Le immagini del concerto, così come i video, sono forniti da Marco Gozzi
“Parlare di musica è come ballare di architettura”,
diceva il saggio!
Il racconto degli eventi a cui partecipo fa parte della mia concezione di performance totale, e questo accade da molti anni, indipendentemente
dalla “grandezza” di chi ho davanti… il mio modo di operare tende al democratico…
Del commento fanno parte elementi oggettivi (video, immagini,
set list ecc.) a cui si aggiunge un pensiero personale che unisce qualche
competenza alla somma di emozioni sollecitate dalla musica. Certo è che la
storia pregressa può pesare notevolmente.
Come spesso vado dicendo, un concerto può nascere nella testa
mesi prima, con un’ansia positiva che si incrementa mano a mano che
l’appuntamento si avvicina, sino ad arrivare alla “festa” finale, con
l’eccitazione che prosegue per svariati giorni.
Quello che proverò a descrivere a seguire sfugge da ogni
possibile regola, a causa del mio totale coinvolgimento legato ad un elemento
storico che ha fatto sì che l’asticella delle mie aspettative si alzasse a
dismisura, cosa poco razionale ma credo comprensibile e provo a spiegare il
perché.
Partiamo dal titolone: concerto dei Van der Graaf Generator, Teatro Politeama di Genova, 2 maggio
2022.
Quando un paio di anni fa si presentò l’occasione di rivedere
i VdGG non ci pensai su due volte e prenotai il biglietto che indirizzava alla
data del 5 aprile 2020. Cosa è accaduto da quel momento è roba nota, e la
possibilità di perdere per sempre l’occasione si è trasformata col passare dei
mesi in quasi certezza.
E quando meno te lo aspetti spunta una nuova data, proprio nel mese di maggio, proprio nel 2022… sembrava che qualcosa stesse spingendo per arrivare alla celebrazione di quell’anniversario che in ogni caso avrei ricordato, il mezzo secolo esatto dal mio primo concerto (era il 30 maggio del 1972) quando, nello splendore dei miei sedici anni, vidi proprio i VdGG, sempre a Genova, seppur in differente location (Teatro Alcione).
Ricordo molto dell’atmosfera di quel giorno, a partire dalla
modalità - furbesca e un po' ingannevole - che mi portò a convincere mia madre a darmi le 2000 lire necessarie
per biglietto e treno (Savona-Genova-Savona); e poi il viaggio, l’attesa, la
biglietteria, i profumi, la compagnia (molti di quegli ex ragazzi li ho
ritrovati anche in questa occasione) … tutto in funzione di quel magico e
indimenticabile pomeriggio.
L’immagine musicale più concreta riguarda l’inizio, un Peter
Hammill solo sul palco che arpeggia la sua chitarra acustica e propone “Lemmings”,
l’unico brano di quel giorno che ho ritrovato in questa occasione, seppur
trasformato.
Parto dalla fine e, per una volta, raccolgo anche il parere
dei tanti appassionati/esperti da cui ho captato i giudizi.
Tutti entusiasti, tutti molto caldi e partecipativi e tutti
concordi sulla bellezza estetica della performance. Certo… dopo tanto digiuno…
tanta manna!
Ma a me non è bastato, chiedevo troppo nell’occasione,
chiaramente l’impossibile, perché il mio inconscio suggeriva un replay del
passato, un ritorno alla gioventù e alla spensieratezza, un’altra vita da
vivere!
Tutto questo, con la musica, c’entra davvero poco, me ne
rendo conto, ma esistono stati d’animo che non si possono soffocare.
Provo invece a fornire qualche indicazione mirata, più
professionale.
A differenza di molti altri gruppi coevi, riunitisi again nel
nuovo millennio, i VdGG possono contare sui ¾ della formazione di inizio seventies (quella che vidi tre volte in quegli anni), il che non è banale dal momento
che è ormai routine spendere il nome di una band conosciuta costituita da un
solo membro originario contorniato da sconosciuti, seppur bravi.
Tutto ciò dovrebbe essere garanzia di continuità.
In questo caso è presente il driver Peter Hammill, il genio,
il frontman, il compositore, l’uomo dalla voce unica, per tonalità ed
estensione. Nell’occasione è apparso in gran forma, anche se i bene informati
riportano dell’esistenza di un ampio set (40 brani) dal quale Hammill pesca, di sera in sera, a seconda dello stato di forma della sua voce.
La sua conoscenza di un po' di italiano è risultata alla fine
un mezzo efficacie per stabilire un ulteriore contatto con l’audience.
Hugh Banton è un musicista molto preparato, con precise
conoscenze di elettronica applicata alla tradizione tastieristica; inoltre,
spetta a lui il compito di compensare la mancanza del basso.
Anche Guy Evans è un maestro delle applicazioni alle sue
percussioni, e possiede qualcosa che molti, di lui più titolati, non hanno, ovvero un drumming
caratterizzante, riconoscibile in mezzo ad altri cento.
Questa line up si è dimostrata garante della qualità
dell’evento e alla fine questi tre signori, la cui età si aggira mediamente sui
settantacinque anni, hanno regalato lo spettacolo che tutti si aspettavano: le
atmosfere dark, le vocalizzazioni estreme, le trame sonore complicatissime, la
sollecitazione della memoria… tutto secondo copione, tutto fatto molto bene.
Ma io, ad ogni passaggio, sentivo la mancanza di uno dei muri
portanti, di un pilastro, di una tessera del mosaico che, pur essendo a portata
di mano, non si potrà mai più usare. Mi riferisco ovviamente a David Jackson,
ma non necessariamente a lui, giacché di bravi sassofonisti è pieno il mondo, e
sostituire le parti di fiati con un surrogato non significa peggiorare il
pregresso, semplicemente fare una cosa diversa, e in tal senso non potrei
muovere nessuna critica, anche se in questo caso preferisco la tradizione.
La set lista scelta per la serata è risultata abbastanza varia se si fa riferimento alla disposizione temporale. Vediamola con qualche nota che ci permette di avere un po' di statistica e il periodo di riferimento, con un grazie per l’aiuto a Mauro Costa:
Interference
Patterns-dall’album “Trisector”, del 2008
Every Bloody
Emperor- dall’album “Present”, del 2005
(In The)
Black Room-dall’album “Chameleon in the Shadow of the Night” il
secondo album solista di Peter Hammill, del 1973
Lemmings-dall’album
“Pawn Hearts”, del 1971
Lifetime-dall’album
“Trisector”, del 2008
Alfa Berlina -
dall’album “Do Not Disturb”, del 2016
Childlike
Faith in Childhood's-dall’album “End-Still Life”, del
1976
Your Time
Starts Now-dall’album “A Grounding in Numbers”, del 2011
Room 1210-
dall’album “Do Not Disturb”, del 2016
Scorched Earth-dall’album “Godbluff”, del1975
BIS
Still Life-dall’album
“Still Life”, del 1976
Per completare l’informazione aggiungo il video di un paio di
brani (i primi due), concessi gentilmente, assieme a qualche immagine, da Marco
Gozzi.
Alla fine, tutto bene, vedo il sorriso sul volto dei più
giovani - pochissimi - e la soddisfazione che non può nascondersi tra le facce
più collaudate… probabilmente sono l’unico che si aspettava di più, e l’essere
in minoranza mi porta a dire che devo ancora riflettere su ciò che mi è appena
passato tra le mani e provare a metabolizzarlo.
In fondo lo scopo della musica è quello di regalare
benessere, spirituale e fisico, e usando questo termometro posso dire di essere
stato molto meglio in altre occasioni, non necessariamente il 30 maggio del
1972!
Certo che a Peter Hammill qualcuno poteva ricordarglielo che quello non era, nemmeno per lui, un concerto qualsiasi!