martedì 3 giugno 2014

Marcello Chiaraluce-Crime of the Rhyme


Crime of the Rhyme è il secondo album di Marcello Chiaraluce, musicista alessandrino e virtuoso della chitarra.
Sottolineo il talento applicato alla passione, perché la prima volta in cui lo vidi all’opera - ed era giovanissimo - i suoi compagni di palco erano stellari: era il 2006, e a Novi Ligure era di scena una buona fetta storia del rock, tra nuovi e vecchi Jethro Tull presenti alla Convention. Mi colpì in particolare un attimo che riuscii - maldestramente - a immortalare, quello in cui l’assolo di Aqualung vide una strettissima interazione tra Marcello e Ian Anderson, con una disinvoltura del primo - magari apparente, vista la sicura emozione - che mi portò spontaneamente a fargli i complimenti, a fine concerto.
Da quel giorno è passata molta acqua sotto ai ponti, e il cammino è proseguito, tra Beggar’s Farm e band autonoma, con la possibilità di toccare con mano il gotha del rock, italiano ed internazionale, laddove il “toccare” ha il senso della condivisione alla pari di un palco, spesso, di estremo valore.
Ma le vie da percorrere, per tutti i musicisti, sono sempre molteplici, e il progetto “solo” è l’unico che può garantire l’espressione personale, senza i normali condizionamenti che sono alla base del “mettersi al servizio”.
L’autarchismo musicale è anche sinonimo di maturità e di necessità di rischiare in proprio: voglia di assumersi responsabilità, di prendere in mano le redini di un’organizzazione, guidando un team che si è scelto, tra sentimenti e razionalità.
Chiunque si fosse trovato a Novi Ligure quel giorno di settembre - mi pare il 24 - del 2006, e avesse poi avuto l’opportunità di seguire l’evoluzione concertistica della Beggar’s, di cui Marcello faceva parte, si sarebbe fatto l’idea di un musicista dedito alla Musica Progressiva, intesa come principale amore musicale tra i tanti disponibili e seguiti.
A giudicare da questo “Crime of the Rhyme” - ma anche dall’album precedente - l’anima di Marcello Chiaraluce è innanzitutto rock, famiglia ampia in cui possiamo trovare differenti sfaccettature.
Mi piace sottolineare - ed è oggetto dell’intervista - come nel nuovo disco il talento chitarristico non sia l’oggetto principale su cui basare il tema generale, ma solo uno degli elementi che fanno parte di un disegno superiore, nella ricerca di un’armonia produttiva che permette di rivolgersi ad un pubblico ampio e non alla nicchia.
Tutto questo potrebbe essere un preciso goal, una legittima pianificazione a tavolino, ma ciò che invece è assolutamente spontaneo è il contenitore, costituito da dieci tracce che dimostrano quale sia il volto dell’autore, in buona oscillazione tra il rock, il pop, il blues, con qualche souvenir legato a certa spensieratezza californiana che riporta indietro nel tempo.
Non c’è brano che non resti intrappolato nella testa, non c’è ritmo che non solleciti un dejà vu, con un passaggio frequente tra “durezza e ballad”, gradevole per ogni tipo di palato.
La voce è condivisa con Serena Torti e le liriche sono in lingua inglese (tranne la conclusiva “Solo Me”, versione italiana di “Me and my Bag”). Apprezzabile l’applicazione e il miglioramento della dizione english, nota dolente per qualsiasi italiano si voglia cimentare con la lingua di Albione.
Il resto della band è per me familiare: Oltre alla già citata Serena Torti alla voce, Luca Grosso alla batteria, Kenny Valle alle tastiere e Daniele Piglione al basso.
In più una serie di ospiti, comprensivi di un quartetto di fiati, il Nassau Horns Quartet.
Un album piacevole, scorrevole, afferrabile all’impatto, e sicuramente vincente dal vivo, momento in cui è possibile lasciare spazio alle variazioni sul tema e al coinvolgimento.
La strada sembra quella giusta, resa agevole da un rinnovato ottimismo.
Anche quando si è molto giovani arrivano momenti dal forte sapore simbolico, dove piccoli segnali propongono l’immagine del “punto e a capo”… la direzione e il verso diventano improvvisamente chiari e il percorso pieno di luce. E mi verrebbe da dire...nomen omen!



L’INTERVISTA

Riepiloghiamo, che cosa ti è accaduto, restando nel campo della musica, nel periodo che va dall’uscita di “On a winter walk” (2007) sino ad oggi, giorni in cui nasce “Crime of the Rhyme”?
On a winter walk” nasceva dall’esigenza di concludere finalmente qualcosa di reale. Ero sempre arrivato ad un passo dalla realizzazione di un album, poi le formazioni si dividevano, perdevano entusiasmo e io rimanevo con in mano un pugno di mosche. “Crime” invece è la naturale continuazione e il consolidamento del mio nuovo progetto solista. Ne registrai una prima versione l’anno successivo a OAWW (2008), ma non ne ero soddisfatto e seguì un periodo di abbandono/depressione artistica fino a che non trovai la giusta formazione per lavorare all’album con una chiave diversa. In mezzo ci sono stati molto concerti e impegni con i Beggar’s Farm che hanno vissuto il loro vero periodo d’oro.

Raccontami qualcosa della tua nuova etichetta e del motivo per cui hai deciso di diventare musicalmente autarchico.
Circa tre anni fa organizzai un Festival sulla chitarra Pop, Rock, Blues intitolato GUIT-AL, gioco di parole tra GUITAR e AL che è la targa di Alessandria, la città in cui vivo. Visto il successo dell’evento, che apriva le porte soprattutto a coloro che proponevano brani originali, mi sono detto… perché non estendere questo marchio anche alla discografia, cominciando dalle mie produzione e legarlo in futuro al fermento della mia città che è più interessante di quello che possa sembrare?

Come hai modificato la line up?
In un progetto solista la cosa più difficile è fare affezionare i musicisti alle canzoni facendo in modo che le sentano proprie. Spesso le persone intravedono un possibile successo, o ti usano da trampolino per situazioni più remunerative. Quando trovi le persone giuste che credono come te in quello che fanno allora lì, senti scattare una marcia lavorativa diversa, e a quel punto è il momento di entrare in studio. Purtroppo in così tanti anni nemmeno i migliori matrimoni reggono, perciò qualche elemento lo perdi per strada. “Crime” è partito dall’idea di mettere su disco ciò che avrebbe suonato una band dal vivo senza rimaneggiare troppo e così è stato. Rispetto a OAWW in cui mi sono avvalso di session men, in “Crime” abbiamo suonato i brani dal vivo per diversi concerti con una formazione stabile e poi siamo entrati in studio con le parti calde!

La musica che proponi in questo nuovo disco mi appare come molto trasversale, tra generi e sonorità variegate, capace di spaziare in lungo e in largo tra le differenti epoche: sono fuori strada?
No ... anzi, il disco è diviso in metà, tra una proposta più POP e una decisamente più Indie e sperimentale! E’ colpa del mio eclettismo musicale. Ascolto da Elton John ai Megadeth passando per i Genesis e Bob Marley… ultimamente anche Mozart e Stravinsky… come posso decidermi, se mi piace tutta la musica bella? E come faccio a non farmi influenzare… non lo so. Infatti i miei dischi vanno presi per quello che sono, tante stanze dalle quali si entra e si esce senza sapere esattamente dove si sta andando.

Sei un virtuoso della chitarra, ma mi pare che nell’album sia forte l’intento di rendere il tuo strumento parte “dell’orchestra”, al servizio di un obiettivo più ampio della dimostrazione di bravura. Anche in questo caso chiedo il tuo aiuto.
Sono contento che sia arrivato questo intento. E’ un album di canzoni e non di un chitarrista. Volevo guardare la mia musica dalla prospettiva delle mie orecchie e non delle mie dita. La bravura, se vogliamo chiamarla poco umilmente così, è anche la capacità di fare un passo indietro in funzione del prodotto generale.

Che cosa lega i vari brani tra di loro? Esiste un legame concettuale?
“Crime of the Rhyme” è il risultato di un incontro con una persona che mi ha trascinato nella parte più edonistica della mia esistenza. Dormivo poco e vivevo molto, a volte anche con frange estreme che toccavano il decadentismo. Il filo conduttore è il dualismo tra autoconservazione e autodistruzione. 

Riesci a comparare “Crime of the Rhyme” con le tue creazioni precedenti?
Rispetto a OAWW, “Crime” è un disco apparentemente più frivolo, dove la frivolezza non deve essere intesa come un difetto, ma come sinonimo di leggerezza di intenti. Rispetto ai dischi con gli Interra Straniera, il gruppo con il quale iniziai la mia carriera discografica nel 2001, il rapporto è ancora più ampio, dunque sarebbero incomparabili. Sicuramente in questo disco avevo le idee più chiare e la band aveva un “suo suono”; il risultato a mio parere supera qualunque cosa io abbia prodotto precedentemente. In questo disco inoltre mi sono avvalso della collaborazione di Ermello “Lello” Calorio, grande appassionato di musica e residente a Londra da circa vent’anni anni, credo. Ha curato i testi e la pronuncia con un entusiasmo tale che si è creato un rapporto di collaborazione importante. Diciamo che con “Crime” non sono più da solo, ho perso molti compagni, ma quelli che sono rimasti ora formano con me una squadra importante e affiatata, come Luca Grosso, il batterista e Claudio Cattero, l’ingegnere del suono.

Che cosa ti soddisfa di più a questo punto del percorso: il live? La composizione? L’interpretazione? L’organizzazione e il pieno controllo del progetto?
Eh… è come chiedermi, cosa ti piace di più della donna che ami? Portarla a cena, vederla muoversi per casa, sentirle dire che ti ama o farci l’amore? Ho bisogno di tutte le fasi che hai descritto sopra. Il live è il cuore, la composizione la testa, l’interpretazione è la pelle e l’organizzazione sono gli occhi con cui cerco di guardare da fuori il risultato finale. 

Nove brani in inglese ed uno solo, “Solo me”, in italiano: non voglio certo entrare nel personale, ma… trattasi di necessità di estrema chiarezza?
Si evince con facilità che “Solo Me” è la versione italiana di “Me and my Bag”, altra traccia contenuta nell’album. Durante la produzione e l’incontro con vari produttori, mi consigliarono di proporre versioni in italiano di alcuni brani. Lavorandoci sopra “Solo Me” era l’unica che mi convincesse davvero, inoltre l’apporto di Max “Big Harp” è stato talmente geniale e brillante che non potevo esimermi da inserirla nell’album. Rispetto agli altri brani, il testo di “Solo Me” è stato scritto più recentemente e rappresentava meglio il mio stato d’animo più riflessivo e pacato rispetto agli altri brani del disco.

Ed ora cosa potrebbe accadere a Marcello Chiaraluce e alla sua band?
Ti anticipo che Marcello Chiaraluce ha già registrato parte del suo nuovo album, il terzo, e sta continuando a suonare live con un progetto in trio che spacca. Dopo alcuni lavori che prevedevano addirittura l’Orchestra Sinfonica, ci siamo guardati in faccia e di riflesso ci siamo detti “qui bisogna tornare a menare come dei fabbri”, e così, rifuggendo orpelli e barocchismi, siamo tornati alla figura geometrica più semplice… il triangolo. Non amoroso però… non siamo così legati! Oltre a questo progetto, stiamo promuovendo anche Crime con un’ottima formazione live e sto terminando addirittura un’opera lirica che andrà in scena l’anno prossimo. Non riesco mica a stare fermo!