Grande anteprima: il nuovo disco dei Jethro Tull
Premessa: a Riolo (concerto dei Tull) ho scoperto che evocare un evento, a volte, permette di vederlo realizzato... nella speranza che un pò di ironia possa essere cosa gradita.
Sono uno dei fortunati che ha avuto l’occasione di ascoltare in anteprima l'insperato, nuovo lavoro dei Jethro Tull e devo dire che mi sono enormemente sorpreso quando ho sfasciato il pacchetto appena arrivato con DHL e ho trovato un CD che non lasciava spazio all’immaginazione.
E’ stato in quel preciso momento che ho capito che finalmente ero arrivato, che il duro lavoro sostenuto negli anni finalmente pagava, che Ian si affidava a me per veicolare parte della pubblicità italiana.
Ma veniamo al sodo e cioè al mio giudizio “tecnico”.
Il disco suona come una ricerca approfondita e definitiva delle radici, con uno sguardo rivolto anche a chi era stato messo in un angolo e il pensiero di fondo è una sintesi tra rimpianto, nostalgia e piena consapevolezza che l’amicizia e gli affetti sono sentimenti prioritari.
Io lo definirei esattamente come una dimostrazione di saggezza tipica della maturità.
Non ho trovato un’estrema ricerca di originalità perché l’intento dichiarato è quello di rendere omaggio al passato e chiudere forse un ciclo, scivolando su quello successivo.
Ma l’operazione è di assoluta onestà e va nel senso dell’accontentare il pubblico desideroso del nuovo, attraverso un lavoro che mette a posto, forse definitivamente, le coscienze (ma sarebbe meglio dire “la coscienza").
C’è molto di italiano, dalla grafica all’ispirazione dei brani, e questo è assolutamente gratificante per la miriade di fan presenti nel nostro paese.
Partiamo dal titolo, “This is”.
Senza un’attenta lettura generale sembrerebbe un paradosso, se si pensa al “This Was” del 1968, ma il significato profondo è il “fare il punto della situazione”, per poi ripartire verso nuove esperienze e come è noto il progettare dà il senso dell’allungamento dello spazio temporale a disposizione.
Anche i titoli dei singoli brani sono volutamente una commistione tra vecchio e nuovo, ma, ripeto, non è un’operazione nostalgia.
La grafica, realizzata dai fratelli Cartocci (e questo è il primo tocco di italianità), rappresenta una caricatura di Ian e Martin... solo loro.
Idealmente, la copertina realizzata col solo cuore, avrebbe suggerito ad Anderson (me lo ha confidato lui) una specie di “Sgt. Pepper’s” beatlesiano, contenente tutti i membri presenti e passati, ma non essendo una soluzione soddisfacente dal punto di vista visuale (nei piccoli CD gli elementi si confonderebbero) la scelta è caduta sul fondatore, più il membro storico, entrambi sotto forma di caricatura, come a dettare una specie di autoridimensionamento e stabilire, almeno una volta, almeno a questo punto della vita, che i Jethro Tull sono stati e sono ancora il risultato di diverse componenti, tutte importanti.
I protagonisti in studio sono gli attuali componenti la band (Anderson, Barre, Perry, O’Hara e Goodier), sotto l’attenta regia dei tecnici dello studio Maya di Genova.
Eh sì, il disco è stato registrato in Italia!
E veniamo ai singoli brani, sette, di cui uno strumentale e uno dal vivo, registrato nel corso del tour italiano 2008.
Pur non essendo un concept album come tradizionalmente inteso, esiste un filo conduttore che permette di percorrere le tappe della carriera, dalla genesi ai giorni nostri e in questo senso lo si può considerare un album concettuale e quindi vicino alla tradizione della musica progressive.
Già il titolo regala il contenuto del brano, scritto subito dopo la Convention di Alessandria. Gli attriti passati sono messi da parte e Glenn Cornick e Ian Anderson si ritrovano prima del ritorno a casa. L’incontro è casuale. Glenn, martellato dal figlioletto alla ricerca di un souvenir, viene indirizzato in Piazza Pertini, a Milano, ed è lì che trova casualmente il vecchio compagno di viaggio, in un bar. Incontro commovente che lascia aperte nuove porte e nuove vie da percorrere.
L’amore per il blues fa da apripista e Ian si esibisce con la sola armonica che a tratti riporta agli sbuffanti treni tipici di alcuni spostamenti degli uomini di blues.
La sezione ritmica risulta potente e regolare, mentre O’Hara svolge un compitino di tutto riposo.
La voce di Anderson assomiglia a quella di un tempo, ma un’esibizione in “studio” non è rappresentativa di una condizione reale.
Altro tocco di italianità per l’unico brano strumentale che Ian ha definito un “brano strumentale italiano”.
Sgombriamo il campo da ogni equivoco, Tinkara Kovac non è italiana, ma di Capodistria. Ma il fatto nuovo è che per l’esecuzione di questa “perla” musicale sono stati utilizzati esclusivamente strumenti presi in prestito da amici italiani, a simboleggiare un legame molto forte tra il gruppo e i numerosi sostenitori di casa nostra.
Non è stato scritto, né detto (almeno a me) l’elenco degli strumenti e dei legittimi proprietari, ma qualche idea me la sono fatta... e la tengo nascosta.
Ian e Tinkara duettano al flauto e ai gioiosi trilli del primo fanno eco note strazianti e melodiche della Kovac, e l’immagine del lamento si materializza.
Non c’é rock, in nessuna forma conosciuta, ma solo un dialogo commovente tra Giulietta e Romeo, tra Paolo e Francesca, tra Ian e Tinkara.
Grande abilità da parte dei due flautisti nel fissare, attraverso la musica, dejà vu di ogni comune mortale.
Martin Barre resta in sottofondo, ma il suo gusto musicale ancora una volta emerge.
3)Brown as a Brick (7.21)
È il brano più lungo, una specie di mini-suite dove l’acustico si sposa all’elettrico.
La voce manipolata è quella dei giorni migliori e i repentini passaggi dagli arpeggi di Martin alle divagazioni quasi violente del flauto di Ian, riportano all’atmosfera di “My God”, brano per me simbolo dell’intero universo musicale.
Doane Perry sugli scudi con qualche inusuale tempo dispari in puro stile prog.
Il testo è toccante. Sono i giorni in cui l’insoddisfazione è palpabile e il successo di pubblico e vendite è sminuito da i giudizi di certa critica.
Fu in quel periodo che Ian, immerso nel suo verde scozzese, davanti allo sterco appena prodotto dalle mucche al pascolo, fu accecato dall’immagine di quei giornalisti e critici che mettevano in discussione il suo lavoro e “d’abord” li associò a ciò che aveva davanti, pensando ad alta voce:
“... sono marroni, marroni come un mattone!”.
4)Outside ( 3.56)
Brano intimistico con Anderson che rinnova il proprio amore per il mandolino.
La sterminata produzione di quarant'anni presenta un ampio spettro di sfaccettature, ma il tulliano DOC caratterizza “la sua musica” come sintesi di voce ineguagliabile, flauto irraggiungibile e predominanza di base acustica, sia essa fornita da una chitarra, un mandolino o un ukulele.
Le atmosfere di questo brano ci riportano alla campagna scozzese e a un mondo antico, ma ancora vivo. Il testo riporta ai giorni della scuola e agli amici di un tempo, quando la musica diventava di fatto la priorità della giornata (e in prospettiva della vita) e il divagare con la mente durante le ore di scuola si trasformava in un problema che induceva la teacher di turno ad una simbolica “spinta outside”, nel cortile antistante, a “rinfrescarsi le idee”.
Il primo grande quesito della vita:” Cosa voglio fare da grande?”
Il migliore pezzo del disco. Grande curiosità di sentirlo dal vivo.
5) Nothing is Busy (4.06)
Ian ricorda il periodo del massimo splendore, quando le porte gli si aprivano davanti senza alcuno sforzo, e non esisteva un ristorante, un aereo, un cinema, a cui lui fosse precluso il posto migliore.
Per lui “niente era occupato”.
E la sfrontatezza di quei giorni, l’utilizzo distorto della propria immagine sono ora, a distanza di tempo, motivo di dolore.
Il ricordo di Ian cade ancora sul nostro paese, quando in chissà quale cittadina nascosta, in un dopo concerto come tanti altri, entrando nella trattoria più vicina al palco su cui si era esibito, una donna molto anziana, su suggerimento del nipote presente al concerto, cercò con fatica estrema di sollevarsi per lasciare spazio a lui e alla band. In quel momento scattò una molla e si materializzò in lui il concetto di “privilegio” ingiustificato.
A distanza di anni il viso di quella vecchina non lo ha abbandonato e a lei è dedicato il brano.
Colpo da maestro di O’Hara che tesse una trama nostalgica che diventa protagonista nell’ultima parte del brano, quando incalza incessante un riff di poche note che colpisce al primo ascolto.
Assoluta novità.
Il brano è scritto da Martin Barre e prende spunto dal cambio della guardia che lo vide protagonista come successore di Mick Abrahams. Per la prima volta emerge il dramma di quei giorni fatti di difficoltà personali, quasi adolescenziali, quando una profonda crisi di identità schiacciò psicologicamente il primo chitarrista del gruppo, in bilico tra due differenti amori e giudicato dai genitori “troppo vecchio (ormai) per giocare (seriamente) a calcio, e troppo giovane per intraprendere la pericolosa strada del rock". Un dramma quotidiano, di tutti, ma con risvolti importanti, sfociati con la decisione di Mick di lasciare i Tull per riflettere adeguatamente.
Martin fu in qualche modo testimone di un dramma personale, poi superato con la maturità e con questo pezzo intende ringraziare Mike (e forse Dio) per aver trovato fortunosamente la corretta via da seguire. Il sottolineare l’importanza del “trovarsi al posto giusto al momento giusto “, è un po’ il vero significato di questo toccante testo di Barre.
Le sfumature delicate di questo pensiero contrastano col rock duro, apparentemente inadeguato alle riflessioni proposte, ma il malessere interiore di Mike, che rappresenta quello di tutti gli esseri umani, diventa un pugno sullo stomaco che sfocia nella richiesta di aiuto verso la nostra primaria fonte educativa: la famiglia.
7)Bucarest ( 5.45)
Epilogo dell’album con l’annunciato brano live, registrato lo scorso anno all’Arcimboldi di Milano.
Inutile evidenziare cosa accadde prima della performance. Ma non è questo che Ian vuole ricordare.
Nel backstage, il gruppo si era isolato, cercando di evitare ogni sorta di condizionamento.
Ian, nel suo camerino, aveva aperto il pc portatile ed era entrato in una delle tante chat che popolano il web.
Fu colpito da una giovane donna di Bucarest, all’ultimo anno di conservatorio, diplomanda in dulcimer e autoharp, scossa da problemi familiari e decisa a non terminare gli studi.
Ian, sensibile al richiamo musicale, prese a cuore il caso e promise alla giovane donna un posto attivo sul palco, in caso di conseguimento del diploma.
L’esito è ancora incerto, ma il testo lascia spazio alla speranza.
Brano finale pirotecnico, con largo spazio a tutti i musicisti e grande sfoggio di tecnica e virtuosismi.
Un disco che soddisfa tutti, un lavoro di mazza e cucito, di
tinte forti e sfumature tenui, un album arrivato dopo anni di attesa, un lavoro
che non delude e che rappresenta l’energia assoluta di una band senza fine.
Qualcuno mi ha posto la fatidica domanda, tra lo speranzoso e il preoccupato:” .. ma secondo te, per quanto tempo potremo gustarci i Jethro Tull?” “Tanto... tanto tempo!"
1 commento:
Ma è uscito? se non, quando uscirà??
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