lunedì 7 luglio 2014

Røsenkreütz-“Back To The Stars”



Quando inciampo, più o meno casualmente, in una Musica che mi colpisce particolarmente, il mio primo pensiero è condividerla con chi credo la saprà apprezzare. Evito di cercare di comparare il mo giudizio con quelli già presenti in rete, per non essere influenzato. In questo caso, mentre entravo in contatto con Fabio Serra, titolare del progetto Røsenkreütz, ho avvertito una certa … “eccitazione da scoperta” trapelare dalle parole di un giornalista e musicista di cui ho piena stima, ed è stato piacevole trovare conferma alle parole di Alberto Sgarlato dopo un solo ascolto dell’album “Back To The Stars.
Il disco è l’evidente prova che c’è ancora molto da dire - e dare - in una fascia musicale, quella del prog,  che è stata accantonata con grande rapidità, ma che è in continuo fermento, anche se relegata in una zona d’ombra.
Dice Fabio: “… questo mio progetto prog rock finalmente vede la luce dopo anni di sofferenze; Røsenkreütz è nato come mia idea solista, poi diventata una band vera, e dopo lungo lavoro siamo recentemente usciti su Andromeda Relix/Opal Arts. Ho puntato ad un sound forse un pò atipico per il prog italiano, e ho scelto di cantare in inglese per una questione puramente sonora (son cresciuto con quel sound in testa e fatico a distaccarmene…”).
Impressionante pensare agli anni di lavoro impiegati per arrivare ad una soddisfacente conclusione, utilizzando momenti liberi e nottate per chiudere un cerchio che stentava a trovare la fermatura.
L’intervista a seguire risulterà esaustiva per comprendere a fondo cosa c’è dietro a questa perla musicale, perché Fabio Serra riesce a fornire un’efficace immagine della band, delle linee guida e dei significati racchiusi nell’album.
Cinquantacinque minuti di suoni suddivisi su sette tracce sono il riassunto di un credo musicale che ha del sorprendente, in cui emerge l’assorbimento degli insegnamenti del passato - ovviamente - ma dove interviene un tocco personale che rinnova ciò che i detrattori del genere chiamano “antico”. Gli “esperti” affermano che nulla di nuovo si può inventare con un numero di note che è sempre quello, ma se provassimo ad applicare alla musica il principio della conservazione dell’energia (e la Musica non è pura energia?) - nulla si crea e nulla si distrugge, ma tutto si trasforma - troveremmo all’interno di questo album una base conosciuta - fatta di genio anni ’70 - a cui viene applicata l’unicità che è tipica di ogni singola anima (sensibile): è questo il senso della “trasformazione”, mettere le caratteristiche personali, uniche e incomparabili, a disposizione di una musica accessibile a tutti, ma “manipolabile” con pieno successo da pochi … capaci e virtuosi.
In Back To The Stars ho trovato tutto ciò che amo del prog, quella miscela fatta di trame cangianti, di “perlustrazione di vari mondi”, di tecnica, di melodia e di ritmo… non sempre regolare.
Una spruzzata di Genesis, qualche goccia di Gentle Giant, una spremuta di YES e un tocco di Kansas servono solo a ricordare chi ha avuto il merito di aprire strade un tempo sconosciute, lasciando tracce incancellabili, ma il tutto è riproporzionato al disegno illuminato di una fantastica squadra al lavoro, con un direttore d’orchestra che mi ha fatto esclamare: “… ma dove si era nascosto per tutto questo tempo?”.
Non un concept, ma tante storie che alla fine trovano un punto di arrivo di livello assoluto, la title track, traccia di oltre diciassette minuti, che racchiude tutte le meraviglie dell’universo Røsenkreütz.
Se è vero che ogni brano rappresenta una storia ideata da Fabio Serra, esiste l’eccezione, il tributo al passato che è rappresentato dalla beatlesiana “I’m the walrus”, proposta in una veste inusuale e adatta al format ideato.
Non conosco le motivazioni della scelta, forse solo amore per le origini del beat, ma mi piace immaginare la voglia di interpolazione tra la massima espressione del genio di Lennon e la verve innovativa di questo ensemble veronese dal carattere sorprendente.
Non ho purtroppo elementi per giudicare l’art work che, sono certo, sarà adeguato alla musica.
Ed ora la speranza è che il tempo lasciato alle spalle possa essere recuperato in fretta, colmando le lacune, discografiche e live, che aspettano solo di essere riempite.
Il popolo della Musica, sempre affamato di novità, saprà premiare la qualità di Røsenkreütz.




L’INTERVISTA

Puoi provare a sintetizzare il progetto  Røsenkreütz?

Sintetizzare? Non è semplicissimo, diciamo che è stato un mio bisogno di tornare alle origini della musica che ho sempre amato fin da ragazzino, che ho suonato, e che per esigenze di lavoro ho dovuto mettere da parte per molto, troppo tempo. Al tempo stesso ho cercato di infondere nel progetto un po’ tutta quella che è stata la mia esperienza musicale (e non) di questi anni passati in studio a produrre musica di e per altri.

A cosa è dovuto il lungo spazio temporale intercorso tra la nascita dell'idea e la realizzazione dell'album “Back To The Stars”?

Principalmente al fatto che l’ho dovuto realizzare nei ritagli di tempo, sacrificando famiglia, sonno e quant’altro… Inizialmente lavoravo nella classica “stanza in più” dell’appartamento dove abitavo, e di conseguenza le prime registrazioni di batteria e basso son state fatte in remoto; poi a distanza di tempo, man mano che gli amici che si sono prestati entravano nel mondo sonoro, ci siamo accorti che certi takes non erano convincenti fino in fondo e loro stessi hanno voluto rifarli. C’è stato poi di mezzo un trasloco “importante” grazie al quale ho potuto realizzare un mio vero studio privato nel quale poi ho potuto completare il lavoro nel modo migliore. Infine devo ammettere che ho scritto solo quando sentivo di avere qualcosa da dire e non per riempire minuti di musica: può apparire un po’ snobistico però essendo un lavoro che facevo per me stesso ho preferito non sentirmi costretto.

Come racconteresti l'anima del disco? Trattasi di concept album?

No, non è un concept anche se Alfredo Montresor (il fotografo che ha creato gli scatti suggestivi della copertina e del booklet) ha subito notato che in ogni brano c’è al centro l’uomo come figura, anche se in diverse sfaccettature; sono tutte delle storie, alcune dei mini-film se vogliamo essere un filino presuntuosi, con un significato dietro: Signals in the water è un brano sulla memoria dell’acqua, intesa in un senso più ampio; Sitting on the edge of heaven parla della difficoltà di accorgersi di quanto si potrebbe essere felici con poco; Conditioning di dipendenza tecnologica, Nothing more in you è un rapporto d’amore visto in termini di soffocamento e fuga; Childish reaction parte da una riflessione su come il mondo degli adulti sia in realtà molto infantile e immaturo; Back to the stars… è molto più complessa ma potremmo sintetizzarla in una metafora della vita intesa come cerchio; per quest’ultima in particolare è stato preziosissimo l’aiuto di Alex Brunori nella stesura del testo, in quanto il nocciolo della storia era già scritto, ma proveniva da un periodo per me molto difficile a livello personale e non riuscivo a trasporlo correttamente: avevo solo delle frasi qua e la che mi risuonavano bene, ma lui è stato bravissimo a leggere tra le righe della mia storia, usare quello che c’era e... scavare più a fondo.

Mi parli della squadra che ti circonda e di quanto abbia inciso sul risultato finale?

La squadra base sono tutti grandi amici da tanti anni che provengono quasi tutti da un’estrazione musicale diversa. Inizialmente il lavoro nasceva tutto al Mac e i primi provini facevano parte di un lavoro che progettavamo di fare con Alex Brunori, ex cantante dei Leviathan. Questo progetto si arenò per le difficoltà di distanza nell’era “pre internet”. Quando ripresi in mano i primi demo realizzati, decisi di farne un album solista dove avrei suonato tutto io (programmando le batterie); poi la tecnologia audio è cresciuta e mi è venuta in aiuto; è capitato di far sentire i provini a questi amici che si sono entusiasmati per la cosa e mi hanno proposto di registrare le parti “vere”, imparando gli arrangiamenti che avevo scritto e successivamente personalizzandoli.
Fatta questa premessa, la squadra è composta da Gianni Brunelli alla batteria, musicista di estrazione jazz funk con tante esperienze diverse e ottimo insegnante qui al BTEC di Verona e... grandissimo amico. E’ un batterista che amo definire “scientifico” nel senso che tende a suonare quello che serve e non per il gusto di far vedere che è bravo (e lo è!) Arriva sempre con gli strumenti giusti e i suoni chiari in testa per cui quando registriamo si va sempre molto fluidi e con una buona dose di “relax”. Gianni Sabbioni al basso è un musicista fenomenale, diplomato in contrabbasso al Conservatorio G.Dall’Abaco di Verona; alterna una carriera nella musica classica con numerosi concerti all’estero di musica barocca, e ha un'anima rock: ha suonato per molti anni con Rudy Rotta (bluesman italiano) e attualmente ha diverse situazioni in ambito rock e rock/blues con le quali lavora molto. E’ un musicista di una modestia disarmante, ma di una preparazione eccezionale e pure lui un carissimo amico. Massimo Piubelli è stata l’ultima acquisizione in quanto originariamente avrei dovuto cantare io i brani, poi ho fatto dei test e NON mi sono piaciuto come solista, oltre alla preoccupazione di dover ricoprire il doppio ruolo per un eventuale live. Quando ho prodotto l’album di esordio dei Methodica, Searching for reflections, nel 2008 (uscito poi con Underground Symphony), ho conosciuto Massimo che mi è subito piaciuto e con il quale ci siamo trovati immediatamente in sintonia. Arrivato alla fase di dover fare le voci definitive ho pensato di chiedergli se gli sarebbe piaciuto far parte del progetto: i brani gli sono piaciuti molto ed è riuscito a entrare nello spirito che avevo messo nei miei demo nei quali però sentivo sempre mancare qualcosa. E’ anche lui un musicista molto completo (ottimo chitarrista in un’altra band di cover prog) e una persona estremamente ricettiva e solare che facilita tanto il lavoro in studio. Per quanto riguarda gli ospiti, evidenzio in primis Carlo Soliman al pianoforte, che ha suonato quelle parti che volevo registrare col piano a coda vero, ma che con la mia tecnica pianistica da autodidatta non erano il massimo. Carlo sarà poi l’uomo dietro le tastiere per i live e spero il tastierista ufficiale della formazione per il futuro. Angela Merlin l’ho conosciuta quando è venuta a cantare come ospite in un brano dei Methodica, e mi ha subito colpito per la sua maturità di canto nonostante la giovanissima età, e mi è sembrata perfetta per il duetto di Nothing more in you; è veramente una voce straordinaria e spero faccia qualcosa di suo presto. Gabriele Amadei è un caro amico da molti anni, ottimo violinista, in forza da una vita nell’orchestra dell’Arena di Verona, e che si è gentilmente prestato per eseguire quelle parti che sennò avrei dovuto simulare con molta fatica con campioni vari. Luca Nardon è uno straordinario percussionista della provincia di Vicenza che ho conosciuto lavorando su un altro progetto molti anni fa. Casualmente sullo stesso hard disk avevo quello che sarebbe stato l’embrione di Sitting on the Edge of Heaven, lui si è incuriosito e l’ha voluto sentire e da li ha cominciato a prendere le sue scatole magiche e creare quella tessitura particolare che potete sentire. Infine Cristiano Roversi con il quale siamo amici da diversi anni: abbiamo collaborato in passato su dei suoi progetti (ho suonato delle chitarre su Antiqua  di cui ho curato anche il mastering, così come quello dei Catafalchi del Cyber). Nel brano Conditioning mi sarebbe piaciuto dare un respiro particolare alla parte del basso, e così ho pensato a lui e allo Stick per dare quell’atmosfera un po’ Gabrielliana/Tony Levin che avevo in testa fin dall’inizio.

“Back To The Stars” ha colpito  immediatamente chi lo ha ascoltato: come spiegheresti a parole la vostra filosofia musicale?

Quando ho scritto i brani non mi sono posto il problema di piacere a Tizio o Caio o di essere allineato a un determinato genere; semplicemente ho scritto delle cose che piacessero a me, completandole quando sentivo che erano pronte per essere espresse (da lì anche il tempo molto dilatato). Non volevo sentirmi sotto pressione, visto che lo sono abbastanza con i lavori di studio “normali”. D’altro canto mi son potuto permettere di mettere dentro quello che è il mio mondo sonoro, che ho amato crescendo e che mi è rimasto indelebilmente addosso, filtrandolo però anche con l’esperienza maturata in tutti questi anni: ho il massimo rispetto per chi decide di approcciarsi al prog in maniera “filologica”, io però preferisco non dimenticarmi che son passati 40 anni che, nel bene o nel male, hanno portato cose diverse che mi è piaciuto contaminare e inserire nella mia musica. Infine, quello che non ho mai voluto perdere di vista nel percorso, è la melodia: di base sono tutte delle canzoni, e ci tenevo che le parti strumentali fossero funzionali a un racconto più che a un’esibizione di tecnica (che peraltro non penso di possedere particolarmente). Diciamo, riprendendo una citazione di Jimmy Page, che non mi è interessata così tanto la tecnica quanto le emozioni che questa musica mi suscitava e forse sono riuscito a trasferire tutto ciò, almeno in parte, agli ascoltatori.

Avete preparato date dal vivo per proporre il disco in fase live?

In realtà una data è già fissata per quest’autunno assieme agli amici dei Logos, però per scaramanzia scioglierò la riserva dopo che avremo fatto… almeno una prova!
Scherzi a parte, sì, c’è la voglia di proporre Back to the Stars dal vivo, anche se sarà un’impresa non semplice, perché, come penso avrai sentito,  è un disco molto “denso”, e qualcosa dovremo sacrificare nel live, o perlomeno aiutarci con la tecnologia non potendo essere in quindici sul palco. L’idea è comunque di contenere la live band ai cinque elementi classici, anche per semplificare logistica, prove e impegni di tutti.

Che cosa avete pianificato per il futuro prossimo, relativamente ai progetti musicali?

Come futuro prossimo siamo proiettati verso la preparazione dei live: non ci interessa suonare in ogni buco, un po’ per i numerosi impegni di tutti e soprattutto perché non ha senso col genere che facciamo, tenderemo quindi a privilegiare delle date “mirate”, dove serve e dove ci possa essere attenzione per questo tipo di musica: purtroppo come ben sai viviamo nell’era delle band tributo e diventa veramente inutile voler suonare alla classica festa della birra dove la gente si aspetta l’ennesimo Vasco/Liga etc. A parte il discorso live, ci sono già un paio di brani musicalmente finiti che andranno a far parte di un prossimo disco che mi piacerebbe fosse un concept (ho già delle idee in testa, si tratta solo di vedere se riuscirò a collegarle correttamente scrivendo poi direttamente i testi in Inglese) e che, prometto, non impiegherò altri dieci anni a realizzare!

Dimenticavo... da dove arriva un nome così complicato come  Røsenkreütz?

Stavo leggendo un libro saggistico su massoneria e rosacrocianesimo e mi ha incuriosito la figura di Christian Rosenkreutz che, a tutt'oggi, non si sa se sia realmente esistito. Il nome mi è “risuonato” bene e ho pensato che potesse essere giusto; successivamente ne ho alterato leggermente la grafia, perchè facendo una ricerca in rete ho scoperto che in giro per il mondo ci sono un tot di band (tutte minori da quel che ho potuto vedere) con nomi simili, e poi graficamente mi piaceva, con quei caratteri scandinavi.