venerdì 26 luglio 2013

Demetra Sine Die-A Quiet Land Of Fear, di Gianni Sapia


Odio il freddo e l’inverno e ora so con chi prendermela se esistono. Con Ade certo, malvagio dio degli inferi. È stato Lui infatti a rapire Persefone e a far sì che Demetra, dea del  grano e dell'agricoltura, nonché madre della rapita, fermasse ogni attività sulla terra. Ovvio che Zeus questa cosa non la prese bene e obbligò Ade a liberare Persefone. Ma l’infingardo equivalente del biblico Lucifero, prima di liberare la giovane, le fa mangiare i semi di melograno, così che lei subisce, per sei mesi l’anno, l’irrefrenabile desiderio di tornare negli inferi! Qualcuno dice che tra Ade e Persefone nel frattempo fosse nato del tenero e che lei, melograno o no, non fosse poi così dispiaciuta di tornare per un po’ laggiù al calduccio, ma questi sono pettegolezzi da Novella 2000. Insomma che alla fine, per quei sei mesi l’anno, la permalosa Demetra, ferma di nuovo tutto. I sei mesi freddi. L’inverno. Un mito che non conoscevo e che ora, grazie ai Demetra Sine Die, conosco. La musica ha sempre qualcosa da insegnare. Grazie ai fantasiosi genovesi Demetra Sine Die allora, ovvero Marco Paddeu (chitarra e voce), Adriano Magliocco (basso), Marcello Fattore (batteria) e Matteo Orlandi (synths) e ai loro ospiti Bobby “Nappi” Calcagno (tromba) e Silvia Sassola (voce introduttiva in Red Sky Of Sorrow), per aver solleticato la curiosità della mia mente. Curiosità che non ha smesso di essere pungolata durante l’ascolto del loro ultimo lavoro, A Quiet Land Of Fear. È un album spaziale. Ma non nel senso che viene dallo spazio, nel senso che lo occupa. Sembra essere in continua propagazione, come un nuovo universo. Sonorità spesso fatte di echi che sembrano venire da lontano ne fanno un disco cosmico, senza orizzonti, o meglio, con orizzonti ancora da definire, che si spostano sempre un po’ più in là. Fin dal brano d’apertura, Red Sky Of Sorrow, si ha questa sensazione di sconfinamento. La voce della guest Sivia Sassola dà corpo ai versi di Sir William Blake, declamando con reverente trepidazione i versi tratti da Songs of Innocence and Experience, per poi lasciare il campo alle visioni create dalla voce di Paddeu e dal shynt di Orlandi e alla repentina comparsa tribale del ritmo di Fattore, ben coadiuvato dal basso di Magliocco. Quando la chitarra irrompe nel pezzo il gusto dark metal del brano si attacca al palato. In Black Swan e il basso ad indicare la strada, mentre la batteria rende piacevole il panorama, con ritmiche mai banali. Ancora una volta è la chitarra a non lasciare solo il dark, dandogli la giusta compagnia del hard e del metal, mentre synth e voce continuano a non voler delimitare confini. Si arriva allora alla title track, che pur non abbandonando la sconfinata ossessività che sembra caratterizzare il sound dei DSD, lascia aperte le porte ad un’architettura melodica maggiormente riconoscibile. Questo fino a metà brano. Poi tutto viene stravolto. La vena visionaria dei musicisti riprende il sopravvento, il brano diventa surreale, ipnotico e non finisce, non muore mai, continua a far battere il suo cuore, a dare impulsi vitali, trasformandosi nel pezzo successivo, 0 Kilometers to Nothing, che continua ad avvolgerti tra spire sempre più strette con cui l’acida tromba dell’altra guest Roby “Nappi” Calcagno ti incatena. La batteria diventa incessante, quasi un suono unico e il cantato quasi un parlato, dando teatralità al pezzo. È qualcosa che non finisce mai, spazio sconfinato. Distorsioni sonore e cerebrali mi immergono in Ancestral Silence. Poco più di un paio di minuti di visioni sonore , giusto per sottolineare il viaggio cosmico, vera nota caratteristica di tutto l’album. E Silent Sun non si discosta da questa caratteristica. Echi sintetici, voce trasognata e batteria a fare da filo conduttore, fino allo stacco metallaro, atto conclusivo del pezzo. Sono oltre la metà di A Quiet Land Of Fear ed è chiaro ormai che l’intorno è fatto di stelle, universi, pianeti. Un dark metal che viaggia nel cosmo, dove la meta sembra essere il viaggio stesso. E il viaggio continua. Tra basso e synth si inserisce, come già in precedenza, il suono ipnotico della tromba, che si insinua nella mente, cancellando la gravità dai tuoi ricordi e ti trascina in un volo onirico durante il quale digressioni più pesanti sembrano essere vuoti d’aria che ti risvegliano all’improvviso e quando pensi che ti sfracellerai al suolo, di nuovo i suoni tornano sognanti  e ti sorreggono, come fili appesi a pianeti lontani, permettendoti di continuare a restare sospeso e volare tra lune, pianeti e fortune. È Distances, un pezzo decisamente visionario, che si conclude con forza. Per i due minuti abbondanti di Inanis può valere lo stesso discorso fatto per Ancestral Silence. Frasi che non possono essere decontestualizzate. Sottolineature. Accenti. E siamo all’atto conclusivo. That Day I Will Disappear Into The Sun è l’ultima impronta riconoscibile di un viaggio che però non è finito. I Demetra Sine Die raccolgono in quest’ultimo pezzo tutte le tessere del loro puzzle sonoro e si congedano da chi ascolta lasciandogli chiara in testa la sensazione che non è finita. Davanti spazio sconfinato, alle spalle altrettanto. Il nero trapuntato da buchi di luce di stelle. Una musica affascinante che ti accompagnerà lungo il viaggio, fino all’ultima frontiera.