lunedì 30 aprile 2012

HÖSTSONATEN - The rime of the ancient mariner, Charter One



HÖSTSONATEN è uno dei molteplici progetti di Fabio Zuffanti, musicista genovese di area progressiva.
E’ da poco uscito l’album The rime of the ancient mariner, Charter One, la cui lunga “gestazione” -l’idea risale al 1995- è perfettamente spiegata da Fabio stesso nelle righe a seguire.
Siamo di fronte alla trasposizione musicale del poema di Samuel Taylor Coleridge, iniziata e in parte proposta in due album datati 1996 e 1998 (HÖSTSONATEN e MIRRROGAMES), e ritenuta al tempo insoddisfacente, e quindi momentaneamente accantonata. La voglia di follow up si è manifestata nel 2011, e probabilmente non esiste una ragione particolare  che sostiene la decisione… certe cose si materializzano   senza necessità di ricerca, semplicemente si capisce che è arrivato il momento giusto.
Coleridge descrive una storia  molto lineare ma, raccontando le eccezionali avventure di un uomo di mare nel corso di un suo drammatico viaggio, delinea attraverso allegorie il percorso di una vita comune a molti, stimolando riflessioni che riguardano tutto il genere umano, oggi come due secoli fa.
Il poema è diviso in sette parti è in questo Charter One ne compaiono quattro, oltre al prologo, mentre le restanti tre, e l’epilogo, troveranno spazio nell’uscita del 2013.

La sommaria descrizione di questo nuovo/vecchio  lavoro di Zuffanti è per me cosa complicata, perché il mio gradimento personale potrebbe intaccare l’oggettività con cui dovrei trattare l’argomento. Da tempo ho smesso di cercare i canoni ufficiali della qualità musicale, essendo certo che sia poco importante trovare regole universali, e arrivando a stabilire una sorta di equazione che porta  a far coincidere la buona musica con le emozioni che essa provoca, ovvero una reazione positiva ad uno stimolo fatto di ritmi, note ed atmosfere.
Musicare The rime… è stata cosa, credo, estremamente complicata, e questo sì, è fatto oggettivo.
Trovare musicisti adeguati - non parlo di capacità tecniche ma interpretative- è stato, credo, altresì difficile, ma Zuffanti ha trovato la perfetta fermatura della boucle, passando oltretutto il testimone a differenti vocalist, che forniscono una prova straordinaria.
Ma il sunto è una musica  che, se fosse stata scritta nella prima parte dei seventies, sarebbe ora una piece significativa della musica progressiva, magari accanto a Nursery Cryme, Fragile  e Pawn Hearts. Nascere nel posto giusto al momento giusto, sembra retorica, ma è fondamentale per determinare il nostro destino.
Dal punto di vista emozionale, cioè quello che realmente apprezzo, The rime… lascia il segno, riportando ad un disegno sinfonico, trionfale e sognante che si alterna alla poesia e a voci “penetranti”. Conoscere il contenuto della “ballata”, seguire il testo e ascoltare l’album è una possibile chiave di lettura che permette di entrare in completa sintonia con l’opera. Di più... avere tra le mani la splendida copertina, opportunamente aperta, favorisce l’unione dell’elemento visivo che, unito a liriche e suoni, dona un senso di estrema completezza e consente un piccolo transfert che può durare l’intero album.
E’ sempre poco simpatico il ricorrere a modelli di riferimento passati, ma mi piace sottolineare il mood che mi ha accompagnato nell’ascolto, perché mi ha riportato d’abord  a qualcosa che provai molti  lustri fa quando, ascoltando Nursery Cryme, arrivò il momento di Seven Stones.
Capisco perfettamente - e lo invidio- Fabio Zuffanti quando racconta di aver pianto in un determinato momento del riascolto della  sua creazione, tale era la bellezza dell’ idea, divenuta fatto concreto. Lo comprendo perché ho provato a seguire la sua strada e anche io mi sono quasi commosso: cosa si dovrebbe chiedere di più ad una musica!?
Rock sinfonico, musica progressiva… chissà quante denominazioni si possono coniare per questo album! Io, dilungandomi,  direi…  musica che scuote gli animi e provoca scosse a catena nei più sensibili, anche in quelli che si ritengono immuni da certe reazioni, ritenute erroneamente ”debolezze”.
La proposizione in chiave live non sarà semplice, come Fabio spiega, ma penso dovrebbe essere l’obiettivo primario, un progetto itinerante che, ovviamente, va a cozzare con le attuali logiche che regolano il mondo della musica e della società in generale; il sogno di Zuffanti di portare l’opera oltre confine, laddove certa musica trova forse maggiore apprezzamento, è legittimo e auspicabile.
Il mio sogno è invece quello di vedere aperte, meglio se  spalancate, le porte delle scuole e dei luoghi deputati al trasferimento della cultura, spazi in cui ben pochi sanno dell’esistenza di  HÖSTSONATEN, e forse, anche per loro, trovarsi al posto giusto nel momento giusto potrebbe fare la differenza.
Musica imperdibile!!!





Fabio Zuffanti approfondisce…

A: Torniamo indietro  di qualche anno. Che cosa ti indusse, nel ’95, a dedicarti alla trasposizione di “The rime…”, qual è l’aspetto che ti ha portato a pensare che, proprio quel poema, avrebbe dovuto avere una vita arricchita dalla musica?

F: Comincio col dire che la scoperta da parte mia del poema di Coleridge risale alla metà degli anni ottanta, nello specifico nel momento dell’uscita di un album degli Iron Maiden che conteneva una loro versione iper-concentrata dell’opera. Questo mi spinse ad approfondire e mi ritrovai a leggere estasiato le fantastiche (in tutti i sensi) liriche del poema. Chi ha avuto la possibilità di leggere tali pagine si sarà sicuramente accorto della grandissima musicalità intrinseca della quale le parole sono dotate. Quando qualche anno dopo pensai al materiale da inserire nel primo album di Höstsonaten (1996) presi quindi a lavorare proprio su una mia versione della prima parte di “The rime…”. Musicai solo tale sezione perché il poema è assai lungo (il tutto consta di sette parti) e già costruire un impianto sonoro su quella, fece scaturire un pezzo di oltre dodici minuti. Decisi quindi, per non occupare troppo spazio nel disco, di musicare una sezione per  volta da inserirle negli album a venire. Cosa che feci in realtà solo per il successivo “Mirrorgames” (1998) che contiene la seconda parte.
A livello compositivo la prima parte di “The rime…” mi fece un effetto incredibile. Ricordo ancora molto bene il pomeriggio d’estate nel quale questo pezzo venne alla luce perché è un momento che si è fissato in maniera indelebile nel mio cuore. Mi misi seduto con il libro di Coleridge aperto e la chitarra in mano e semplicemente cominciai a suonare e a canticchiare le parole del testo. Le melodie e gli accordi cominciarono a scaturire in una maniera così fluida come solo poche volte ho sperimentato. Non vorrei essere presuntuoso ma quello che venne fuori è secondo me una delle mie più belle composizioni e l’emozione che mi diede il crearla è un qualcosa che mi diede una spinta incredibile a livello di soddisfazione personale. Avevo già composto qualche pezzo per i Finisterre, ma con la prima parte di “The rime…” sentii che quello che stava uscendo fuori era veramente qualcosa di speciale, uno di quei momenti rari in cui ti senti realmente toccato dalla grazia. Ricordo che fissai tutto su una cassettina ove eseguivo in maniera più che approssimativa la struttura di base del pezzo, poi andai in spiaggia e mi portai il walkman per risentire il lavoro. Ogni volta che arrivavo all’ascolto della melodia della parte finale “At lenght did cross an Albatross…” mi salivano le lacrime... Penso tutt’ora che sia probabilmente la più bella melodia da me composta.
Le parti vocali della prima e della seconda parte furono affidate al mio collaboratore Claudio Castellini, dotato secondo me di una bellissima voce, quasi “preraffaellita”, che evocava scenari molto antichi di natura letteraria.

A: Che cosa non ti convinse delle due parti che realizzasti nei primi due album di Hostsonaten, visto che abbandonasti il progetto?

F: Purtroppo a mio avviso la registrazione delle due parti (e dei due dischi che le contenevano) non diedero loro la passione e la potenza che pensavo dovessero emanare. Inoltre dopo “Mirrorgames” cominciai a dedicarmi al progetto sulle quattro stagioni, così misi nel congelatore il discorso su “The rime…” e decisi di continuarlo appena terminato il ciclo delle stagioni. Detto fatto, lo scorso anno, al termine del lungo progetto “Seasonscycle Suite” durato quasi 10 anni, ho ripreso in mano il poema di Coleridge e l’ho continuato, stavolta decidendo di dedicare al tutto due dischi completi e, tanto che c’ero, ri-registrare le prime due parti per rendere loro giustizia.

A: Che tipo di maturazione personale, o culturale in genere, ti ha portato a riprendere in mano il progetto? C’è la possibilità di una tua maggior identità rispetto al messaggio centrale proposto alla fine dal vecchio marinaio (il pregare per tutte le creature della natura perché amate da Dio)?

F: Quello che mi affascina maggiorante del poema di Coleridge è la sua natura onirica e un po’ allucinata. Sono un grande appassionato dell’opera di  H.P. Lovecraft e in “The rime…” ritrovo molte delle atmosfere care allo scrittore americano. Il mare, i suoi abissi e i suoi misteri, le presenze sovrannaturali che sembrano quasi provenire da antiche civiltà pre-umane. Questo mi ha ispirato gran parte delle musiche che infatti hanno spesso un atmosfera tesa e dark. Il messaggio finale che citi è il punto d’arrivo dopo tanta oscurità e mi ispira tantissimo a livello musicale perché adoro i finali maestosi e positivi, dopo tanto delirio.

A: L’opera è divisa in sette parti, ma l’album che ho ascoltato ne contiene quattro mentre per le restanti occorrerà attendere una prossima uscita prevista per il 2013. Senza conoscere i dettagli sembra apparentemente strano la frammentazione di un lavoro omogeneo, e una conseguente uscita in tempi differenziati. Puoi illuminarmi?

F: Certamente. Come ti ho detto il poema è formato da sette parti e in ognuna il testo è assai lungo, penso che questo sia l’album più “verboso” che io abbia mai realizzato. Chiaramente è stato inevitabile, anche se ho cercato qua e là di inserire delle parti strumentali che potessero lasciare un po’ di tregua alla continua esposizione vocale. Se avessi musicato anche le restanti tre parti sarebbe per forza di cose venuto fuori un album doppio omogeneo ma forse anche un po’ stancante da ascoltare per intero. Ho quindi deciso di dividere il lavoro in due parti da pubblicare separatamente, per lasciare un po’ di acquolina in bocca a chi ascolta, per non rendere troppo faticoso l’ascolto e anche per permettermi, nel secondo capitolo che verrà, di modificare e un po’ lo stile, i musicisti e cantanti coinvolti e aggiungere elementi che nel primo cd non sono entrati. Sono molto curioso di vedere cosa uscirà fuori, visto che non ho ancora  composto una nota per il nuovo album.

A: Su cosa ti sei basato per la scelta dei differenti vocalist?

F: Il lavoro sulle le parti vocali è stato tutt’altro che semplice. Chiaramente è sulla centralità di tali parti che è basato l’intero lavoro quindi ho sentito una grande responsabilità per operare le giuste scelte. All’inizio avevo pensato di rendere il tutto come fosse un’opera rock affidando a varie voci diversi personaggi. In realtà gran parte della narrazione è affidata solo al vecchio marinaio quindi avrei avuto una sola voce che cantava per l’ottanta per cento e varie altre impegnate in piccole sezioni. In ogni caso pensare ad una sola voce ad interpretare l’intero testo mi sembrava un po’ troppo impegnativo e monolitico per chi ascolta, già abbiamo una sovrabbondanza di testo, se in più il tutto fosse stato interpretato da un solo cantante sarebbe stato ancora più pesante da digerire, secondo me. Ho quindi optato per affidare le quattro parti a diversi vocalist. Per alcuni sono andato sul sicuro scegliendo i miei fidati collaboratori Simona Angioloni (Aries), Alessandro Corvaglia (Maschera Di Cera) e Carlo Carnevali (R.u.g.h.e.), mente ho affidato i due pezzi più “heavy” alle potenti voci di Davide Merletto (in forza ai Daedalus, valente metal-prog band genovese) e Marco Dogliotti (che, tra le altre cose, canta in una cover band dei Deep Purple). Alla fine sono molto soddisfatto delle mie scelte e credo che tutti si siano divertii ad interpretare le sezioni che ho affidato loro.

A: Cosa hai previsto per la diffusione del progetto in fase live? Esistono piani in tal senso?

F: Portare dal vivo un disco come questo è tutt’altro che semplice, in primis perché per rendere il tutto ci vorrebbero almeno 11 persone sul palco tra musicisti e cantanti e poi perché, si sa, al momento gli spazi per i concerti organizzati in un certo modo sono praticamente impossibili da trovare. Detto ciò per presentare l’album sto organizzando degli showcase ove saranno presenti volta per volta, a secondo delle loro disponibilità, alcuni dei musicisti e cantanti che vi hanno partecipato. Si faranno quattro chiacchiere con un presentatore e suoneremo in versione unplugged qualche estratto dal cd. In questi giorni sto organizzando le prime date che presto ufficializzerò, dovrebbero essere già certe il 13 maggio a Savona (Van Der Graaf Pub), 19 maggio a Genova (Record Runners store) e 27 Maggio a Chiavari (venue da decidere). Altre date seguiranno a giugno.
Sarebbe bellissimo in ogni caso cercare di organizzare almeno un concerto “vero” in grande stile, magari in qualche teatro. Vedremo. Vedremo anche come vanno le cose per l’estero. In Giappone il cd è uscito in una versione speciale solo per tale mercato, con bonus disc allegato. Una visitina nel paese del sol levante a conseguenza di ciò sarebbe quindi molto gradita, se per una volta decidono di invitare anche un gruppo “giovane” invece che sempre e solo reduci degli anni Settanta...




Note ufficiali…

Il progetto di Fabio Zuffanti per Hostsonaten è basato sul famoso poema di Samuel Taylor Coleridge The rime of the ancient mariner. Zuffanti concepisce l'idea di dedicarsi ad una trasposizione musicale del poema già nel 1995. Le prime due parti appaiono infatti nei primi due album di Hostsonaten (Hostsonaten, 1996 e Mirrorgames, 1998), ma la realizzazione di queste non ha mai soddisfatto pienamente il compositore genovese che decide quindi di lasciare il progetto in sospeso. Nel 2011, al termine della fortunata tetralogia sulle stagioni Seasoncycle suite, Fabio decide di riprendere in mano il lavoro su The rime… e portarlo a compimento. Il progetto sarà articolato in due cd: il primo, uscito nel 2012, contiene il prologo e le prime quattro parti dell'opera; il secondo è previsto per il 2013 con le restanti tre parti e l'epilogo. Per quello che riguarda il primo cd le due parti già realizzate sono state  ri-registrate interamente. Le parti vocali delle quattro parti sono state affidate a quattro diversi cantanti che hanno cercato di esplorare, interpretare e restituire all'ascoltatore le emozioni oscure e sognanti del poema di Coleridge. L’album è uscito su etichetta AMS Records. I musicisti che hanno accompagnato Fabio sono quelli fidati che lo hanno seguito nella sua avventura delle stagioni, ovvero Maurizio Di Tollo (batteria), Luca Scherani (tastiere) e Matteo Nahum (chitarre), Sylvia Trabucco (violino), Joanne Roan (flauto).

Le voci che hanno interpretato le quattro parti di 'The rime of the ancient mariner - Chapter one' sono:
Part I: Alessandro Corvaglia (La Maschera di cera), con un cameo di Carlo Cralo Carnevali (R.u.g.h.e.)
Part II: Davide Merletto (Daedalus)
Part III: Marco Dogliotti
Part IV: Simona Angioloni (Aries), con un cameo di Alessandro Corvaglia

Tutti gli aggiornamenti sul progetto li potrete trovare sul Facebook di Zuffanti
 e in quello di Hostsonaten

domenica 29 aprile 2012

Why Aye Men - tributo ai Dire Straits



Why Aye Men è una Tribute Band dei Dire Straits che nasce nella Val Bormida, nell’entroterra ligure.
Dura la vita di chi decide di riproporre l’esistente, anche se la strada appare con meno ostacoli rispetto a chi presenta brani propri, perché sembra che non ci sia più il tempo o la voglia per ascoltare e giudicare ciò che ancora non si conosce.
In fondo è solo questione di obiettivi che, a tavolino, si decidono preventivamente, e alla fine conterà il talento e la qualità della musica che si riuscirà a creare. Esistono casi in cui la cover band assume un’immagine propria e riesce ad eguagliare -a volte superare come gradimento- l’originale, che probabilmente non esiste più, e quindi resta questo un modo importante per mantenere in vita, in fase live, ciò che è ormai legato alla storia e alle registrazioni del passato.
Ci sono casi clamorosi, come i The Musical Box e i The Watch che interpretano- anche – i Genesis, o i Big One, capaci di realizzare un incredibile show dei Pink Floyd, superandoli come visibilità attraverso i filmati su youtube, e in molti casi alcuni dei protagonisti originali stringono reale amicizia con i loro prosecutori, dando loro una sorta di patente che li autorizza a continuare con grande entusiasmo.
Sono arrivato agli Why Aye Men  attraverso la conoscenza di Roberto Faccio, attuale batterista, ma anche valente tecnico del suono e, credo, polistrumentista. Ho scoperto cose numericamente interessanti sul loro seguito-cosa non facile da avere di questi tempi- e, incuriosito li ho ascoltati, anche se mi manca l’occasione live.
Niente da dire dal punto di vista tecnico… senza un know how elevato risulterebbe difficile proporre brani tutt’altro che semplici,  con la complicazione di una tecnica chitarristica inusuale, così come la timbrica unica, inventata da Mark Knopfler, e divenuta segno distintivo dell’intera produzione dei Dire Straits.
Brani rivisitati nei dettagli e ricerca della completa similitudine mi sembrano i cardini dei Why Aye Men,  e a giudicare da ciò che ho visto/sentito, si è raggiunto un buon amalgama, situazione che non si improvvisa, ma si ottiene col duro lavoro.
Per sapere qualcosa in più sulla loro filosofia musicale, sulla storia e sui programmi futuri, leggiamo il pensiero del chitarrista/cantante Luigi Pesce.
E alla prima occasione … ascoltiamo una loro performance live!

L’INTERVISTA

Come nasce l’idea di realizzare un tributo ai Dire Straits?

A livello embrionale l’idea saltò fuori a metà del 2008. Ci trovammo a suonare insieme io, Paolo (il tastierista) e Francesco (il chitarrista ritmico), proprio un paio di brani dei Dire Straits. Paolo fu il primo a lanciare l’idea: “Ma lo sai che li suoni bene i Dire Straits? Non ci starebbe male una band tributo...”, ma io decisi di “lasciare cadere la cosa” a causa dei troppi altri impegni. Nel gennaio 2009, durante una nottata in cui fui preda dei deliri della febbre da influenza, mi tornò alla mente questa “malsana” idea e decisi di approfondire l’argomento. Contattai quindi il “colpevole” di aver lanciato il sasso e formammo il primo nucleo del gruppo. Come chitarra ritmica decidemmo di contattare Francesco (che già conoscevamo) e per il ruolo di bassista decisi di contattare Franco, un altro amico dei “bei vecchi tempi andati”.  Non ci incontravamo da anni... ridiamo ancora adesso dei deliranti messaggi che gli lasciai nella segreteria telefonica!
Trovare un bravo batterista è stata un’impresa ardua ed ha richiesto il coinvolgimento di vari musicisti. Ora alla batteria è passato stabilmente Roberto, che prima ricopriva, da buon polistrumentista, svariati ruoli a seconda del brano.Per decisione unanime cominciammo a scegliere anche brani meno conosciuti ma, per qualche motivo, comunque importanti, sia dei Dire Straits che di Mark Knopfler come solista.

La line up attuale del gruppo è la seguente:

- Luigi Pesce - Lead Guitar & Voice
- Paolo Bertolissi - Keyboards, Sax and Chorus
- Francesco Pazzaglia - Rhythm Guitar and Chorus
- Franco Cavallo - Bass
- Roberto Faccio - Drums

Che tipo di percorso musicale avete alle spalle?

Siamo tutti piuttosto rodati e tutti, a parte Francesco che è il più giovane, abbiamo militato in vari gruppi della zona. Io sono passato dal blues/rock alla musica anni ’60, Paolo faceva parte di un gruppo prog rock che proponeva brani propri (ma ha anche suonato in varie orchestre e si diletta anche in serate di pianobar); Franco è passato dal blues allo swing; Roberto si è dedicato principalmente ai musical, passando con scioltezza dal canto a tutti gli strumenti che sa suonare; Francesco insegna chitarra a Savona, alla Music Project Park school.

Nella vostra riproposizione di brani musicali famosi, cercate la maggior fedeltà possibile rispetto all’originale o preferite dare un tocco personale?

Solitamente cerchiamo la maggior fedeltà possibile, ma capita di dover scendere a compromessi e riarrangiare certi brani, sempre nel rispetto della versione originale o delle varie versioni live. In pratica, se il brano è riproducibile in modo fedele, facciamo del nostro meglio per rendere il brano alla perfezione... chi ci ascolta deve chiudere gli occhi e immaginare i Dire Straits sul palco al posto nostro. Capita però che alcuni brani necessitino di più strumenti, per cui vengono riadattati alla nostra line up. Le nostre personalizzazioni riguardano principalmente la creazione di versioni particolari, prendendo spunto, ad esempio, dall’introduzione di una particolare versione live, il brano da una versione diversa e la chiusura da un’ulteriore versione. In ogni caso restiamo il più possibile fedeli alle varie versioni suonate dai Dire Straits, è una questione di serietà verso il pubblico, che pretende (giustamente) di ascoltare un live dei Dire Straits.

Ho notato che avete un buon seguito in Val Bormida e i vostri concerti sono numerosi. Che cosa significa per voi la performance live? Riuscite sempre a trovare la chiave giusta per entrare in sintonia con l’audience?

Ogni serata è un’esperienza a sé... difficile prevedere cosa succederà e come reagirà il pubblico. Ogni scaletta viene preparata in modo da andare incontro a quella che presumiamo sarà l’inclinazione musicale del pubblico del locale (o piazza) in cui andremo a suonare; cerchiamo di accontentare i fan più competenti (proponendo brani meno famosi ma, in certi casi, anche più interessanti) e le persone che conoscono solo le hit, come Sultans of Swing e Money for Nothing, ad esempio.
Sul palco cerchiamo di divertirci e di divertire chi ci ascolta... in modo serio e professionale però! Il rispetto verso il gestore e il pubblico porta sempre ad un esito positivo, che soddisfa un po’ tutti; riusciamo a convincere anche coloro che, inizialmente, magari erano più dubbiosi... del resto un tributo ai Dire Straits non si improvvisa, e molti temono di trovarsi di fronte ad una brutta copia. I complimenti a fine serata ci confermano che stiamo seguendo la strada giusta.
Facciamo del nostro meglio per proporre un live ad alto livello, migliorando continuamente la strumentazione e la resa dei brani. È un lavoro costante che, sul medio lungo periodo, ripaga sicuramente degli sforzi, anche economici, sostenuti.
Per citare il buon Mark: “siamo un gruppo di uomini sposati che fa un gran bel gioco di società”.

Spesso si polemizza sul ruolo delle “tribute band”, a volte in concorrenza con chi fa musica propria. Qual è il vostro pensiero a tal proposito?

Secondo noi la musica va distinta tra “ben suonata” e “mal suonata”, indifferentemente dal fatto che si tratti della riproduzione di un brano scritto da altri o da una propria creazione.
Meglio un gruppo fracassone e disordinato, ma che propone brani propri o un tributo ben fatto? Meglio un gruppo che esegue magistralmente brani propri o un tributo mal fatto?
Io mi fermerei ad ascoltare quelli che suonano meglio.
Creare un brano è uno sforzo notevole, ma si può scrivere musica che si adatti alle nostre esigenze e possibilità; per contro riprodurre fedelmente un brano esistente ci permette di saltare la fase creativa, ma aggiunge una notevole fase di studio del brano e delle sue particolarità, alle quali siamo noi che dobbiamo adeguarci. In pratica c’è un grosso lavoro comunque. Consideriamo anche il fatto che, quando suona un tributo, il pubblico è maggiormente esigenze, conosce i brani che stai suonando e si aspetta proprio quelli, suonati in un certo modo. Mi è capitato l’estate scorsa di assistere al concerto di un tributo ai Beatles... uno strazio... a metà serata ho sentito l’esigenza di andarmene; stavano praticamente demolendo l’opera omnia di Paul e soci.
Allo stato attuale è comunque praticamente impossibile creare qualcosa di totalmente nuovo... dal Canone di Pachelbel in poi le “citazioni”, o ispirazioni da qualcosa di scritto precedentemente, sono state la norma.

Avete mai pensato di poter presentare materiale di vostra realizzazione?

In effetti è un’idea che ci portiamo avanti dalla nascita del progetto Why Aye Men. Fino ad ora ci è mancato il tempo per impegnarci seriamente nella creazione di brani nostri, ma qualche buona idea sta cuocendo a fuoco lento.

Qual è il brano dei D.S. che vi da maggiori soddisfazioni in fase live?

Difficile rispondere. Da parte nostra cerchiamo di trarre soddisfazione da ogni brano, ma è vero che in alcuni c’è maggiore interazione tra i vari componenti, dialoghi tra chitarra e pianoforte, come in Tunnel of love, oppure tra chitarre, come in Solid Rock,  o tra chitarra e sax, come in Sultans of Swing. Anche brani con strutture particolari, come Once upon a time in the west, riescono a darci una certa carica. Dal punto di vista del pubblico sono principalmente certi brani a strappare l’applauso... Sultans of swing, Tunnel of love, Money for nothing... ma anche Telegraph road... dipende da molti fattori... la musica è materia viva e imprevedibile!

Dal punto di vista prettamente tecnico, esiste una trama musicale che vi ha fatto penare di più per arrivare a proporla con soddisfazione?

Telegraph road ci ha dato parecchio filo da torcere. Si tratta di un brano della durata di oltre 14 minuti, che alterna parti movimentate a momenti tranquilli. Viene suonata live da almeno 6 persone, mentre noi la proponiamo in 5; devo ammettere che Paolo, il tastierista, fa veramente l’impossibile... credo che un giorno o l’altro si sdoppierà davanti a noi durante l’esecuzione del brano...
Ci sono poi brani apparentemente semplici, ma che vanno affrontati col giusto pathos, soprattutto sul palco, brani d’atmosfera come Private Investigations o Brothers in arms... La concentrazione deve essere massima, altrimenti il brano sfugge al controllo e son dolori. Anche in questo caso è una questione di rispetto, verso la musica.

Qual è secondo voi il maggior pregio di Mark Knopfler, tra tecnica, gusto e innovazione?

Mark ha saputo mescolare diversi generi (blues, rock, country, folk...) aggiungendo il suo tocco e stile particolare. Il risultato è davvero stupefacente! È riuscito a creare un genere “Knopfler”, molto singolare e riconoscibile, passando con scioltezza dal rock al country, dal blues alla musica scozzese/irlandese. Ha affinato la sua tecnica nel corso degli anni, mantenendo comunque il suo particolare gusto per la buona musica. Non a caso compare in moltissime registrazioni di altri artisti: Sting, Randy Newman, Chieftains, B.B. King, Bob Dylan, Chet Atkins, Van Morrison. È noto anche il suo impegno sociale (Ferry Aid, spot contro l’alcolismo, contro l’apartheid...). Credo che un personaggio pubblico vada valutato anche per la sua statura morale, oltre che per la sua arte.

Che obiettivi vi ponete per l’immediato futuro?

Oltre al continuo perfezionamento e all’evoluzione del repertorio, abbiamo in programma il superamento dei confini nazionali. Per noi rimane comunque fondamentale il suonare più possibile, soprattutto a contatto col pubblico.



sabato 28 aprile 2012

ARMONIA DELLA MEMORIA-un nuovo progetto

ARMONIA DELLA MEMORIA



Con

Davide Ferrari
Andrea Garavelli
Alice Marini


ARMONIA DELLA MEMORIA


La forza della poesia e il movimento della musica per accogliere la bellezza,
salvaguardarne e rinnovarne la memoria, perché non sbiadisca l’essenza
che ci fa uomini e con essa la nostra identità individuale e collettiva.



 IL PROGETTO

Armonia della memoria nasce da una riflessione avvenuta in occasione del 150° anniversario dell’unità d’Italia. L’idea principale dalla quale siamo partiti è quella di non celebrare l’importanza di questa data costruendo un evento che avesse un mero intento commemorativo.
Volevamo cercare di capire in che modo questi centocinquanta anni di unità ci potessero offrire una possibilità di confrontarci con la nostra storia ma anche e soprattutto con l’epoca a noi contemporanea. Il concetto che abbiamo isolato per cominciare questo viaggio è quello di identità.
Chiedendoci quale fosse o quali fossero gli elementi che avessero reso possibile l’unità nazionale
abbiamo riconosciuto nella lingua un’importanza basilare, rifacendoci ad una citazione di Isidoro di Siviglia che, nella sua opera Etymologiae, scrive: Ex linguis gentes, non ex gentibus linguae exortae sunt- cioè: Sono le lingue che fanno sorgere i popoli, non i popoli le lingue.


LO SPETTACOLO

Lo spettacolo Armonia della memoria prende forma dall’incontro di due linguaggi differenti ma complementari, la poesia e la musica che, dialogando, accompagnano lo spettatore in un suggestivo percorso tra musica e letteratura classiche, moderne e contemporanee.
Un attore recita alcune tra le poesie appartenenti non solo alla lunghissima e gloriosa tradizione letteraria italiana e straniera ma anche componimenti di poeti contemporanei, riconosciuti ed affermati, affiancati da nuove voci di giovani talenti così da stabilire una continuità con il presente e l’attualità.


LA MEMORIA

La memoria e quindi la storia, individuale e collettiva, non sono concetti astratti che troppo spesso si danno per scontati o, tendenzialmente, vissuti in modo passivo ma un insieme di emozioni e sentimenti, di esperienze da svelare e da cui partire per stimolare una ricerca sempre nuova, attiva. Abbiamo la responsabilità di tentare, quanto meno, di onorare la memoria.
Onorare significa, secondo noi, avere un rapporto tale con la memoria perché possa rivivere a fianco e in funzione del contemporaneo.
Pensiamo che la memoria, più che un dovere, sia una possibilità.
Una possibilità per conoscerci e quindi per conoscere l’altro da sé e la realtà stessa in maniera più consapevole.


LA MUSICA

La musica dello spettacolo non ha una mera funzione di accompagnamento ma diventa uno scenario sonoro nel quale e con il quale le parole si muovono per risuonare in maniera amplificata.      
I brani eseguiti sono composti appositamente per ogni poesia in un rapporto di ascolto reciproco tra i due linguaggi in modo che si sostengano vicendevolmente.
Verranno suonati, inoltre, brani di autori noti con arrangiamenti originali per violino e basso elettrico fretless.


A CHI È RIVOLTO

Lo spettacolo è rivolto in modo particolare agli studenti delle scuole superiori ma anche a biblioteche, librerie, associazioni culturali e a tutti coloro fossero interessati ad avvicinarsi all’ascolto della poesia e della musica in un esperienza collettiva che, in un secondo momento, possa stimolare l’interesse e la ricerca individuale rispetto ai suddetti ambiti.


L’INTENTO DIDATTICO DELLO SPETTACOLO

La finalità del lavoro, oltre ad essere orientata all’intrattenimento, è quella di fornire agli studenti alcuni degli strumenti di lettura necessari per stabilire una connessione reale e autentica con la poesia e, più in generale, con la letteratura e la lingua italiana perché possano permettere loro di scoprire e vivere in modo altrettanto autentico non solo la materia di studio ma anche se stessi in rapporto alla realtà, compito primario della poesia.





SCHEDA TECNICA

Per l’allestimento in spazi teatrali si richiedono:

-palcoscenico minimo 4x4 metri
-impianto audio minimo 2 casse, mixer minimo 4 canali
-6 fari 1000w con bandiere e gelatine color ambra
-allacciamento elettrico 220 Volt


In caso di allestimento in spazi non teatrali
(biblioteche, librerie, scuole, palestre, sale conferenza, ecc.):

-lo spazio scenico sarà valutato previo sopralluogo
-allacciamento ad una normale presa di corrente 


venerdì 27 aprile 2012

Gentless3+La Moncada -In the Kennel volume 1


In una piovosa giornata di metà aprile incontro casualmente, ad Alba, Francesco Alloa, batterista de La Moncada. Della band avevo scritto un po’ di tempo fa, commentando il loro “Torino Sommersa”:


Alla fine della presentazione del “contenitore musicale”, Cosa resterà di me?, Frank mi si avvicina con un prezioso dono, la testimonianza di un nuovo progetto musicale che lo vede tra i protagonisti. Prezioso, certo, nelle idee e nella costruzione. Basta pensare alla tiratura limitata-cento copie- e  alla realizzazione della confezione fatta a mano (e ciò rende di fatto unico ogni pezzo, essendo impossibile la riproposizione perfetta).
Il pensiero di Francesco è riportato nell’interessantissima intervista a seguire, dove si apprendono dettagli di un mondo ai più -purtroppo- sconosciuto. Dietro a questo prodotto volutamente artigianale, ci sono scelte di vita, ideologie, delusioni e voglia di cambiare le cose. E alla fine mi è sorto il dubbio, trasformato poi in certezza, che questi esemplari musicali sarebbero volentieri recapitati a domicilio, magari sostando nella casa dell’amico di turno per spiegare nei dettagli il contenuto musicale e tutto ciò che ha portato alla sua nascita. Pochi ormai trovano il tempo per cercare il nuovo ed  ascoltare, e non  esistono possibilità di conoscenza passiva, indotta da ciò che forniscono i media, perché è scontato che certa musica… non passa. E sarà grande la soddisfazione quando l’amico,  guidato nell’ascolto alla scoperta dei dettagli, confesserà che valeva la pena lasciarsi convincere.
Nonostante Alloa parli di progetto “copiato”, non conoscevo l’iter realizzativo di “In the Kennel”, “Dentro al canile”.
In the Kennel ” non è il titolo di un album, ma di un progetto che, nell’arco del 2012, dovrebbe regalare altri quattro episodi.
I protagonisti della prima parte sono quindi i piemontesi La Moncada e i siciliani Gentless3, riuniti nello stesso ambiente per un proficuo lavoro di squadra che, fatto rilevante, riunisce gli estremi della nostra penisola.
L’idea di base è quella di utilizzare uno studio di registrazione per far incontrare due differenti band, per alimentare gli scambi di esperienze e culture, e verificare di li a poco il risultato, attraverso la musica che ne scaturisce.
L’obiettivo artistico di questo EP era la coverizzazione reciproca di due brani già esistenti ( Rabbia Killer per L.M. e On Busting the Sound Barrer per i G.3) e la proposizione di due inediti, Murmur e I Numeri.
Il risultato è notevole e la cosa che più colpisce è l’omogeneità del prodotto.
L’unione di differenti musicisti è fatto storico  che ha regalato emozioni a non finire al pubblico- e agli artisti -, soprattutto in fase live, ma in questo caso siamo di fronte ad un “disco” che non è il frutto estemporaneo di una jam, ma presenta una sorta di amalgama musicale, e non sono in grado di  dire se il raddoppio obbligato di alcuni strumenti-anomalo quello della batteria- sia importante per il raggiungimento dell’obiettivo.
Amalgama sì, ma quattro brani a matrice rock, oscillanti tra i generi “di provenienza” delle due band e un “racconto del disagio” che passa attraverso frammenti di psichedelia che riportano a modelli del passato, oltre i nostri confini.
L’incontro poteva essere di tipo prevalentemente musicale e invece c’è la voglia di “messaggio”, in perfetta coerenza con le idee che, più o meno velatamente, vivono dietro In the Kennel.
E quando  “… i numeri ti escono dagli occhi, occhi che bruciano…” (I Numeri), la musica potrà essere la giusta alternativa, forse non per sedare il dolore, ma sicuramente per alleviarlo.
Un progetto da seguire nel tempo…


L’INTERVISTA

Ho cercato di recuperare un po’ di informazioni sul progetto e credo di aver chiarito alcuni aspetti. Visto che ho la possibilità di chiedere ad un diretto interessato, ne approfitto. Raccontami tutto ciò che puoi su “In the Kennel”.

L’idea era già venuta fuori quando, con Massimiliano Moccia e Ettore Magliano, ci siamo insediati al Blue Record Studio. Non volevamo fare studio di registrazione in senso strettamente commerciale. Volevamo un posto per fare le nostre cose e quelle di altri artisti o band che ci piacciono.  Per l’organizzazione e il coordinamento del progetto mi ha dato una mano Carlo Barbagallo (Noja Recording) che ha proposto anche il nome In The Kennel che rimanda chiaramente alle compilation In The Fishtank, che produceva l’etichetta olandese Konkurrent, fino a qualche anno fa. L’idea di per se non è un granché originale, me ne rendo ovviamente conto, ma il confronto tra musicisti è da sempre quasi una necessità per chi fa musica, e la formula con cui lo si propone non è, secondo me, di fondamentale importanza. Per la copertina invece mi sono affidato a Federico Manzone, giovane disegnatore cuneese, che ha realizzato anche le copertine per i prossimi volumi. Il fatto di creare sinergie tra diverse forme di espressione è alla base del progetto ITK, e mi piacerebbe che le persone coinvolte di volta in volta restassero dentro anche per i volumi successivi. Infatti per la promozione mi ha aiutato Orwell Comunicazione di Catania, ufficio stampa gestito da membri di Gentless3, con cui spero di continuare a collaborare. Le grafiche invece sono state curate da Flavio Severino. Il packaging l’ho progettato io. E’ molto spartano ma mi piaceva l’idea di poter costruire copia per copia a casa, con le miei mani. Sono numerate fino a 100 di modo che ogni copia sia unica, anche perché costruendole a mano non me ne viene una uguale all’altra. Insomma, un lavoro più da artigiano che da produttore. Le registrazioni e il mix sono di Massimiliano Moccia con l’aiuto di Ettore Magliano.

Il confronto e la collaborazione di due band in uno studio di incisione non credo potrebbero dare buoni frutti senza un buon gioco di squadra ed un obiettivo comune. Cosa accade nella norma in queste situazioni?

Carlo Barbagallo ci ha proposto i Gentless3, che erano in tour e passavano da queste parti. Ci siamo sentiti via e-mail e abbiamo deciso di riarrangiare ognuno una canzone dell’altro. Poi nei due giorni di studio ci siamo presi il tempo per arrangiare tutti insieme altri due pezzi inediti. Si è creata sin da subito un ottima atmosfera, dove tutti erano consapevoli che il tempo era poco, quindi si è lavorato badando al sodo, cercando la sostanza più che la forma. E’ filato tutto abbastanza liscio e umanamente è stata una bella esperienza. Vorrei anche sottolineare che non si tratta di andare in studio e improvvisare così, tanto per avere del minutaggio. Si parte da un’idea precisa e la si sviluppa, anche a distanza, in modo da arrivare al momento della registrazione con l’atteggiamento giusto.

Mi hai parlato del tuo modo di lavorare, autofinanziato e autarchico. Quali sono gli aspetti negativi più rilevanti in un modus operandi simile?

Non sono particolarmente interessato a fare un etichetta che si muova nel panorama italiano secondo i “meccanismi” classici. Non perché abbia qualcosa in contrario ma semplicemente perché, tra il mio lavoro di commesso e tutte le altre cose non riuscirei a dedicarci il tempo che merita un attività del genere. Sostanzialmente GoatMan Records è un marchio legato alle attività dello studio di registrazione. Sono molto più interessato a lavorare sul territorio in cui vivo. Negli ultimi anni c’è stato un regresso culturale spaventoso, i locali che fanno musica dal vivo in provincia di Cuneo sono sempre meno e sempre più in crisi, e questo li porta a proporre sempre le solite cose “sicure” a discapito di altre, magari un pò più ostiche ma decisamente più interessanti. Il discorso sarebbe lungo e pericoloso e non mi ci voglio addentrare però, invece di continuare a lamentarmi, voglio fare qualcosa. Voglio partire da qui, facendo piccole ma significative produzioni e cercando di insinuare un pò di curiosità nelle persone che mi circondano quotidianamente, andandoli a prendere uno ad uno a casa. Per tornare alla tua domanda. Gli aspetti negativi sono la frustrazione derivata dal poco interesse che vedo nella gente attorno a me, il poco riscontro su canali “ufficiali”, a parte qualche rara eccezione e dal fatto che economicamente non riesco a rientrare nemmeno in parte delle spese di produzione. Quello che si diceva dei libri secondo me lo si può applicare anche in ambito musicale: c’è più gente che pubblica musica di quanta ne ascolti. Io sono prima un appassionato ascoltatore e poi uno che suona e produce musica. In ogni caso gli aspetti positivi prevalgono nettamente su quelli negativi, mettere musica e idee in circolo mi appaga di tutto e mi da la spinta per continuare.

Ho appena letto un articolo legato alla crisi dei negozi di dischi a seguito di alternative, come i Digital Store. Personalmente non riesco ad essere soddisfatto se non tocco con le mie mani il prodotto che andrò a sentire, e faccio molta fatica, concettualmente parlando, a recensire un album di cui posseggo solo le tracce in MP3. Che cosa pensi di questi aspetti legati all’evoluzione tecnologica?

Discutevo di questa cosa qualche tempo fa con un musicista che conosco e che stimo molto. Sosteneva che in futuro il mercato della musica andrà in due direzioni parallele. Da una parte la musica di consumo, i formati digitali, in sostanza la musica su internet. Si potrebbe arrivare a pagare già nella bolletta una quota e usufruire liberamente della musica che circola in rete. Dall’altra parte invece ci sarebbe (e credo ci sia già) una crescita delle piccole tirature, del vinile, dei packaging particolari o d’autore. Questa teoria mi trova d’accordo. Il compact disk è morto e, a meno che non venga combinato con qualche altro complemento d’interesse, non ha più ragione di esistere. Leggevo l’altro giorno un articolo che parlava di una  etichetta californiana di cui ora non ricordo il nome. Il tipo che l’ha messa in piedi gestisce anche una piccola galleria e ha pensato di unire le sue due passioni. Produce cd in tirature limitatissime e crea delle confezioni con il materiale raccolto negli anni di attività della galleria. Ogni cd è una piccola opera d’arte. Personalmente non scarico musica perché secondo me non ha nessun senso riempire hard disk di roba che poi difficilmente riuscirei ad ascoltare tutta. Preferisco lo streaming. Ascolto ciò che ho voglia di ascoltare in quel momento e poi, appena ho l’occasione e soprattutto la disponibilità finanziaria, compro ciò che mi è piaciuto di più (in vinile nel 90% dei casi).

Quanto c’è in questo “Volume 1” di Moncada che ha espresso “Torino Sommersa?”

Beh, innanzitutto una canzone: Rabbia Killer, che è la prima traccia di Torino Sommersa. Devo dire che mi è piaciuto il “restyling” fatto dai Gentless3. A parte questo direi che non c’è molto altro di quello che La Moncada ha espresso nel suo primo disco. Da allora la band è cambiata, sono cambiati dei componenti ed è cambiato anche il modo di approcciarsi alle canzoni. Mi sembra ci sia più consapevolezza riguardo alla direzione musicale che abbiamo intrapreso. Riguardo a ITK personalmente trovo che l’arrangiamento che abbiamo fatto del pezzo dei Gentless3On Busting The Sound Barrier”  ci rispecchi in pieno. Da un mesetto però la formazione si è ulteriormente allargata con l’ingresso di un piano e un synt e di conseguenza sono aumentate le soluzioni musicali e i punti di vista.

Mi hai raccontato della tua coraggiosa scelta di vita, tesa a spezzare in due la tua attività lavorativa principale per realizzare un altro tipo di lavoro che ha però a che fare con le tue passioni. Sei completamente contento del tuo cambiamento o ti è capitato di avere piccoli rimpianti, magari passeggeri?

Ci pensavo giusto poco tempo fa. Anni fa ho avuto un occasione lavorativa molto allettante nei termini di “fare carriera” e guadagnare anche dei bei soldi. Ovviamente non l’ho accettata e pensandoci dopo tanto tempo mi sono stupito del fatto che mi ero addirittura dimenticato di questa storia, l’avevo quasi cancellata dalla mia mente. Comunque no, nessun rimpianto, neanche minimo in questo senso.

Che cosa dobbiamo aspettarci dagli  altri episodi di “In the Kennel?”.

Il volume due è gia stato registrato e credo uscirà a settembre. Nel canile si sono “scontrati” Mombu (membri di ZU e NEO) e Paolo Spaccamonti (chitarrista torinese con all’attivo due album notevoli). Il materiale mi entusiasma al punto che per questa uscita faremo il vinile con cd allegato. Alla fine In The Kennel è un cantiere aperto, ogni uscita sarà diversa dalle altre. Cambieranno i formati, i modi, ma sono certo che la sostanza rimarrà il fine ultimo. Ci proviamo!



Gentless3+La Moncada - In the Kennel (vol.1)

Rabbia Killer
Murmur
I Numeri
On Busting The Sound Barrier

SITI DI RIFERIMENTO: