martedì 31 luglio 2012

PFM all'Arena del Mare-Genova



Giovedì scorso, 26 luglio, ho assistito a un nuovo episodio della fase live della PFM.
Location fantastica, Arena del Mare - Porto Antico di Genova - un tradizionale punto di riferimento per i concerti estivi di livello.
Prima dei contenuti, vorrei mettere in risalto un aspetto che mi pare fondamentale di questi tempi: la risposta del pubblico. Nello stesso luogo ho visto transitare mostri sacri che hanno segnato profondamente la storia del rock, da Alvin Lee a Eric Burton, dai Colosseum a Warren Haynes, ma mai avevo visto un sold out, e in questo senso credo che il filmato a seguire, se pur di scarsa qualità, possa essere una buona testimonianza.


PFM omaggia Fabrizio De Andrè, fatto di per sé usuale, ma proporre il progetto  a Genova, città di Fabrizio, ha evidentemente enorme valenza, perché i suoni si miscelano ai ricordi e agli affetti, e ciò che la band presenta è esattamente la propria immagine, antica, proiettata nel presente. Manca purtroppo un elemento cardine, Fabrizio, ma a ciò non si può porre rimedio e quindi ben vengano le forme - originali - di rivisitazione. La musica saprà farlo rivivere.
Nei commenti del giorno dopo chiedevo ad un amico cosa pensasse del concerto e dell’enorme coinvolgimento verificatosi sul campo e lui rispondeva: “… difficile da spiegare… la gente cantava le canzoni di De Andrè e si muoveva per i brani della PFM…”, giudizio sintetico che ben esprime il senso della partecipazione.
In realtà lo spazio “solo PFM” arriva alla fine, con un trittico esplosivo che racchiude “La Carozza di Hans”, “Impressioni di Settembre” e “ Celebration”, quest’ultima chiamata a gran voce, sin dalla prime battute, dal pubblico rimasto all’esterno, che da quella posizione ha assistito all’intero concerto accontentandosi dell’audio. Come d’abitudine “Celebration” ha evidenziato le capacità di comunicatore e animatore di Franz Di Cioccio, un musicista capace di infiammare il pubblico - non solo con il suo strumento -  arrivando a quella che io giudico l’essenza della performance live, quel momento in cui pubblico e artisti diventano una cosa sola, in un mutuo scambio che amplifica la qualità di ciò che va in scena in quel momento.
Ma prima dell’epilogo “progressivo” tutto lo spazio è stato dedicato al Fabrizio di città e a brani tratti dai suoi primi album: “La guerra di Piero”, Bocca di Rosa”, “Andrea”, “Il testamento di Tito”, “ Volta la Carta”, “Universo”, “L’infanzia di Maria”, sono alcuni dei brani presentati nel corso della serata.
La formazione è quella tipica (Franz Di Cioccio, Patrick Djivas, Franco Mussida, Lucio Fabbri) con Alessandro Scaglione alle tastiere e l’impiego quasi a tempo pieno di Roberto Gualdi, per permettere a Di Cioccio massima libertà nel cantato, ceduto in alcune occasioni a Mussida.
Come commentare un concerto che finisce in apoteosi!?
Le qualità tecniche si mischiano ai contenuti, le parole e i messaggi trovano nuove evidenziazioni per merito di arrangiamenti consolidati che valorizzano le idee di un uomo ormai divenuto mito.
Tutti appaiono in stato di grazia, probabilmente toccati nell’intimo dalla situazione, e ciò che alla fine emergerà è quella strana sensazione a cui facevo riferimento all’inizio, quella voglia di cantare e di ballare che appare come una liberazione, una voglia di esplosione che anticipa i propositi di Di Cioccio, che nella fase finale esorterà il pubblico ad urlare per … eliminare le scorie del quotidiano, per scacciare le cose negative da cui siamo circondati, oggi più che mai, e che un concerto “adeguato” può contribuire a nascondere, almeno per due ore, centoventi minuti di mente libera e di gioia musicale. E quell’urlo che Franz chiama, mi pare, “disobbedienza” o “ confusione “ musicale, porta a qualche riflessione che ci accompagna  nel lasciare l’Arena del Mare.
Mentre tutto questo prendeva vita sul palco, qualche nave sfiorava il concerto e andava oltre, come a controllare la situazione: qualche turista, qualche lavoratore e, chissà, magari l’anima di un antico uomo genovese che da quelle parti era già passato … musica e sogni sono un connubio perfetto!

lunedì 30 luglio 2012

Claudio Sottocornola-Working Class




Ho incontrato casualmente - virtualmente - Claudio Sottocornola nel momento giusto, nel periodo in cui mi sto interrogando, in buona compagnia, su cosa si possa fare per diffondere la cultura musicale, su come si possa entrare nel mondo della scuola per una buona semina, su quali siano i mezzi corretti per “costringere” i nostri giovani a superare la barriera della superficialità per lasciarsi trasportare in un mondo che non conoscono, che non dovrà obbligatoriamente affascinarli, ma che potrebbe riservare loro delle sorprese positive.
Nell’intervista a seguire, le prime riflessioni di Claudio riportano ad un problema di cui possiamo identificare l’inizio, ma non certo prevedere la fine, e probabilmente non esiste una sola verità, ma variegate sfaccettature che permettono di assumere posizioni differenti a seconda del momento. Mi riferisco a quell’atteggiamento particolare che porta a giudicare e a decidere quale sia la musica degna di essere chiamata con tal nome, e a denigrare/deridere/ non considerare ciò che è ritenuto facile, commerciale, di presa immediata.
Io faccio parte del gruppo degli intransigenti… moderati, anche se i ragionamenti come quelli di Sottocornola mi fanno tirare il freno a mano, per una sosta prolungata nel campo del dubbio: esiste la musica di seria A e quella di serie B?
Probabilmente non è molto importante rispondere, in fondo non si potrebbe vivere senza la musica da cui siamo circondati, e se ad assolvere il compito di arricchimento quotidiano è un brano da tre minuti piuttosto che una suite di stampo classico, beh, entrambi troveranno una giustificazione esistenziale e presenteranno la giusta dignità.
Claudio Sottocornola, intellettuale, filosofo e studioso della materia, porta in giro le sue idee, la sua musica e il contesto in cui è nata e ha vissuto, e in questo suo viaggio sul territorio l’elemento didattico si  sposa con quello ludico e favorisce l’interattività.
Ogni occasione è buona… una scuola, un circolo culturale, l’Università della 3° età, in una dimensione personale che miscela la performance canora alle parole. Questo è la traduzione pratica del “fare cultura musicale”, ed è un esempio da cui d’ora in poi trarrò spunto.
Ma tanto lavoro sul territorio ha trovato uno sbocco divulgativo importante, la rete, ed è nato il progetto Working Class, una sorta di collage video dei sui eventi, visibile dal suo sito ufficiale, diviso in cinque sezioni proposte con cadenza mensile.
Il quarto appuntamento, l’ultimo uscito, è riservato ai Cantautori.
A fine post sono riportati tutti i link utili per approfondire, e il video allegato chiarirà meglio i concetti appena espressi.
Imperdibile per chi è dotato di curiosità musicale e un po’ di onestà intellettuale.





L’INTERVISTA

Leggendo la tua storia, la prima cosa a cui ho pensato è relativa al mio cambiamento nel corso degli anni, partendo dall’adolescenza, quando certi nomi del mondo della musica leggera risultavano innominabili, mentre ora sono ben disposto verso qualsiasi prodotto “gradevole”. Esiste secondo te uno spartiacque tra buona musica  e musica con … minor dignità?

Molto spesso si tratta di una questione di affinità, che possono cambiare nel corso degli anni e allargarsi ad includere esperienze sempre più vaste ed eterogenee, al contrario di quanto accade nell’adolescenza, dove si è sollecitati ad accettare esclusivamente ciò che conferma e rafforza la propria immagine identitaria. Nella mia attività giornalistica ho incontrato due personaggi che mi hanno illuminato su questo problema, entrambi identificabili col periodo degli anni ’70. Georges Moustaki mi sottolineò nel corso di un’intervista che ogni canzone, anche quella apparentemente più stupida, è frutto di un qualche processo creativo che va rispettato e valorizzato, mentre Nicola di Bari, che incontrai a Canale 5, quando la sua carriera si era già in gran parte trasferita all’estero, insistette molto sul riconoscimento che merita qualsiasi interprete che ha il coraggio di esibirsi su un palco, e quindi di affrontare anche le critiche. Soprattutto, sono convinto che la qualità non vada mai identificata con un genere, ma che all’interno dei diversi generi si può individuare una gerarchia di intensità e valore. Attualmente comunque io ascolto solo ciò che mi dà stimoli nuovi o, in alternativa, ciò che mi corrobora nella mia identità e memoria profonde.

Che tipo di soddisfazione ricavi dal contatto con il pubblico? Riesci a realizzare anche una certa interattività?

La comunicazione è sempre bidirezionale e interattiva. Lo vedo anche nelle mie lezioni di filosofia, ove mi accorgo che il confronto con gli studenti, che sollecitano con domande, obiezioni, riflessioni personali, mi obbliga a chiarire, ridefinire, riformulare  il mio pensiero in rapporto con l’interlocutore, allargandone così lo spettro di efficacia ed inclusione dei diversi punti di vista. Nelle lezioni-concerto, per esempio, il contatto col pubblico, che interagisce sia con la sua reattività  fisica ed emotiva che con domande e osservazioni, mi ha aiutato a sdrammatizzare maggiormente il momento esecutivo, acquisendo un po’ più di “leggerezza” rispetto ai tempi in cui conducevo le mie ricerche in studio e l’interpretazione, come si evince dalla trilogia “L’appuntamento”, pubblicata qualche anno fa, è molto più drammatica ed esistenzialistica, e nella sua versione video anche un po’ “claustrofobica”, a differenza di quanto accade nei cinque live di “Working Class”, attualmente in Rete.

Ho delle esperienze negative legate al rapporto scuola/musica, laddove la materia musicale è intesa solo in senso tradizionale, o esiste un indirizzo strumentale specifico, mentre sono dell’idea che, ad esempio, un album potrebbe essere oggetto delle riflessioni e del lavoro di gruppo da svolgere nelle ore di letteratura. Qual è la tua esperienza specifica?

Condivido le tue valutazioni. A scuola la musica è scarsamente insegnata e, quando lo è, viene concepita come apprendistato tecnico (il solito corso di clarinetto o di chitarra…) o, al più, come Storia istituzionale (la musica classica!). Io stesso ho dovuto affrontare qualche scetticismo e ipercriticità nel proporre le mie lezioni-concerto, perché relative alla musica pop, rock e d’autore contemporanea, e basate sulla riesecuzione e interpretazione vocale dei brani stessi ( è semmai più tollerata la semplice storicizzazione). I problemi coinvolti sono di due tipi. Da un lato c’è una visione museale del sapere, per cui conta solo ciò che è già “passato in giudicato” e può quindi essere conservato e trasmesso, con una forte penalizzazione del contemporaneo. Dall’altro, ancor più grave, c’è una didattica con finalità esclusivamente intellettualistiche, che non si preoccupa di educare il “cuore”, la sensibilità – anche estetica – degli studenti, e quindi non li coinvolge in esperienze di ascolto e percezione, emotivamente forti e partecipative.

Vivo e lavoro (per passione) nel web, e ho sperimentato la potenza del mezzo divulgativo e la facilità dell’elemento organizzativo. Quanto è importante per te utilizzare internet, e quali sono gli aspetti negativi per te più evidenti?

Credo che ad ogni aumento di potenza corrisponda un aumento di opportunità ma anche di pericoli, come vediamo dagli stessi sviluppi della tecnologia. Internet rappresenta quindi una rivoluzione paragonabile a quella della Stampa di Gutenberg, che conduce all’immane guadagno di una divulgazione scientifica, artistica e culturale in genere aperta a tutti, in cui io stesso mi muovo e a cui attingo, come si vede dalla scelta di pubblicare “Working Class” in Rete. Ma presenta anche il limite di dare amplificazione a forme di comunicazione talvolta banali, incontrollabili e deresponsabilizzanti. Spero quindi che il tempo porterà ad un’autoregolamentazione etica sempre più efficace, limitando il rischio che l’aumento della comunicazione in estensione porti ad un suo radicale impoverimento, rischio peraltro già strutturale alla velocità del mezzo, che comporta una evidente contrazione dei passaggi linguistici e argomentativi.

La poesia, le parole, le immagini, la musica... elementi essenziali che ci accompagnano nel nostro percorso di vita. Eppure della cultura in senso lato si sente parlare - molto -  solo in determinati momenti, quando fa più comodo. E’ una visione troppo pessimistica la mia?

Forse sì, perché la “cultura” nel senso più profondo, e cioè antropologico, è coessenziale all’umanità, che non ne potrà, né mai ha potuto, farne a meno. Mi spiego meglio: se noi ipotizzassimo, per un attimo, la scomparsa di tutti i mezzi espressivi attualmente a disposizione, e quindi immagini, suoni, colori, gesti e parole, resterebbe che un essere umano in tali condizioni ancora sentirebbe, penserebbe, gioirebbe o si rattristerebbe, e quindi ancora sarebbe un soggetto “culturale” che, invece di suoni, colori o parole…, forse genererebbe semplici vibrazioni… Insomma, come sottolineano gli anglosassoni, la cultura è il modo in cui viviamo, mangiamo, preghiamo, ci divertiamo, pensiamo la nostra condizione… E’ però vero che la qualità culturale del presente è fortemente influenzata dalla visione che pone al vertice dei valori quelli economici, e quindi risulta impoverita di molteplici altri aspetti (per esempio ludici ed espressivi) essenziali alla nostra vita.

Come nasce il progetto “Working Class”?

Come per altre esperienze, mi piace cristallizzarle in un’”opera”, quando giungono ad un certo compimento, utilizzando il materiale raccolto durante la loro realizzazione. Così si può dire che il progetto “Working Class” abbia accompagnato il mio tour di lezioni-concerto dal 2004 ad oggi. Nel corso di questi live sul territorio infatti, a contatto col pubblico più vario delle scuole, dei teatri, di Centri Culturali e Terza Università, ho sempre raccolto la documentazione che amici, colleghi, fonici, video operatori (uno speciale ringraziamento va a mia sorella Augusta che ha seguito e ripreso tutto il tour), andavano realizzando, e alla fine ne ho ricavato un archivio cospicuo, da cui ho selezionato gli estratti più significativi in relazione ai diversi temi trattati. Alla fine si tratta di una ottantina di brani simbolo della canzone italiana, reinterpretati a modo mio e, soprattutto, storicizzati e contestualizzati a tracciare una storia sociale e del costume del Novecento in Italia, con particolare attenzione al periodo che va dagli anni ’50 ad oggi. La selezione e poi il montaggio delle immagini sono stati faticosissimi, perché le riprese effettuate sono molto “on the road”, girate in presa diretta e a volte casuali, ma è proprio questo che differenzia e caratterizza la mia proposta rispetto al circuito del puro consumo musicale, il suo proporsi come ricerca e momento di educazione anche estetica, testimoniando che musica non è solo intrattenimento ma anche apprendimento, crescita, formazione. “Working Class” documenta così l’interpretazione, l’interazione col pubblico, il discorso di storicizzazione a partire dalla canzone. Il tutto è ora disponibile sui siti www.claudiosottocornola-claude.com  e www.cld-claudeproductions.com , nonché sul canale CLDclaudeproductions di Youtube , e lo sarà successivamente anche in versione cofanetto dvd.

Attraverso i tuoi lavori ripercorri la storia della musica e della gente attraverso un buon numero di lustri. Esiste un fil rouge, una linea guida musicale che unisce tutte le epoche che descrivi?

La relazione fra tempo storico ed espressione artistica è una costante che io tendo a mostrare nelle mie lezioni-concerto a tema (dai teen-agers di ieri e di oggi all’immagine della donna nella canzone,  dagli anni ’60 ai cantautori), ove sono particolarmente attento agli episodi musicali innovativi e di rottura (le influenze americane, il beat, la canzone d’autore, le interpreti…) per mostrare, come voleva Heidegger, che la grande arte, di cui la musica è parte, non solo è prodotta, ma produce Storia… Questo è il fil rouge che mi spinge a guardare con ottimismo al divenire storico… ma soprattutto, alla nostra capacità di influenzarlo e orientarlo nei micro cambiamenti e nelle micro relazioni quotidiane, come attraverso la creazione artistica.

Ho posto recentemente una domanda, apparentemente retorica,  ad un famoso cantautore, relativa alla musica senza liriche, avendo letto di un suo pianto adolescenziale per una trama di Mozart. E non posso dimenticare dell’amore profondo per la musica d’oltremanica, quando non capivamo una parola della lingua inglese. Qual è il tuo pensiero sul rapporto musica /testi?

Nel mio ascolto e nella mia percezione sono olistico: sono quindi colpito dall’atmosfera, dal gesto scenico, dalla maschera teatrale e, non ultimo, dalla voce, che tuttavia avverto come suono, timbro, risonanza d’essere, e amo quindi ascoltare abbastanza al livello della musica e non sovraesposta, come piace a molti tecnici del suono italiani. Credo però che anche la comprensione delle parole (il cui contenuto evoca concetti, sentimenti e immagini) aiuti a realizzare l’atmosfera in cui ha luogo la  rivelazione…  artistica.

Anche a me capita di piangere -  e ora non ho più nessun pudore nel farlo - per una particolare musica che mi colpisce nell’intimo. Se dovessi stilare una scala di valori che comprendesse tutto ciò che è in grado di smuovere le anime, che ruolo attribuiresti alla melodia e alla possibile poesia annessa? C’è qualcosa di mistico e metafisico nel rapporto che ognuno di noi ha con il mondo dei suoni?

Da un punto di vista istituzionale penso, con Hegel, che arte, religione e filosofia siano gli ambiti di rivelazione e manifestazione dello Spirito al suo più alto livello. Della prima fa parte la musica, che io colgo soprattutto nella sua dimensione scenica, interpretativa, estetica e vocale, e quindi diventa sinergica a tutte le altre arti. Il ruolo che le attribuisco è quindi altissimo, incommensurabile, sublime, con degli esiti di tipo mistico-spirituale. Immodestamente, è qualcosa che io vado cercando quando canto – una rivelazione – che spero sempre possa a flash e bagliori arrivare a me come al pubblico che partecipa o ascolta a casa. Ma, per lo più, la musica del nostro tempo è edonisticamente avvitata su una modalità di esecuzione e proposta banale e massificante, finalizzata alla vendita e al consumo, sempre più in crisi e pertanto sempre più nevrotica.

Guardiamo un attimo al futuro. Qual è il progetto a cui ambisci e che non hai ancora avuto il modo di realizzare?

Mi piacerebbe girare l’Europa, portando alla ribalta di un pubblico vario e cosmopolita la Storia della canzone italiana nei suoi brani simbolo e nei suoi snodi stilistici ed epocali, raccontando al contempo l’evoluzione sociale e del costume nel nostro Paese, da “Nel blu dipinto di blu” a “Vita spericolata”, da “Ma l’amore no” a “Meravigliosa creatura”. E poi vorrei finalmente pubblicare un’antologia delle mie migliori interviste, realizzate soprattutto fra gli anni ’80 e ’90, ai grandi personaggi storici della canzone e dello spettacolo in Italia, da Gianni Morandi a Rita Pavone, da Enzo Jannacci a Milva, da Carla Fracci a Nino Manfredi, da Wanda Osiris ad Alberto Lattuada.


INFORMAZIONI UFFICIALI Claudio Sottocornola:
                                             http://www.cld-claudeproductions.com

Comunicato stampa Working Class:

Comunicato stampa 4° appuntamento (Cantautori): http://www.synpress44.com/01Comunicati.asp?id=1913

Ufficio stampa Synpress44: http://www.synpress44.c



giovedì 26 luglio 2012

UT all'Arena del Mare-Genova

Fotografia di Enrico Rolandi

Il mio trittico genovese di fine luglio - UT, PFM, BANCO/ORME - è iniziato mercoledì 25 luglio, con il concerto degli UT.
E così la band locale, una costola/diramazione importante dei New Trolls ritorna a Genova, in una location di indubbio fascino, quell’Arena del Mare che contribuisce a creare immagini originali legati alla band. Non sono gli elementi nostalgici quelli su cui soffermarsi, ma la mia iniziale permanenza nel backstage mi ha permesso di captare una certa emozione, almeno in chi rappresenta la continuità tra storia e presente, vale a dire Gianni Belleno e Maurizio Salvi. In questi casi, l’atmosfera carica di significati oltrepassa l’elemento musicale, e questo feeling viene trasmesso a chiunque si trovi in un piccolo raggio d’azione, spazio che ha racchiuso, naturalmente, l’attento pubblico.
Poteva andare meglio dal punto di vista delle presenze, ma in questi momenti di vita dura per tutti bisogna ragionare come dei buoni e ottimisti seminatori, pronti a cogliere i frutti della fatica quando si presenterà  l’occasione.
Maurizio Salvi mi raccontava prima del concerto di come sia problematica l’organizzazione di una band e con quale fatica si riescano a chiudere i tanti cerchi che di volta in volta si aprono, ma la musica prima di essere un lavoro - quando lo è -  è una passione che ti accompagna per una vita e anche i momenti difficili vengono superati con il suo aiuto.
La band si presenta con una novità - almeno per me - e cioè la presenza di Alessandro Del Vecchio alle tastiere e cori/voce, in sostituzione di Andrea Perrozzi.
Non conoscevo Alessandro, musicista dal notevole curriculum nonostante la giovane età, e l’inserimento mi è parso un successo, perché oltre al buon lavoro di completamento delle parti tastieristiche, ha sfoggiato una gran voce riconducibile agli stilemi dell’hard rock, e capace di raggiungere con apparente facilità note normalmente difficili da “toccare”.
Il repertorio è quello conosciuto, contenuto nel disco registrato a marzo, che pesca nel profondo prog di inizio anni ’70, sintetizzato nell’album “UT”.
Ecco il mio recente giudizio relativo all’album live, riproposto, nella sostanza, in questa occasione:


Nelle oltre  due ore di musica c’è spazio per il ricordo, il virtuosismo, l’improvvisazione e l’interazione, con sottolineature da parte dell’audience, in bilico tra concentrazione e voglia di “muoversi”.
Il mix che gli UT propongono è originale, cosa non ottenibile con la sola qualità dei musicisti, e il ricorrere a forze nuove, necessità quasi fisiologica per tutte le band storiche, è una buona spinta alla rivisitazione di ciò che è stato, con uno sguardo verso quello che verrà.
La commistione dell’ elemento classico - il bacaloviano  “Concerto Grosso” -  con tracce di rock pesante, e l’utilizzo di trame vocali corali mi sono  sembrati i temi portanti della serata, e l’impressione di omogeneità è emersa, nonostante l’inserimento di un nuovo elemento, nonostante alcuni problemi tecnici legati al funzionamento delle tastiere di Salvi, nonostante non sia cosa semplice reinterpretare le parti di Nico Di Palo.
A distanza di pochi giorni ho rivisto Fabri Kiareli, ma in veste differente, non più chitarrista dei Trip, ma bassista, oltre che vocalist. Anche in questo caso se la cava egregiamente, denotando una sicurezza da palco e una certa tendenza alla leadership che appaiono come doti naturali. Trascinatore, istrione, eclettico e campione di comunicatività.
Bella la performance di Claudio Cinquegrana, preciso  e misurato nelle parti solistiche, senza mai dare l’impressione della ricerca dell’estrema visibilità personale, fatto più volte riscontrato in ambito concertistico, anche se capibile e alcune volte tollerabile.
Il tutto diretto dal “maestro” Maurizio Salvi, che detta i tempi e conduce per mano il team. Lo avevo seguito direttamente dal palco del ProgLiguria e rispetto a quell’occasione ho rilevato una maggior voglia di lasciarsi andare e una discreta tendenza al suonare divertendosi, situazione che si verifica quando le condizioni ambientali al contorno lo permettono. Tanto di cappello!
E la quasi necessità di “gioco da palco” emerge nei duetti con l’altra colonna, Gianni Belleno, un pezzo di storia della musica italiana. Gianni suona e canta, dando prova di freschezza strumentale ed esibendosi in un lungo assolo molto apprezzato dal pubblico, che si dimostra attento nel percepire tutto quello che si nasconde dietro alla tecnica e al virtuosismo, quel cuore pulsante forse più difficile da far emergere nel caso di un drummer.
Un gran bella serata per una band che, dopo un buon rodaggio, sta entrando in forma.
Per dovere di cronaca segnalo un ospite di cui non ho captato il nome. Però… è visibile nel filmato a seguire, testimonianza del bis.
Un piccolo e antico aneddoto personale.
Era il 1992 e mi trovavo in una sperduta città della Corea Del Sud… un unico Motel e 200000 abitanti.
Nel negozio di dischi della via centrale esisteva una sola vetrina, piena zeppa di star locali. Ma al centro, in buona evidenza, la copertina di un vinile … Concerto Grosso.
Se ancora oggi ascoltarlo mette i brividi ci sarà pure un motivo!?

martedì 24 luglio 2012

Nora Dei - Epitaph



Circa quattro mesi fa, da queste pagine, descrivevo il lavoro di una giovane artista, Nora Dei, a cui ponevo qualche domanda:


Alla questione specifica riguardante l’imminente futuro Nora rispondeva così:
Nel contratto ci sono due singoli, fra cui quello che andrò facendo, davvero sconvolgente, un vero vangelo progressive…”
Ed ecco che il mistero si svela e possiamo ascoltare una splendida versione di Epitaph, brano manifesto dei King Crimson.
Al seguente link è fruibile il commento ufficiale :




Cimentarsi con un brano simile mi pare estremamente difficile, per le seguenti ragioni:
-E’ un brano simbolo di un’epoca e di un movimento, quello progressivo, ed occorre … “sentirselo addosso”, non solo dal punto di vista musicale.
-Non è strutturalmente semplice, e il dubbio interpretativo potrebbe essere legato ad una riproposizione più fedele possibile o … l’innesto del tocco personale.
-La voce originale è quella inavvicinabile di Greg Lake, e i paragoni sono sempre in agguato.
-La reinterpretazione della storia da parte di una giovane artista può portare a giudicare l’azione come velleitaria.

Ecco, per chi non avesse coraggio esistono tutte queste preoccupazioni e probabilmente molte di più, ma Nora Dei, conscia della propria “forza”e ben consigliata da Antonio Bartoccetti, passa oltre e osa, mettendo sul piatto una versione toccante che non può lasciare indifferenti.
La parte musicale è indivisibile nel giudizio, perché contribuisce a mettere in scena un dramma a forti tinte scure, un insieme di concetti che vale la pena di conoscere nei dettagli, e per svolgere anche un piccolo ruolo didattico ho inserito a fine post la lirica originale e la sua traduzione, e rileggendo mi sono reso conto di quanto possa essere attuale un testo di oltre quarant’anni fa.
La riproposizione di  Epitaph da parte di Nora Dei penetra del profondo e attacca la sensibilità personale, lasciando un senso di vuoto che, d’stinto, si vorrebbe riempire cercando altrove. Ma è facile ritrovarsi pronti al riascolto, e poi a ancora, e ancora, sino a che le nostre riflessioni, probabilmente amare, saranno giunte al termine.
Da non perdere.





Artist: Nora Dei
Label: Musik Research
Single: EPITAPH (2012 remake), durata 7’34”
Original: 1969
Writers: Robert Fripp-Ian McDonald-Greg Lake-Michael Giles
Words: Pete Sinfield
Original publishing: EG Music
Epitaph “2012 remake”: powered & arranged by Rexanthony
Musician: Rexanthony ( Keyboards, piano, synt, drum, programming)
Musician: Antonius Rex (electric and acoustic guitar)
Special thank: Apple computer, Gibson guitars
Worldwide digital distribution by Musik Research, July 2012
Available on I Tunes, Amazon, eMusic and all digital stores.

Epitaph
The wall on which the prophets wrote
Is cracking at the seams.
Upon the instruments of death
The sunlight brightly gleams.
When every man is torn apart
With nightmares and with dreams,
Will no one lay the laurel wreath
As silence drowns the screams.
Between the iron gates of fate,
The seeds of time were sown,
And watered by the deeds of those
Who know and who are known;
Knowledge is a deadly friend
When no one sets the rules.
The fate of all mankind I see
Is in the hands of fools.
Confusion will be my epitaph.
As I crawl a cracked and broken path
If we make it we can all sit back
and laugh.
But I fear tomorrow I'll be crying,
Yes I fear tomorrow I'll be crying.

Epitaffio
Il muro su cui scrivono i profeti
Si sta rompendo le cuciture
Sotto gli strumenti della morte
La luce del sole splende raggiante
Quando ogni uomo è fatto a pezzi
Con gli incubi e con i sogni
Nessuno toglierà la corona di foglie di lauro?
Mentre il silenzio sommerge le urla
Tra i cancelli di ferro del destino
Venivano seminati i semi del tempo
e annaffiati dalle scritture di coloro
Che conoscono e che sono conosciuti
La conoscenza è un amico mortale
Quando nessuno imposta le regole
Il destino di ogni tipo di uomo che vedo
E' nelle mani degli stupidi
La confusione sarà il mio epitaffio
Mentre striscio per un sentiero crepato e sfasciato
Se ce la facciamo possiamo sederci tutti
E ridere
Ma ho paura che domani starò piangendo
Si, ho paura che domani starò piangendo




lunedì 23 luglio 2012

Marcello Chiaraluce Band a Loano




Venerdì 20 luglio, in Piazza Rocca a Loano era di scena la Marcello Chiaraluce Band.
Marcello è un musicista dai molteplici progetti, ed è cosa normale vederlo su di un palco accanto a qualche personaggio dal nome altisonante e dal valore esagerato, ma i disegni personali sono quelli che danno maggiori soddisfazioni, che permettono di dare e darsi una misura, riportando la tecnica alla giusta dimensione e dando evidenza della creatività e delle doti di leader.
Avevo già visto la band nel periodo natalizio, e a distanza di sei mesi ho ritrovato gli stessi artisti con un piglio decisamente maturo, una situazione che si acquisisce col tempo e che porta ad una consapevole e piacevole sicurezza.
La location è molto suggestiva, e la piazza risulterà gremita per tutta la durata del concerto.
Difficile stabilire una maggioranza anagrafica perché il pubblico è sembrato variegato e alla fine, dalla mia postazione centrale, affianco al fonico, l’amico Mazzitelli, ho potuto notare un turnover continuo che ha tenuto costantemente piene le sedie disponibili.
Quale l’idea della serata? Quale il tema dominante?
Di scena la storia dei Guitar Heroes, attraverso i  brani famosi che hanno reso celebri loro e le band di appartenenza.
Geniale… prendi un tema musicale e prova a sviscerarlo ripercorrendo un lungo periodo storico… il pubblico capirà e gradirà!
E così è stato.
Per chi non lo avesse mai sentito Marcello Chiaraluce è un chitarrista con i fiocchi, capace di emergere nelle situazioni più complicate, tra il prog e il rock blues, la fase acustica e quella classica. Ma gli altri componenti non sono da meno.
Sono sei i musicisti ufficiali: oltre a Marcello ( chitarre e voce) Serena Torti ( voce), Mauro Mugiati ( tastiere, chitarra e voce ), Luca Grosso (batteria),  Kenny Valle alla tastiere e Daniele Piglione al basso. Davide Spalle (vocalist) mi pare il settimo elemento, anche se presentato come “ospite”.
Ripercorrere una fetta di storia musicale significa anche attraversare ere e culture diverse, e mi è sembrato significativo il “tenere la scena” della - anche - modella Serena. Evidenziare la sua bellezza è cosa scontata, ma che nulla aggiunge all’elemento musicale, mentre mi preme sottolineare i frequenti cambi d’abito che hanno accompagnato la progressione temporale in atto sul palco.
Sono arrivato a concerto iniziato e vedere una giovane donna ballare e cantare con abiti in voga nell’era hippie, con tanto di pantaloni a zampa di elefante e fascia sulla fronte, mi ha immediatamente colpito.
E la musica? Quali gli eroi della sei corde?
Vado a memoria e spero di non dimenticare troppo… Eric Clapton,  Carlos Santana, Pete Townshend, Brian May, Mark Knopfler, David Gilmur, Martin Barre  e l’immancabile tributo a Jimi Hendrix.
Ma c’è stato spazio anche per la sezione Prog, con un trittico da favola che ha riportato a Steve Howe, Robert Fripp e Steve Hackett.
In questa occasione qualcuno si alza, ma viene immediatamente rimpiazzato, e la “storia della chitarra” regala un senso supplementare a questa notte dei ricordi, diventando quasi elemento didattico da utilizzare per i tanti giovani presenti, una sorta di The School of Rock già apprezzata nella proposta video di Jack Black.
Il pubblico apprezza e il gradimento innesca la gioia da palco, palpabile per chi consoce l’ambiente dei concerti.
C’è anche un discreto spazio per i brani di produzione propria, tratti dai due album della marcello Chiaraluce Band, ed il brano “Guitar Hero”, tratto dal primo CD, si inserisce perfettamente nel contesto della proposta.
Bello il gioco di squadra, con l’alternanza delle voci tra i quattro vocalist, e ottima la resa generale. Le doppie tastiere, la doppia chitarra e le molteplici voci forniscono al gruppo una vasta gamma di possibilità espressive, sulla strada di un rock che si ascolta con grande piacere e che in fase live appare trascinante.
Un bellissima serata di musica in una cittadina, Loano, che ad ogni angolo presentava un trio musicale, quasi fosse Beale Street.
Le mie riprese video sono state inficiate da un problema allo zoom, ma resta un discreto audio che ci ricorda chi siano stati gli YES, e quale valore avesse l’album FRAGILE, rappresentato in questo caso dalla magnifica  ROUNDABOUT.
Bella l'esecuzione di casa nostra.

giovedì 19 luglio 2012

Ritratto di Nico, Femme Fatale


Il 18 luglio di 24 anni fa, a soli 50 anni, moriva Nico, indimenticata cantante, attrice  e modella tedesca.
Un pò di tempo fa la ricordai così…


Il post di oggi è dedicato a NICO.
Chi e’? O meglio, chi era?
Di lei ricordavo solo tracce ricavate da Ciao 2001, secoli fa, e forse una copertina dedicata.
Mi era rimasto nella mente qualcosa che aveva a che fare con una vita pericolosa, con l’eroina, con un’esistenza vissuta sempre al limite, e ricordavo qualche giudizio del tempo, legato alle sue capacità di plagiare, utilizzando fascino e bellezza.
Non avevo di certo collegato la sua figura ad una particolare abilità o genere musicale, ma nel mio filtro mentale, quello della memoria musicale, il connubio Velvet Underground-Nico era rimasto intrappolato.
A distanza di anni l’ho scoperta, e ne sono rimasto affascinato.


Quando riesco, il sabato pomeriggio mi ritaglio un ora dagli impegni familiari (al sabato sono numerosi), e mi dirigo nel centro citta’, e precisamente nel centro storico, e ancora più precisamente in via Pia, dove a metà percorso c’e’ una piazzetta molto bella, e dove esiste il mio “triangolo perfetto.”

via Pia... molti anni fa

Questa figura geometrica ha, ovviamente, tre vertici, che io “tocco” con sequenza sempre diversa.
Nello spazio di pochi metri trovo il negozio di dischi, e di fronte il mio amico e musicista Franco. Due passi ancora e trovo la libreria.
Qualche parola con Franco, dopo aver acquistato un DVD, e poi alla ricerca di un libro.
In una delle mie scorribande nel reparto dedicato alla musica, rimango colpito dal viso di Nico. Il titolo del libro è “Nico , Bussando alle Porte del Buio” e l’autore e’ Gabriele Lunati.
La foto in copertina è incredibilmente bella, lei era incredibilmente bella.
La lettura delle note sul retro alimentano la mia curiosità morbosa (“Nico e’ una figura tragica, controversa…”), e non posso fare altro che acquistarlo.
In 3 giorni, fatti di ritagli di tempo, “mangio “ il libro, e parto alla ricerca di tutto ciò chè sono stati musicalmente Nico, i Velvet, Andy Warhol e la Factory, e che cosa hanno rappresentato per il costume dell’epoca.
Nella mia vita ho avuto l’opportunità di vedere musei importanti, come il “Louvre” o il “Prado”, ma la mia poca propensione a quel tipo di arte, mi ha impedito un reale apprezzamento di opere universali.
L’unica raccolta di quadri/oggetti che ho veramente “goduto” e’ di tipo contemporaneo.
Mi riferisco al museo di Warhol che si trova a Pittsbourgh , luogo in cui si respira la pop art, la musica, e parte dei tempi che ho vissuto.
Nico, Lou Reed, Warhol… un ricongiungimento di elementi solo sfiorati nel corso degli anni.
La lettura in questione mi porta anche verso altri libri, come “Tutto quello che avreste voluto sapere sulla Factory di Andy Warhol e non avete mai osato chiedere”, di Mary Woronov, altra “abitante “ della Factory.

Questa mia presentazione anomala del libro, non e’ tesa a recensire il lavoro di uno scrittore (non e’ il mio mestiere e non ne sarei capace), ma vuole sottolineare come un episodio occasionale possa aprire la porta verso strade sconosciute, sull’onda della curiosità.
Sono stato male leggendo di Nico, del suo figlioletto Ari (avuto con Delon),del degrado diffuso, della vita alla Factory.
Sono stato male ripensando a quanto io abbia rischiato, in gioventù ,di lasciarmi intrappolare da ciò che sembrava alternativo e rivoluzionario.
Sono stato male ascoltando certa musica che non conoscevo.
Sono stato male, guardando i filmati in bianco e nero.
La lettura mi ha anche ispirato scritti in cui il protagonista(io)incontrava occasionalmente Nico, in un bar, prima di un concerto.
Possibile che la lettura del racconto di una vita porti a tanto?
Mi piacerebbe sapere se il testo di Lunati e’ contagioso, se anche ad altri ha fatto il mio stesso effetto! A completare il tutto, ciliegina sulla torta, un lungo filmato di una 40ina di minuti, girato dallo stesso Lunati,che propongo a seguire.
E’ incredibilmente bello e consiglio a chiunque volesse prenderne visione, di dedicare il tempo necessario… merita davvero.
Oltre a questo spazio, il filmato e’ scaricabile in rete, su indicazione dello stesso autore, ed e’ anche disponibile su Youtube.

Prima del documentario, alcune note oggettive.


Contesto

New York
, tardi anni sessanta: la leggendaria Factory di Andy Warhol. Una galleria di bizzarri personaggi dai nomi improbabili, inquieti e inquietanti, che si muovono tra party e locali famosi come il Max's Kansas City, tesi a conquistarsi i "5 minuti di celebrità" di cui parlava Warhol.

NICO modella

Nico conobbe i primi successi personali come modella apparendo su numerose pubblicazioni di moda a diffusione internazionale. Ancora molto giovane si trasferì a Parigi dove ebbe modo di incontrare il famoso fotografo Tobias che la ribattezzò Nico, dal nome del suo ex boy-friend, il regista Nico Papatakis.
Nella sua carriera di modella, Nico - divenuta pupilla della famosa stilista Coco Chanel - lavorò fino alla fine degli anni 50 per riviste prestigiose come Vogue,Tempo , Vie Nuove , ed altre ancora.
Come attrice ebbe anche un ruolo minore nel film "La dolce Vita", di Fellini e interpretò alcuni film di Andy Warhol.

Con i Velvet Underground.

Dopo aver incontrato Andy Warhol ed essere divenuta un'assidua frequentatrice della sua "Factory" fu da questi incoraggiata a partecipare, come voce solista, al primo disco dei Velvet Underground, intitolato appunto "The Velvet Underground & Nico" con l'inconfondibile banana warholiana in copertina.
Il gruppo dei Velvet, anche loro frequentatori della Factory, ebbe il periodo di massima notorietà dopo la pubblicazione del disco d'esordio (1967): i loro primi concerti erano vere e proprie performance totali, comprendenti incontri di teatro, suoni e cinema in cui con la musica venivano proiettate immagini psichedeliche; un ballerino, Gerard Malanga, accompagnava canzoni come Heroin e Sunday Morning. Lo spettacolo, chiamato Exploding Plastic Inevitable o EPI, era in realtà una creazione dell'artista pop Warhol. Ma la presenza di Nico all'interno della band è sempre stata problematica: forzata dallo stesso Warhol, inizialmente non era stata accettata dagli altri componenti; solo John Cale maturerà con la "chanteuse" un forte legame duraturo nel tempo (egli sarà infatti il produttore dei suoi più importanti lavori da solista).
Nonostante ciò "The Velvet Underground e Nico" è divenuto uno dei migliori album della storia del rock, carico di innovazione e spinte targate east coast, momenti suggestivi ed espressioni metropolitane. In quest'opera s'inserisce la voce di Nico che - dotata di un timbro rauco e assolutamente personale - viene tuttora considerata una delle più belle della musica rock
La canzone Sunday Morning interpretata da Lou Reed con voce effeminata, è ritenuta un vero capolavoro che il suo particolare modo di cantare ha reso indimenticabile.

Solista

Verso la fine degli anni Sessanta decide di abbandonare i Velvet proseguendo la propria attività di mannequin e registrando diversi album da solista (di cui Cale sarà un importante collaboratore) ma senza mai ripetere il successo riscosso con i Velvet Underground. Anni più tardi dichiarò: "I Velvet volevano sbarazzarsi di me perché ricevevo più attenzione di loro da parte della stampa", a testimonianza di una collaborazione forzata anche se ben riuscita.
Questo è, però, il periodo più prolifico della sua carriera: preso in mano l'harmonium che Cale le aveva regalato, Nico inaugura un modo del tutto nuovo di concepire la canzone diventando punto di riferimento e anticipatrice della corrente dark di fine anni 70.
Dagli arrangiamenti ipnotici alle melodie pungenti e inquietanti della sua voce, a volte anche a cappella, la valkiria dai tratti perfetti butta le basi del dark: gusto per l'occulto, ambientazioni gotiche e mistero si fondono in uno con senso d'angoscia, alienazione, decadenza e mestizia. "Non so bene come faccia a vivere. È una continua lotta tra me e me. È un dramma sentirmi come aliena a me stessa. Non ho alcun riferimento per capire chi io sia. Vivo come in un perenne esilio" dichiarerà una volta l'artista. Il lavoro che porta a maturazione queste sue tendenze è Desertshore, in cui gli embrioni contenuti nel precedente album (The Marble Index) vengono sviluppati a pieno con risultati grandiosi. Nel 1974, partecipa al concerto collettivo June 1, 1974, organizzato dall'etichetta Island per promuovere la figura di Kevin Ayers. In esso, appare la sua famosa versione di The End dei Doors, incisa da Nico un anno prima nell'omonimo disco.

La morte

Dopo circa cinquant'anni passati fra il lavoro di precoce modella, attrice, cantante e musicista, fra la tossicodipendenza e il continuo senso d'inquietudine,arriva la morte, e come la vita, è avvolta nel mistero: morì a Ibiza, nel 1988 per emorragia cerebrale, pare a seguito di una banale caduta con la bicicletta.

Commento di Gabriele Lunati

Nico è una figura tragica, controversa, sfuggente, una delle personalità più sconcertanti della storia del rock, bellissima, a tal punto da odiare lei stessa la propria bellezza e proiettare il suo fisico in un tunnel di autodistruzione che la rese più simile a un puzzle in procinto di disgregarsi in mille pezzi che a una musa o a una dea di un culto pagano suo malgrado vivo e profondo. Una donna sola, apolide per scelta, imperscrutabile, con un volto enigmatico da tragedia greca e il fascino ambiguo di una vita intensa. Ex modella, attrice principiante, musa della Factory di Andy Warhol, chanteuse dei Velvet Underground quindi artista solista e ancora attrice impegnata in pellicole non commerciali, è diventata un'icona tragica e silenziosa che non si annovera tra le leggende del rock perché ha vissuto buona parte della sua vita artistica lontano dai clamori e dal music business.Cinica, egoista, eroinomane, incompresa. La sua fu un'esistenza oscura sul precipizio di un abisso interiore e come la sua arte, anche la morte di Nico, sacerdotessa sepolcrale del rock, resterà per sempre avvolta nel mistero.
Il documentario termina con un’intervista ad una Nico che ipnotizza e provoca angoscia,  e l’ultima canzone, ”Femme Fatale”, scritta per lei da Lou Reed, assume la “forma del dolore” , e conduce verso una velata tristezza che rimane a lungo e induce a riflessioni...

...a me e’ capitato così.




Femme Fatale(Nico e Velvet Underground)


Here she comes
You'd better watch your step
She's going to break your heart in two
It's true

It's not hard to realise
Just look into her false colored eyes
She'll build you up just to put you down
What a clown!

Everybody knows
The things she does to please
She's just a little tease
See the way she walks
Hear the way she talks

You're put down in her book
And you are number 37, have a look!
She's going to smile to make you frown
What a clown!

Little boy, she's from the street
So before you start you're already beat
She's going to play you for a fool
You can see it's true

Everybody knows the things
The things she does to please
She's just... just a little tease.. oh, she is just..
See the way she walks
Do you hear the way she talks?

Everybody knows the things
The things she does to please
She's just... just a little tease.. oh, she is just..
Do you see the way she walks?
Do you hear the way she talks?

She sings.. la la la la la...

She's le femme fatale
(and she sings)
She's le femme fatale
(and she sings)
She's le femme fatale
(and she sings)
She's le femme fatale
(and she sings)
She sings...

mercoledì 18 luglio 2012

Periferia Del Mondo-"Perif3ria Del Mondo"


PERIF3RIA DEL MONDO è l’ultimo lavoro discografico della Periferia Del Mondo, band nata a Roma circa sedici anni fa, e quindi con una buna esperienza alle spalle e significative testimonianze sotto forma di album e progetti paralleli.
Le mie domande avevano lo scopo di capire qualcosa di più di un gruppo che avevo avuto l’opportunità di vedere in fase live alla Prog Exhibition del 2010, ma di cui non conoscevo il lavoro in studio, e mi pare che l’intervista a seguire sia un importante documento oggettivo che da solo racconta la sostanza della band e la sua evoluzione.
Undici brani che, unitamente all’art work, presentano un mondo musicale costruito sull’osservazione di ciò che ci circonda, e risulterà alla fine quasi banale la mia sottolineatura sul velato senso di tristezza che … si sente nell’aria, perché saper captare gli umori circostanti, unire le proprie esperienze  e trascrivere il tutto  in musica, in questi giorni così pieni di dubbi e di incertezze, è qualcosa che ha un alto peso specifico, nella forma e nella sostanza.
La proposta è variegata, e le liriche - una in inglese - si mischiano ai “viaggi strumentali - tre - dando il senso del racconto di una vita, una qualsiasi, perché ogni anima, potenzialmente, possiede storie interessanti, da captare e raccontare.
Mi riesce difficile individuare un genere preciso con cui  catalogare  la PDM, perché la loro musica è rappresentativa dell’eterogeneità musicale dei vari componenti; si passa dal progressive al rock un po’ più pesante, dal funky al jazz, dalla musica etnica a quella più intimistica, e la chiave di volta mi pare proprio il gioco di squadra, quel modo di pensare e di agire che è sulla bocca di tutti senza che venga mai applicato con i sacri crismi, e che in questo caso fa sì che i semi dei singoli membri siano messi a disposizione del progetto generale, senza chiedere ai talenti personali di restare un po’ nascosti, ma di emergere al momento giusto.
Alla fine ne esce fuori un lavoro quasi concettuale - nel senso dell’unione di intenti -che viene percepito dall’ascoltatore come una struttura molto omogenea e di impatto, e con un po’ di attenzione e sensibilità certi risvolti, magari meno afferrabili in fase live, diventano piccole perle da gustare in situazioni di maggior relax.

Anche quando si spengono le luci su di un giorno di quelli un po’ così, resta sempre una speranza, un raggio di sole. E’ come se fossimo fermi da sempre, insieme noi due aspettiamo la notte per poter vedere le luci all’orizzonte e poter amare il giorno quando nasce lento… quando nasce lento.”

Queste parole mi hanno toccato e mi hanno indotto ad iniziare “il mio viaggio”.
E’ anche questo il compito della musica e di chi la crea e propone… innescare un effetto domino che potrebbe dare grandi, enormi soddisfazioni!



L’INTERVISTA

Dal vostro esordio, nel 1996, molte cose sono cambiate. Riuscite a sintetizzare la vostra evoluzione musicale, dagli inizi all’album “Perif3ria del Mondo”?

Alessandro Papotto. Ciò che penso ci distingua dalla maggior parte degli altri gruppi, dove normalmente è uno solo o al massimo due dei componenti a comporre musica e testi, è il fatto che ognuno di noi arriva alle prove con idee per nuovi brani o per completare quelli in corso d’opera; inoltre, cosa non proprio comune, siamo tutti arrivati alla Periferia Del Mondo attraverso percorsi e influenze musicali molto diversificate. Spesso i gruppi si formano ricercando componenti che abbiano omogeneità di stile ed influenze, invece nel nostro caso è stato più un incontro tra amici vecchi e nuovi, uniti dalla voglia di indagare in libertà all’interno di tutti i generi musicali.
All’epoca l’unica cosa in comune tra noi cinque era il pensiero univoco sul significato del termine “Progressive Rock”: commistione di stili, ricerca di nuove sonorità, ed un pizzico di “spirito ribelle” sotto la pelle, quello spirito che ti permette di osare e garantire uno stile e un approccio diversi per ogni nuovo brano. Penso che questa linea comune sia particolarmente evidente nei nostri primi due dischi, dove peraltro le influenze del Progressive “storico” degli anni settanta, sono state sicuramente un terreno di incontro.
Poi con il terzo disco le cose sono un po’ cambiate ma non di molto: abbiamo cercato di alleggerire le strutture dei brani e allo stesso tempo di operare una cura ancora maggiore sugli arrangiamenti. Credo che questi saranno i termini compositivi anche per il prossimo disco.

Ascoltando il vostro album e leggendo unitamente  il booklet si nota una certa equità di composizione, una sorta di suddivisione del lavoro anche dal punto di vista delle idee base, fatto non comune. Atto di democrazia musicale o filosofia di lavoro ben precisa?

Giovanni Tommasi. Questo discorso completa ancora meglio la domanda precedente. Penso che ciò che distingue il terzo disco dai primi due, sia l’aver cercato, alla fine delle registrazioni, una sequenza ben precisa dei brani all’interno del disco, che trasmettesse una sorta di continuità.
Non penso ci sia stata una ricerca di continuità compositiva tra i vari brani ma di sicuro dopo più di dieci anni passati a suonare insieme, i nostri stili si sono mescolati, e sicuramente tutto è diventato più omogeneo.  

Osservando l’artwork di Davide Guidoni,  leggendo e ascoltando al contempo, ho provato una  sensazione di velata tristezza che prescinde dal messaggio scritto. Qual è l’umore che vi ha guidato in questo vostro lavoro?

Bruno Vegliante. Noi generalmente prendiamo l’ ispirazione da ciò che ci circonda, da un evento particolare, da una sensazione ricorrente. Il nostro tentativo è quello di collocare l’attualità nelle nostre composizioni, sia in modo esplicito all’interno delle liriche, sia a livello puramente espressivo per ciò che riguarda le parti musicali, attraverso la scelta dei suoni, l’intercedere delle diverse atmosfere, e con qualsiasi altro sistema si riveli efficace.
Penso quindi che la nostra musica rispecchi in parte il nostro modo di percepire la società che circonda. Una velata tristezza? Penso proprio di sì. Però penso che ci sia dell’altro: cerchiamo sempre di inserire mondi e sensazioni diverse nelle nostre composizioni, con la speranza che l’ascoltatore possa riconoscere quelle in cui più si rispecchia.
Inoltre abbiamo lasciato a Davide la totale libertà di esprimersi come voleva a livello grafico, limitandoci a scegliere tra le numerose opzioni che lui ci ha fornito.

Nel 2010 ero a Roma alla Prog Exhibition dove anche voi vi siete esibiti. Qual è il vostro ricordo di quei giorni?

Claudio Braico. E’ stata una festa bellissima dove abbiamo incontrato tanti amici vecchi e nuovi. Una festa con molta musica di qualità. I ricordi che affiorano sono le sensazioni provate all’ingresso sul palco. Aprire una serata così importante e con così tanto pubblico davanti ci ha dato una incredibile scarica di adrenalina, cosa che poi ha influito positivamente anche sul nostro concerto. Poi la gioia di esserci, di fare parte di una manifestazione internazionale con il meglio del rock progressivo, è stato meraviglioso.  

Qual è nella sostanza il beneficio maggiore che avete trovato lavorando con Franz e Iaia?

Tony Zito: La fiducia che ci hanno dimostrato, facendoci aprire la seconda serata di quel festival ci ha dato l’opportunità di farci conoscere ancora di più dal pubblico. Poi le pubblicazioni discografiche che hanno fatto girare ancora di più il nostro nome. Insomma l’amicizia con Franz e Iaia, la fiducia reciproca, e il lavoro svolto in maniera professionale, ci ha portato e sta continuando a portare dei grossi benefici in termini di visibilità.

Tra i tanti brani ce n’è uno cantato in inglese, “Synaesthesia”. In che modo è funzionale all’intero album?

Giovanni Tommasi. Ci piace molto scrivere canzoni in inglese sia per utilizzare una metrica che a volte risulta più efficace a livello musicale, sia per la possibilità  di “arrivare” ad un pubblico più vasto, cosa impensabile utilizzando la sola lingua italiana.
Diciamo che per ogni nuovo brano scegliamo ad istinto la lingua che pensiamo si adatti meglio al caso specifico. Casualmente nel nostro terzo disco c’è un solo brano in inglese, ma è possibile che nel quarto si verifichi l’esatto contrario.

Creare un nuovo lavoro, album libro o altro affine presuppone, anche, il rivivere parte di passato. Esiste un rammarico per qualche passo non compiuto per eccesso di cautela?

Alessandro Papotto. Rispondo con un pensiero che ci accomuna tutti e cinque: sia per quanto riguarda le scelte musicali, artistiche ed economiche del gruppo, sia per quanto riguarda la vita e i fatti personali di ciascuno di noi, che peraltro si ripercuotono inevitabilmente nelle cose che scriviamo: penso che possiamo aver commesso molti errori come tutti quanti, ma non esiste la sensazione del rammarico perché ogni nostra scelta è stata portata avanti con dignità e convinzione. Secondo me quando vivi in questo modo se ti accorgi che alcune scelte non sono state proprio felici non te la prendi nemmeno, perché l’errore è una crescita e fa parte della vita.

Che cosa rappresenta per voi la performance live?

Tony Zito. E’ il momento in cui ti interfacci direttamente con il pubblico e quindi puoi verificare le loro reazioni. E’ però anche una situazione diversa da quella in studio e quindi spesso c’è la necessità di suonare i brani in modo diverso.
Dal vivo cerchiamo di dare la precedenza ai brani che hanno avuto un migliore riscontro oppure a quelli che hanno una atmosfera energica, intercalandoli con brani più rilassanti per far scendere la tensione. Insomma si cerca di studiare una sequenza di brani che possa funzionare, dando anche al pubblico ciò che si aspetta da noi e, allo stesso tempo, suonando i brani più recenti, in modo di verificarne il risultato “sul campo” ed evitare di suonare per anni la stessa scaletta.
Mi piace pensare che dal vivo siamo un gruppo Rock, nel senso più semplice del termine. Una band che propone degli spettacoli rock con la grinta e la passione di chi ama la musica.

Che tipo di rapporto avete con le nuove tecnologie, applicate al vostro lavoro?

Bruno Vegliante. Ci piace suonare “con ogni mezzo necessario”. L’importante è che per noi abbia un senso e che il risultato sia per noi adeguato e soddisfacente.
In genere questo lo realizziamo con l’uso di tanti strumenti diversi, tanti timbri e sonorità differenti, ma tutto sommato, rimaniamo nell’ambito di tecnologie non particolarmente inusuali. L’uso del computer è assolutamente positivo per noi, soprattutto se ci rende più comodo il lavoro. Insomma posso dire che lo usiamo per suonare meglio ma sicuramente non per suonare meno.

Apriamo il libro dei desideri: cosa vorreste vi capitasse, musicalmente parlando, nei prossimi tre anni?

Claudio Braico. Quella che segue potrà sembrare la “Preghiera del buon vecchio rockettaro”: che la nostra musica “arrivi” alla portata di un pubblico sempre più vasto, che la stanchezza che comincia a farsi sentire (per l’età che purtroppo avanza) non ci faccia cedere in ambito compositivo, ma soprattutto che riesca a sopravvivere la passione con cui usualmente portiamo avanti il nostro lavoro.



 Un po’ di storia della band:




Line up

Claudio Braico - bass
Alessandro Papotto - vocals and woodwinds
Giovanni Tommasi - guitars
Bruno Vegliante - keyboards
Tony Zito - drums


Tracklist:

1) Periferia Del Mondo
2) Oceani
3) Suite Mediterranea
4) Chiaroscuro
5) Come un gabbiano
6) Alghe
7) Synaesthesia
8) Angeli Infranti
9) Cartolina per il Giappone
10) Piove sul mare

Bonus Track (Previously Unreleased):
Funkats

All songs are published by Aereostella