo. Mi è stato perciò chiaro da subito che la
musica sarebbe stata la mia vita. Ho cominciato in contemporanea a suonare,
dapprima un po’ tutti gli strumenti,
perché tutti i miei amici musicisti mi
lasciavano mettere le mani là sopra, poi
in particolare la chitarra in un gruppo prog molto conosciuto a livello locale,
la Mensa Comunale, gruppo col quale ho avuto la possibilità di scrivere pezzi e
fare concerti .
Come si è evoluta la
tua storia musicale, dagli inizi sino a “the Fabius Project”?
Dopo la
Mensa Comunale, ho cominciato a scrivere canzoni di vario genere, dal leggero
alla dance, al prog, al blues e quant’altro, perché mi è sempre piaciuto
esplorare tutta la musica e non un filone soltanto. Nel frattempo ho cominciato
anche la professione del musicista, suonando dal liscio al pianobar e con cover
band con le quali ho suonato qualunque genere, dal commerciale all’ heavy metal,
sino ai tributi, accumulando più di 2000 concerti nel corso
degli anni, e facendo grande esperienza anche a livello tecnico, perché oltre a
suonare facevo molto spesso anche la parte del fonico e arrangiatore. Nel 2009
ho deciso di dedicare tutte le mie energie e conoscenze alle mie composizioni
che tuttavia nel corso degli anni erano sempre andate avanti, e che alla fine
hanno trovato naturale sbocco nel Fabius
Project.
Quali sono le linee
guida di questo tuo nuovo progetto?
In questo
progetto confluiscono naturalmente tutte le mie esperienze passate, ma
soprattutto cerco di mettere tutto il mio bagaglio di conoscenza al servizio
delle emozioni, perché la mia visione della musica, che in tutti questi anni
non è mai cambiata, è soprattutto emozione.
Ho trovato nel tuo sito
stralci di pensieri di Aristotele che non conoscevo, ma che ho trovato
estremamente attuali. Di fatto, concetti di 2500 anni fa possono essere usati
per parlare della fase musicale che stiamo vivendo. Tutto ciò è per te triste o
rassicurante?
Credo che
la musica farà sempre parte della vita delle persone, allora come oggi.
Sicuramente da qualche anno è più “consumata” che vissuta come fatto interiore,
ma credo che questo rispecchi perfettamente il periodo storico che stiamo
vivendo. Prendo atto di ciò più che essere triste o rassicurante, e cerco nel
mio piccolo di fare musica che sia più adatta alla riflessione che ad altro uso,
a vantaggio di coloro che vogliono ancora viverla in questo modo.
La musica che tu
proponi è strumentale. Le emozioni ed i messaggi si possono trasferire, in modo
efficace, con o senza liriche. Qual è, in generale, il tuo rapporto con i testi?
Ho sempre
scritto musica con testo, ma in questo progetto ho voluto dare più spazio alle
sensazioni libere, non vincolate a nessun tipo di condizionamento che il testo
può dare. Questo è anche il motivo per il quale, anche nei miei video, c’ è
sempre e solo un immagine fissa e non un mini film, per lasciare a chiunque la
possibilità di fare il “suo” viaggio e non il mio. In futuro non escludo la
possibilità di inserire dei testi nei miei pezzi, alla condizione che siano
testi con qualcosa da dire altrimenti meglio un dignitoso silenzio.
Mi puoi fare una tua
fotografia relativa allo stato attuale della musica, dai possibili talenti al businnes che li
gestisce?
È sotto
gli occhi di tutti che oggi la musica è più un fenomeno usa e getta, dove più
che il talento si cerca di offrire qualcosa da poter essere consumato nell’ arco
di una stagione o due, finito il giro avanti un altro. È naturalmente un
discorso di business, costa molto meno che allevare talenti veri che magari
hanno bisogno di due o tre album per tirare fuori quello che hanno dentro.
Anche perché oggi, è inutile nasconderlo, pochissimi comprano i cd, quindi
penso alle major convenga più allestire un meccanismo fatto di spettacoli
televisivi, compilation e mini tour, che hanno ancora un qualche indotto rapido
e sicuro, che altro. Questo in generale ovviamente.
Quali benefici e quali
problematiche sono legate al mondo di internet, per chi vuole proporre la
propria musica?
Internet
ha fornito a tutti la possibilità a tutti di potersi proporre al mondo e questa
è sicuramente una grande cosa. Lo svantaggio è che non c’è nessun tipo di
selezione, perciò ci troviamo di fronte a una offerta gigantesca di musica, il
più delle volte fatta in maniera approssimativa. Questo a volte può
disorientare il pubblico che tende a non ascoltare più di tanto le nuove
proposte, rivolgendo spesso la propria attenzione verso i soliti noti. Questo a
discapito di coloro che magari, anche se non conosciuti, hanno qualcosa da
dire.
Quanto è importante per
te l’utilizzo della nuova tecnologia e lo stare sempre al passo con i tempi?
Ami anche la fase acustica?
La
tecnologia oggi, se sapientemente usata, permette a chiunque di “lavorare” in
casa, e credo che questo sia il futuro di tutti i musicisti per abbattere i
costi che si hanno se, per fare un album, si utilizza la stessa filiera del
“disco vecchia maniera”. Questo costringerà molti musicisti a diventare anche
fonici e arrangiatori di se stessi, mestieri che però non si imparano in due
giorni. Per quanto mi riguarda, ho il mio studio fatto su misura per me e non
sono alla ricerca costante dell’ultima novità. Nei miei album come avrai
potuto sentire la fase acustica è
predominante, il “suonato” è nettamente prevalente a tutto il resto anche
perché le chitarre “finte” sono improponibili se non come strumenti secondari.
Uso solo la batteria campionata che programmo pezzo per pezzo (non uso quindi
loop già fatti) per scelta, perché mi piace fondere qualcosa di elettronico col
calore degli strumenti acustici.
Che cosa significa
per te la performance live?
La mia
intera vita musicale è stata fin qui basata quasi esclusivamente sulle
performance live, e mi trovo quindi a mio agio nel suonare dal vivo. Credo che
in ogni caso, nelle esibizioni si debba
cercare di trasmettere qualcosa, più che mostrare le proprie capacità tecniche,
anche se so per esperienza che il pubblico ama la performance tecnica. L’ideale
è riuscire a fondere entrambi gli aspetti: tecnica, ma senza mai dimenticare la
comunicazione.
Cosa prevede il tuo
vocabolario dei sogni alla voce … “da
realizzare entro tre anni…” ?
Più che
sogni (che faccio ovviamente e mi piacciono moltissimo, ma so che quasi sempre
sono irrealizzabili … ), mi piace fare progetti che posso rendere concreti, e
tra questi vorrei, nei prossimi anni, portare live la mia musica, cercando di
farla conoscere a più persone possibili e offrirla così a chi la vuole e si
sente con me in sintonia, dando così il mio piccolo contributo alle emozioni, e
… credo ce ne sia molto bisogno, oggi più che mai.
Ho cominciato ad appassionarmi alla musica nel
1973 e ho amato da subito quella dei tempi e quella dell’allora recente
passato; ho consumato i dischi dei Genesis e di tutti gli altri geni del prog,
mi sono entusiasmato coi Weather Report quando ancora avevo ancora i calzoni
corti; poi i Deep Purple mi hanno cambiato letteralmente la vita, ed ogni
grande musicista che ho ascoltato con avidità mi ha dato talmente
tanto che ho deciso molto presto che, ad ogni costo, la musica sarebbe stata la
mia vita. Tutto questo ricordare il mio passato mi crea sempre grande emozione
e un affetto immenso per quella grande musica, e nostalgia per quegli anni di
spensieratezza, ma poi penso anche che quello, seppur stupendo, è il passato …
siamo nel 2012: voglio ancora rifugiarmi indietro nel quando “si stava meglioquando si stava peggio” o voglio vivere pienamente la vita che ho
ancora davanti e fare nuovi progetti per sentirmi ancora vivo, senza guardare
agli anni che passano?! Sappiamo tutti che sono tempi difficili e che la
reazione più immediata è lo scoramento e l’inerzia, ma io credo che solo
facendo progetti nuovi ai quali dedicarsi con tutte le proprie forze si possa
sperare in qualcosa di positivo. Questa idea quasi di paura di vivere il nostro
tempo mi viene data dall’osservazione della pubblicazione dei video musicali
dei miei amici di Facebook (che sono chiaramente appassionati alla stessa
musica che ascoltavo io e che in molti casi è stata il motivo principale
per chiedere l’amicizia), sempre o quasi video di brani dei ‘soliti’ grandi del
passato e sui quali ovviamente clicco “mi piace”, ma raramente nuove proposte
…. possibile che non ci sia la voglia e il coraggio di emozionarsi con musica
nuova?! Quasi come se non ci fosse la possibilità di vivere cose nuove alle
quali legare musiche nuove. La musica è la colonna sonora della nostra vita, se
non c’è musica nuova da ascoltare forse vuol dire che non c’è neanche
niente di nuovo da vivere. I musicisti devono sforzarsi di proporre
qualcosa di non scontato, che magari sì, tragga ispirazione dai
miti del passato, ma che non ne sia la sterile copia( per fare in questo modo
sicura breccia nel cuore del pubblico orfano di tanta passata magnificenza
sonora); agli appassionati tocca il compito-e la voglia- di ascoltare
musica che non sia la facile riproposizione dei propri miti passati,
senza paura di perdere le proprie sicurezze e avere così la possibilità di
poter così sognare ancora. Per chi la assapora in un certo modo (e sono le
persone con le quale ho feeling), la musica è lo specchio esatto di ciò che stiamo
vivendo; senza la passione e la voglia generale di qualcosa di nuovo da vivere,
saremo costretti ad essere prede del nulla musicale (e non solo quello)
proposto dai potenti o a restare “nell’antico”, entrando quasi in una sorta di
meccanismo mentale perverso che ci fa rifugiare nel passato perché non c’è
niente di nuovo nel presente e nel futuro; viviamo la vita che abbiamo davanti
accompagnandola con musica nuova… un augurio e una speranza per non
vivere sempre e solo di ricordi.
Miramòr è il secondo album di Pablo e il mare, il primo in trio
acustico.
Nell’intervista a seguire, tra
le tante cose interessanti emerge la motivazione del titolo del “disco”, un
gioco di parole che sottointende un certo modo positivo di vedere la vita. Ulteriore
riflessione può derivare dal nome “Pablo
e il mare”. Entrare per un attimo nel mondo di una nuova band, significa avere a disposizione
molteplici ingredienti tra cui attingere, e l’idea riassuntiva non tiene solo
conto della musica e dei testi, ma di una serie di “dettagli”-art work, credits,
collaborazioni, immagini, biografia ecc.-che contribuiscono a formare una
picture ben definita.
Torino, città nativa della band,
ha dei contorni delineati, magari in parte frutto di stereotipi, ma la si idealizza con un certo
grigiore londinese difficile da scrollarsi di dosso, abbastanza austera, a
tratti operosa e concentrata su cose concrete. L’argomento viene affrontato
nello scambio di battute tra me e Paolo
Antonelli, ideatore del progetto, ma è rilevante il gap tra “luogo di
partenza” e nome e musica proposti. L’evidenziazione è necessaria per
introdurre l’argomento “canzoni”.
Le trasformazioni che riguardano
la filosofia musicale sono il frutto di grandi cambiamenti delle esigenze
personali. Fu inizialmente drammatico il passaggio di un famosissimo cantautore, Dylan, da acustico ad
elettrico. In tono ovviamente minore, anche il tracciato inverso-da elettrico
ad acustico- di Pablo e il mare, è il
percorso che deriva, mi immagino, da importanti maturazioni personali. La
sintesi di tale stato è racchiusa in Miramòr,undici tracce che pennellano
situazioni quotidiane che sanno di pop rock.
Melodia, ritmo e una voce che
sembra fatta apposta per il mood della proposta, sono gli ingredienti che
accompagnano i messaggi e la cura dei dettagli. D’impatto l’album potrebbe
sembrare rivolto ad un pubblico giovane, ma risulta gradevole sotto ogni punto
di vista e quindi adatto ad ogni amante del pop e della musica che riesce a
infondere positività, anche se per pochi attimi.
In fondo dovrebbe essere questo
il ruolo della musica, far stare bene chi decide di fruirne, e in questo senso Miramòr mi sembra possa fare centro.
L’INTERVISTA
Come ti sei avvicinato
alla musica, quale è stata la scintilla che ti ha fatto capire quale fosse la
tua vera passione?
Come per
tanti ragazzi che fanno musica, le scintille iniziali sono due: un’esigenza
espressiva e una vibrante passione. Riassumendo la genesi di Pablo e il mare, negli anni ’90 ognuno
di noi militava in giovanissimi gruppi torinesi (io e Marco negli Avenida
Perdida e nei Mystica, Andrea nei Trait d’Union). Io scrivevo le mie prime cose
e suonavo la chitarra, ma il ruolo mi stava un po’ stretto. Per questo motivo
nel 2002 ho costituito intorno alle mie canzoni il progetto Pablo e il mare.
Esiste un musicista o
una band che vi ha influenzato in
maniera decisiva?
Un
musicista? Duemila direi. Di sicuro l’impronta pop d’autore di artisti italiani
come Mario Venuti, Daniele Silvestri, La Crus, ascoltando Pablo e il mare un po’ si percepisce. Ma il retroterra è profondo: il gusto per il
rock degli anni 60 e 70, la new wave anglosassone. E poi la scoperta di nuovi
registri, la scoperta della musica mediterranea e contaminata, del reggae, la
patchanka, e la nu-acoustic americana, Jack Johnson in testa. E rimaniamo sempre dei gran curiosi. Io
ultimamente ascolto Nick Drake.
La formula acustica è
quella che preferisci, ma esistono momenti musicali “elettrici” nella tua vita
quotidiana, non obbligatoriamente pubblica?
Assolutamente
sì. Ho una predilezione per vibranti chitarre “tarantiniane”, vibrati e
riverberi profondi. Ho nel cassetto idee elettriche che chissà se un giorno
vedranno luce. Devi sapere che Pablo e il
mare è stato una rock band in quintetto/sestetto per anni; “Onde”, il
nostro primo disco del 2006, era un disco elettrico. La svolta acustica è
arrivata nel 2009, un po’ per scelta, un po’ per “comodo”, vista la situazione
asfittica del settore, che dal vivo rende più facili le esibizioni di situazioni
“snelle”. Poi, a dirla tutta, la soluzione attuale in trio ci piace: il cajòn
al posto della batteria, legato al pianoforte e alla chitarra acustica, sulla
mia voce, rappresentano il sound Pablo e il mare. “Onde” conteneva ottime
canzoni ma non dava un’idea musicale di insieme coerente con gli stessi
risultati di “Miramòr”.
Il mare mi pare
argomento sempre presente nel tuo modo di esprimerti. La terra in cui vivi ne è
priva. Effetto “compensazione”, obiettivo da raggiungere o cos’altro?
Bella
domanda. Ti deluderò, ma non ho ancora trovato risposte. Anzi, l’occasione è
buona per cercare di rispondere: di sicuro sono uno di quelli che, fin da
bambino, in macchina sulla strada per il
mare, provava quel “dietro una
curva improvvisamente il mare” , come cantava Fossati. Ma non è una sensazione che provano tutti,
questa? In secondo luogo, il mare è quello che a Torino non c’è, e quel che non
c’è sta nella sfera dell’immaginazione, della libertà, illusione, visione. E
per finire c’è un fatto culturale: il mare è per me un richiamo naturale,
ancestrale. Sono nato a Torino ma le origini sono a Sud. Aggiungi a questo che
ho viaggiato molto, e questo mi ha dato l’opportunità di vedere mille modi di
abitarlo, di viverlo, di amarlo, questo mare.
5)Quanto ti ritieni
lontano, o diverso, dai cantautori degli anni ’70?
Ma dai…
Il solo pensiero di confrontare la mia scrittura con certi mostri sacri mi
imbarazza. Provo a spiegarla così: le canzoni di Pablo e il mare sono pop, con attenzione alla buona scrittura. Mentre
per alcuni di questi cantautori vale il contrario. Poi ci sono gli
inarrivabili, per i quali la musica e il testo sono entrambi di altissimo
livello e nulla, ma proprio nulla è lasciato al caso. Ma è una vecchia
discussione, questa…
Riesci a concepire
il passaggio di un messaggio, o comunque
di emozioni, attraverso una musica priva di liriche?
Certo, è
questo il potere della musica. Chi non si emoziona ascoltando Morricone? Chi
non si emoziona ascoltando Misirlou, il tema di Pulp Fiction? Quanto a noi, al
momento Pablo e il mare ha in
scaletta il tema de “la valse d’Amelie”.
Che giudizio dai dello
stato della musica, riferito ai talenti in circolazione?
Alcuni
nuovi nomi italiani mi piacciono molto per la sensibilità e l’ironia che
mettono. Prendi Brunori o Dente. Bravi anche dal vivo, sono molto espressivi. Quello
che per me è il loro limite (parere personalissimo) è questo raccontare sempre il “particolare”. Io preferisco l’ “universale”,
che però sembra non essere più di moda. Parlano sempre un po’ “della loro
cameretta”…
Voglio
dire, a un trentenne Dente che già scrive: “non
mi toccano le cose che non homai
sentito” preferisco un Lorenzo Jovanotti, che malgrado l’età anagrafica scrive
ancora della sua voglia di scoprire, della sua ricerca, del suo istinto
navigatore.
E cosa ti senti di dire a proposito del
business musicale?
Non sono
la persona più adatta con cui parlare di questo. Se ascolto ” Anima Latina” di
Battisti, che è del 1974, capisco che oggi nessun artista da classifica
potrebbe permettersi simili libertà compositive. Ma oggi di artisti da
classifica ce ne sono pochini. C’è un bel sottobosco indie, che arriva ad
alcuni, ma non a tutti. C’è tantissima offerta. Arrancano tutti.
Qual è la tua maggior
fonte di ispirazione quando crei una nuova canzone?
Miramòr,
il titolo del disco di Pablo e il mare, gioca con le parole Mirar-
Mar-Amor. Mar come Mar, Amòr come Amòr,
ma Miràr come apprezzare, immaginare, scoprirsi capaci di sorprendersi. E’ un
tema ricorrente, che emergerà anche nei brani della prossime produzioni.
E ora sogna. Cosa vorresti ti accadesse, musicalmente parlando, nei
prossimi tre anni?
Dammi un
attimo per pensarci… vado? Vado! Vivere
questo mondo, senza perderne un secondo. E cercare di raccontarne qualche
frammento a modo mio, indipendentemente dai riscontri. Ah… Nel breve, invito tutti a non perdersi Miramòr, il nostro
disco. I torinesi lo trovano
nei negozi di dischi, il resto del mondo può scrivere a mail@pabloeilmare.it o cercarlo su Amazon e I-Tunes.
Biografia
Le canzoni di Pablo e il mare prendono il largo a
Torino nel 2002, guidate dalle idee di Paolo Antonelli, autore di testi e
musiche. Il nome della band è preso dal titolo di una delle canzoni più
rappresentative, che richiama uno scenario mediterraneo, contaminato, latino e
trasognato. Una proposta dalla spiccata vena d'autore, valorizzata dal suono
degli strumenti acustici. In una parola: Canzoni. Apprezzate sia dal mondo
della canzone d’autore “tradizionale” che dalla fervente scena indipendente.
Le prime tappe vedono Pablo protagonista di "Colonia
Sonora" e un progressivo intensificarsi dell'attività live. La
partecipazione ad alcuni importanti festivals dedicati al panorama indipendente
suscitano curiosità da parte degli addetti ai lavori, che nel 2005 premiano il
progetto con la vittoria della XVI edizione di "Rock Targato Italia",
il prestigioso concorso indetto da Divinazione, che nelle precedenti edizioni
portò alla ribalta i nomi di Timoria, Scisma e Marlene Kuntz.
Nel 2006 vede la luce "Onde", il disco d'esordio legato
al clip di "All'alba di ogni giorno" diretto da Tak Kuroha (già
regista per Gianna Nannini, Morgan, ecc.). La band suona in diversi locali
della penisola e prende parte a vari festivals di rilievo in tutta Italia, a
fianco di realtà quali Casino Royale, Africa Unite e Meganoidi.
Nel 2009 parte una nuova era di
Pablo e il mare, in trio acustico e rinnovata vena d’autore.
Il tour estivo porta Pablo e il
mare in Slovenia. Nel 2010 La band figura nel cast estivo di Spaziale, insieme
a Marta sui Tubi, The Niro, Perturbazione.
Il 2011 è l’anno di Miramòr, atteso secondo disco
registrato da Pippo Monaro e coprodotto da Luigi Giay/Blumusica. Il tour promozionale di Miramòr ha preso il
via il 25/04 a Torino, in apertura di Subsonica e Niccolò Fabi, davanti a 5000
spettatori, ed è proseguito con venticinque date in Italia.
Formazione
Paolo Antonelli: voce e chitarre
(classica, acustica ed elettrica)
Andrea Ferraris: piano elettrico
Marco Ostellino: cajòn e
percussioni
COMUNICATO STAMPA
Miramòr è il nuovo disco di Pablo e il mare, trio d'autore e contaminazioni.
Canzoni d'amore e di mare, di acqua passata e vita ancora da
navigare.
Un inno alle passioni e all'arte della coltivazione della suprema
arte della meraviglia.
Secondo capitolo della discografia del progetto nato nel 2002 a Torino dalle
creazioni di Paolo Antonelli, Miramòr è una ricetta i cui ingredienti sono il sound acustico e contaminato,
l'attenzione al testo e la decisa attitudine pop. Canzoni come intimi effetti
personali, che affondano le proprie radici nel cuore del mediterraneo ma
volgono lo sguardo oltreoceano. Il lavoro arriva a cinque anni esatti da
"Onde", esordio discografico che sulla scia della vittoria della XVI
edizione di Rock Targato Italia ottenne larghi riconoscimenti di critica e
portò Pablo e il mare sui palchi di
importanti festival nazionali. Il secondo capitolo di questa storia, apprezzata
dal mondo della canzone d'autore più tradizionale e dalla fervente scena indie
nostrana, si compone di 11 brani registrati da Pippo Monaro negli studi
subalpini di Blumusica, sotto la supervisione e la coproduzione di Luigi Giay.
La voce e le chitarre di Paolo Antonelli, autore di
musiche e testi, sono accompagnate dal ricco set di percussioni di Marco
Ostellino e dalle tessiture di Andrea Ferraris, pianoforte e rhodes.
Tra le collaborazioni di Miramòr, il clarinetto di Andrea
Sicurella (Banda Elastica Pellizza), le preziose chitarre di Enrico Fornatto,
la voce di Emanuela Struffolino e il tocco mediterraneo di Francesco Coppotelli
(violini, oud e bouzuki).
Info …
PABLO E IL MARE
Canzone d’autore e
contaminazioni in trio semiacustico