mercoledì 25 novembre 2009

Gianni Leone... ancora lui



Gianni Leone, di cui ho parlato diffusamente negli ultimi tempi, mi ha "regalato" un'enorme quantità di materiale che ritengo prezioso.
Prezioso perché attraverso le sue parole si rivivono eventi del passato che risultano unici, perché raccontati da chi li ha direttamente vissuti, per cui "sfrutto" la situazione favorevole, certo che le parole di Leo risultino interessanti per chi è interessato alla musica degli anni 70, e non solo.


Introduzione di Gianni Leone per il libro ”Racconti a 33 giri” di Riccardo Storti, Donato Zoppo e Paolo Carnelli

Scrivere o parlare degli anni '70 è sempre un'impresa impervia: si rischia di apparire dei nostalgici, se non addirittura dei reduci di un'epoca che non c'è più e che diventa ogni giorno che passa un po' più polverosa, un po' più velata di ragnatele. Ed io non amo sentirmi TROPPO legato al passato, impegnato come sono a vivere… il presente.
In realtà, noi - che abbiamo vissuto pienamente e gloriosamente quegli anni - siamo piuttosto dei sopravvissuti. Sopravvissuti a quelli che non ci sono più, a quelli che ci sono ancora ma è come se non ci fossero in quanto rifiutano il loro passato "scomodo" e lo rinnegano, oggi che magari sono dei distinti signori di mezza età con una “sana” reputazione da difendere e che perciò preferiscono sottacere i loro trascorsi al grido di ”sesso-droga-e-rock’n’roll!”. Siamo sopravvissuti alle droghe, quando usarle significava ancora poter fare un'esperienza creativa, allegra e di espansione della propria mente, non certo come le usano oggi, ridotte come sono a una sciagurata moda-di-massa-quindi-Dramma-Sociale (infatti il discorso “droga” lo considero del tutto anacronistico e non più interessante); agli eccessi di ogni genere; a ogni sorta di "gioco pericoloso"; ma anche agli scontri violenti con una società ostile e intollerante che rifiutava in blocco ogni spirito eversivo, nell' arte come nelle scelte di vita individuali. Purtroppo la situazione non è che sia cambiata poi molto, almeno per certi aspetti; anzi, sembra proprio che si stia andando sempre più verso una società di divieti, limitazioni della libertà individuale, regole e regolucce - spesso odiose e irrazionali - da non trasgredire, pena sanzioni severissime. E il rivoltante ed allarmante rigurgito di neomoralismo ipocrita degli ultimi anni, poi, dove lo mettiamo?!
Era dura dover sempre combattere, anche semplicemente per rimanere se stessi, per potersi esprimere con un linguaggio diverso dalla norma, per tentare di cambiare l'ordine prestabilito... Noi musicisti, che a quell'epoca avevamo già deciso da quale parte stare, artisticamente e culturalmente, avanzavamo a testa bassa, seppure fra mille difficoltà, verso il nostro obiettivo: rivoluzionare la musica, infrangere in mille pezzi quella prigione di perbenismo bigotto e imbalsamato che ci opprimeva. E noi musicisti italiani, in questo senso, eravamo più penalizzati di altri: tutto era un po’ più difficile, un po’ più distante, per noi.
C’era una dimensione nuova da inventare, qualcosa che prima non esisteva. Alcuni di noi volevano addirittura cambiare IL MONDO! Sì, lo ammetto: per un periodo credetti anch'io di poterlo fare, poiché tutta quell'energia dirompente che sentivo dentro, mista al senso di immortalità proprio di qualunque adolescente, creava una miscela davvero esplosiva. Facemmo di tutto per farci notare, per non passare inosservati, per farci SENTIRE, VEDERE, ASCOLTARE: provocazioni di ogni tipo nell'abbigliamento e nello stile di vita, nelle espressioni artistiche sperimentali e dissacranti, nell’approccio disinibito e spensierato con LE sessualità (l’AIDS era ancora un incubo inimmaginabile)... Niente poteva fermarci: eravamo stufi di dover sempre fare i conti con il nostro pesante fardello della tradizione melodica italiana (quando non addirittura di quella napoletana, come nel caso di noi Balletto di Bronzo) e con una scena musicale dominata da canzonette balneari. Ascoltavamo i primi dischi di artisti che la rivoluzione la stavano facendo davvero, come Jimi Hendrix, Frank Zappa. Poi arrivarono i King Crimson e tanti altri, e in questo modo trovavamo la forza per andare avanti, per non sentirci soli. Radio Luxembourg, la radio “pirata” per eccellenza, era per noi l’unica possibile fonte d’ascolto, l’unico aggancio con un mondo che allora potevamo solo immaginare. Tanti dischi, poi, non erano neanche pubblicati nel nostro Paese, per cui dovevo comprarli alla base NATO di Napoli, dove suonavo spesso.
Rassegnamoci: il Rock non è nato in Italia. Però noi abbiamo certamente, egregiamente, contribuito alla sua evoluzione.
In quegli anni si cominciarono ad organizzare raduni e festival "POP" a cui prendevano parte moltissimi gruppi, anche stranieri. Ci si incontrava regolarmente in queste occasioni per suonare, e noi tutti ci confrontavamo in un clima di sana rivalità. Come in occasione delle “leggendarie” jam sessions all’ Altro Mondo di Rimini, cui prendevano parte tutti i musicisti dei vari gruppi che si trovavano lì in quel momento, compreso chi scrive. Spesso capitava di incrociarci in qualche autogrill, magari di notte, mentre stanchi e assonnati (e non solo “assonnati”…) eravamo in viaggio per suonare chissà dove, e ci scambiavamo altre esperienze, altre idee. Quella musica "nuova" fu etichettata, chissà perché, "POP ITALIANO"; oggi la chiamano "PROGRESSIVE". Intanto intorno a noi continuavano ad impazzare le "Canzonissime" e i "Festivaldisanremo"…
Poi qualcuno fiutò il business: sempre più ragazzi accorrevano a quei raduni, sempre più energie creative erano coinvolte e liberate... La stessa società non era più così ostile e diffidente verso quei ragazzi “strani” (d’altronde ogni singolo essere umano è, in un modo o nell’altro, un “diverso”, mettiamocelo bene in testa). Si cominciarono a vedere in giro signori con smanie di giovanilismo e finanche giornalisti del Telegiornale istituzionale sfoggiare basettoni, zazzere fluenti sui colletti delle camicie e pantaloni -seppur moderatamente- a "zampa d'elefante" che ormai erano tranquillamente reperibili in qualunque boutique o grande magazzino (ma certamente io continuavo a farmeli fare dal sarto, con lamé e velluti da tappezzeria o addirittura utilizzando tende da salotto: a vita bassa, attillatissimi fino al ginocchio e scampanatissimi, anche oltre sessanta centimetri, in fondo).
Le Major cominciarono a proporre contratti e ingaggi, finché si arrivò ad una situazione -assolutamente impensabile OGGI - in cui tutti i gruppi, persino quelli meno importanti e originali, potevamo ottenere contratti quinquennali con una Casa Discografica. Ecco allora il proliferare di dischi su dischi, album dalle copertine più bizzarre e fantasiose. Noi del Balletto, per esempio, pubblicammo YS per la leggendaria etichetta Polydor, per di più in una veste grafica davvero sontuosa! Tutti i dischi recensiti in questo libro, infatti, risalgono proprio a quel periodo felice e fertile. Forse non ce ne rendevamo conto, ma in quel momento stavamo realmente cambiando qualcosa.
Tutto questo durò pochissimo: tre, quattro, forse cinque anni. Poi qualcosa s'incrinò, quell'equilibrio si ruppe. Ci furono gli anni della contestazione, per cui andare a un concerto significava ritrovarsi coinvolti in scontri con la Polizia, tra lacrimogeni e manganellate. Cosa si contestava? Il prezzo troppo alto dei biglietti (in realtà non lo era). Furono coniati gli slogan: "La musica è nostra e ce la prendiamo!”, “Musica libera! Musica gratis!”, “Duemila lire-duemila pernacchie!". Si toccò l'apice con il famigerato concerto di Lou Reed al Palasport di Roma il 15 febbraio 1975, in cui si videro scene di autentica, violentissima guerriglia urbana sia all'interno che all'esterno dell'edificio. Quella sera c'ero anch'io, naturalmente tra il pubblico pagante. Da quel momento si piombò in un lungo periodo di oscurantismo musicale poiché nessuno volle più organizzare concerti in Italia, anche perché gli artisti stranieri cominciarono ad evitare accuratamente di includere il nostro Paese nei loro tour mondiali. Poi arrivò la Discomusic e tanti validi musicisti si ritrovarono di colpo tagliati fuori. Chi partì per mete improbabili, chi si perse in un modo o nell'altro, chi rinunciò del tutto alla musica, chi semplicemente... si "adeguò".
Ma il sasso era stato lanciato, il seme piantato. Così, dopo trent'anni, rieccoci a parlare di quel periodo, di quella "rivoluzione", perché le vere rivoluzioni viaggiano all'infinito, superano i decenni, i secoli, cambiano l'abito ma non la sostanza, lasciano sempre una traccia del loro passaggio. Quei ragazzini che s’illudevano di cambiare il mondo, almeno qualcosa forse la cambiarono davvero… E quelle “ragnatele”, guardando bene, invece altro non sono che fili sottilissimi ma tenaci che legano indissolubilmente il passato il presente e il futuro di ognuno di noi.
Gianni Leone (2004)


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