giovedì 29 luglio 2021

Fabrizio Poggi & Enrico Pesce: "hope"


Fear can hold you prisoner, hope can set you free


È questa la frase in rilievo - tratta dal film “Le ali della libertà” - che colpisce una volta aperto il booklet di “hope”, l’album numero 24 di Fabrizio Poggi, in questa occasione realizzato in coppia con Enrico Pesce, una collaborazione che si distacca da quanto accaduto in passato e che privilegia la proposizione acustica ed intimistica.

Fabrizio Poggi significa blues, America, armonica, contatto con il pubblico e dialogo come focus di ogni esibizione. E aggiungo… voce perfetta per il genere.

Su queste pagine ho più volte scritto dei suoi lavori musicali e non, commentando alcuni live di cui sono stato testimone.

L’acquese Enrico Pesce è compositore, concertista, regista, direttore artistico e docente musicale.

Due storie, due culture, due percorsi che si incontrano per trovare una sintesi che produce nobiltà sonora, un superamento dei generi e delle etichette a favore della qualità assoluta utilizzata per dare corpo ad un messaggio di peso, rinforzato da ospiti prestigiosi e utilizzando saldi binari su cui viaggiano un’armonica che si adagia sulle note del pianoforte, i due strumenti principi del progetto.

Ma forse l’immagine dei binari non è la migliore possibile - se si esclude l’idea di viaggio - perché presuppone una distanza tra gli elementi, distinzione che in realtà non si avverte in nessuna parte del disco.

Ogni volta che mi avvicino ad un nuovo progetto scaturiscono idee e pensieri che mi riportano ad episodi vissuti, frammenti di memoria che mi permettono di dare una mia interpretazione, magari lontana… molto lontana dal pensiero di chi ha creato; in questo caso ha pesato il titolo e la lettura introduttiva di “hope”, quella in cui la “speranza” degli autori diventa l’elemento di cui tutti abbiamo enorme bisogno in questo momento così complicato, da cui spesso sembra impossibile uscire; facile ritornare ad un vecchio brano di successo del 1980, per molto tempo da me male interpretato, ma ora chiarissimo.

Questa la fotografia: un uomo, un pittore, davanti ad una tela vuota che aspetta di essere riempita (ma potrebbe essere un foglio su cui scrivere una canzone, o una poesia… un obiettivo da raggiungere).

L’idea è quella che nel nostro percorso di vita sia necessario lasciarsi andare, sognare senza sosta, sfruttando un possibile vento propizio che ci potrà spingere nella nostra navigazione.

Continuando a sognare e avendo dalla nostra un po’ di fortuna (il vento favorevole), si compirà il miracolo e la tela da pittore si riempirà prendendo, forse, una forma inaspettata, basterà solo avere la pazienza di attendere e qualcosa di magico accadrà.

Nella mia rivisitazione del pensiero di Poggi e Pesce la speranza si miscela alla fede - religiosa o laica - e la loro musica diventa magia pura.



Proverò a ripercorrere i vari episodi che caratterizzano l’album, tutti ascoltabili cliccando sul titolo.

Il brano di apertura, inedito, è “Every Life Matters” , una potenziale hit in quanto di immediata presa.

Ogni vita è importante, un’affermazione quasi banale ma che troviamo calpestata quotidianamente. Concetti sui cui tutti a parole concordano ma che non trovano un giusto corrispettivo nelle azioni.

Ma cosa può fare una canzone per migliorare la situazione? Dilemma di sempre!

Si può racchiudere un’anima tra quattro mura e la si può anche incatenare, ma non si può arrestare la forza della musica, e la canzone si libererà da ogni vincolo e volerà per sempre, in ogni luogo.

Magnifico duetto tra Poggi - creatore della lirica - e Pesce - autore della musica - con la nobile presenza vocale di Sharon White - da venti anni back vocalist di Eric Clapton - che contribuisce nel rendere il pezzo una sorta di manifesto che possa sottolineare l’impegno per i diritti civili.

A seguire “Leave Me to Singthe Blues.

Il blues utilizzato come denuncia e al contempo come attenuazione dei dolori della vita.

Chiosa Fabrizio: “È una rilettura in chiave blues e jazz di una celebre aria del Settecento che si avvale di un’inedita scrittura pianistica di Enrico Pesce. Con l’aggiunta di nuove liriche il brano si è trasformato in un antico canto di libertà dalla schiavitù…”

Voce roca, pianoforte virtuoso e armonica lancinante… sono questi gli ingredienti di una canzone coinvolgente che riporta alla memoria momenti già vissuti, reali o virtuali.



Hard Times (come again no more)”  nonostante la sua freschezza e attualità, è stata scritta a metà dell’Ottocento dal padre della musica americana, Stephen Foster, ed è anche una delle prime ad essere stata incise con il fonografo a cilindro nel 1905.

Un grido di dolore, un monito, una speranza, quella che i tempi difficili possano sparire e non tornare più.

La delicatezza del topic richiede il giusto intimismo che emerge dal minimalismo musicale proposto dai due autori.

Motherlesschild” (o Sometimes I feel like a motherless child)   è un pezzo tradizionale che risale al periodo della schiavitù americana e fornisce l’immagine tragica del dolore più forte, quello della separazione forzata di un bimbo dai genitori, così come quello di un uomo dalla sua terra: tempi che cambiano ma problemi che restano. Ma la descrizione della tragedia non impedisce la visione di una luce, seppur lontana.

Brano blues/jazz che esalta il virtuosismo di Enrico Pesce e permette l’entrata in scena della splendida voce di Emilia Zamuner, giovane cantante jazz napoletana: un calarsi profondo nei locali musicali statunitensi, dove suonare, ascoltare e lenire le pene diventa un tutt’uno.

Goin’down the road feelin’ bad”  è un altro traditional che “sembra che fosse cantato sia dai poveri mezzadri bianchi che dai prigionieri neri incarcerati ingiustamente nelle famigerate galere del Sud”.

Forse basterebbe la musica per emozionare, perché il lamento dell’armonica accompagnato da un semplice giro di pianoforte spinge verso attimi evocativi.

Altro esempio di meraviglioso minimalismo e di facile accesso verso le complicazioni che a volte ci riserva il mondo della musica.

My story”, due minuti di pura suggestione, una creazione del 2005 di Enrico Pesce, colonna sonora di un suo antico cortometraggio: un viaggio, sognando ad occhi aperti, abbattendo ogni tipo di barriera e ortodossia.

Quanto è importante il testo in una canzone? 

I’m leavin’ home”  rappresenta al contempo titolo e lirica, e ascoltando il magnifico tappeto tastieristico rappresentato dal fraseggio ininterrotto del pianoforte si potrebbe pensare di avere al cospetto una prateria su cui correre con estrema libertà verbale, spargendo i pensieri in ogni dove.

Ma la forza del sonetto conciso è condita dallo stesso ermetismo dell’ungarettiano “Mi illumino di immenso”, concetto in cui ognuno può riconoscere il significato che ritiene più appropriato.

Dice a proposito Poggi: “Per scriverla mi sono ispirato al “ring shout”. Si tratta di una danza cantata di origine africana che gli schiavi eseguivano per ore sino allo sfinimento. Un rituale segreto, estatico e trascendente in cui i partecipanti si muovevano in cerchio, trascinando e battendo piedi e mani come fossero antichi tamburi. È nel “ring shout” che si trovano le radici del blues e del jazz. È una sorta di “mantra” meditativo in cui la ripetizione di una parola o di un verso diventa uno strumento così potente da riuscire ad elevare e guarire ogni spirito.”

Segnalo un nuovo intervento di Sharon White.

The house of the rising sun”  è un’altra canzone tradizionale di cui non si conosce l’autore, anche se la versione di maggior successo fu quella dei The Animals, nel ’64.

Originariamente “The rising sun blues”, rappresentava il bridge tra i bordelli di New Orleans e le case di tolleranza della Napoli degli Anni Venti del Novecento. In quei luoghi di perdizione e svago, era facile trovare grandi musicisti e artisti creativi, magari destinati a restare nel pieno oblio, nonostante le loro qualità.

Questa versione, una delle tante esistenti, appare lontana dalla facile canzonetta coverizzata da miriadi di band ad azione locale, perché il sottofondo jazz e blues le conferiscono nuovo volto e nobiltà.

I shall not walk alone”  è una canzone di Ben Harper, riproposta più volte live da Fabrizio con i Blind Boys of Alabama: ancora voce, piano e armonica per un testo che, accompagnato dalla giusta atmosfera, produce un marcato spleen…

Per entrare nel cuore di “Nobody knows the trouble I’ve seen” occorre l’aiuto di Fabrizio: “La canzone è stata pubblicata per la prima volta nel 1867 ma secondo gli studiosi è stata creata dagli schiavi almeno cent’anni prima e nessuno sapeva davvero le tribolazioni che dovette passare e vedere con i propri occhi il popolo afroamericano piegato a raccogliere cotone negli sterminati campi del sud degli States…”.

Un blues “ortodosso” che vede il rimbalzo continuo tra voce e armonica, mentre l’arpeggio di Pesce rompe gli schemi, quella rigidità cara a chi pensa che il genere sia proponibile in un solo modo possibile.

La chiusura, così come l’apertura, presenta una canzone scritta dal duo Poggi/Pesce, dal titolo “Song of hope”.

La speranza, quella che ha ispirato l’album in ogni sua parte e che è il fulcro del brano, rappresenta la degna chiusura del concept album.

La musica come veicolo per alleggerire ogni peso… la musica come benessere fisico e spirituale… la musica come aggregazione e unificazione del modo di essere… la musica come concetto di rottura di ogni tipo di barriera.

Un ascolto liberatorio, se si è un minimo virtuosi!

Davvero un gran lavoro quello proposto da Fabrizio Poggi e Enrico Pesce, un linguaggio che si nutre di ingredienti consolidati e conosciuti, la cui miscela, però, produce novità e superamento di ogni aspettativa, una fuga da quell’immagine che in modo naturale segue l’artista e lo codifica a vita.

E poi esiste la musica universale, quella che mette tutti d’accordo!

 

TRACKLIST: 

1 Every life matters (Fabrizio Poggi – Enrico Pesce)

2 Leave me to sing the blues (Fabrizio Poggi – Enrico Pesce)

3 Hard times (Stephen Foster)

4 Motherless child (traditional)

5 Goin’ down the road feelin’ bad (traditional)

6 My story (Enrico Pesce)

7 I’m leavin’ home (Fabrizio Poggi)

8 The house of the rising sun (traditional)

9 I shall not walk alone (Ben Harper)

10 Nobody knows the trouble I’ve seen (traditional)

11 Song of hope (Fabrizio Poggi – Enrico Pesce)

 

LINEUP:

Fabrizio Poggi vocals, harmonica

Enrico Pesce piano 

with

Sharon White vocals on “Every life matters” and “I’m leavin’ home”

Emilia Zamuner vocals on “Motherless child”

Hubert Dorigatti guitar

Jacopo Cipolla upright and electric bass

Marialuisa Berto percussion

Giacomo Pisani percussion

 

Arranged by Enrico Pesce

Recorded, mixed and mastered by Giuseppe Andrea Parisi

Produced by Fabrizio Poggi with Enrico Pesce, Giuseppe Andrea Parisi, Angelina Megassini

Logistics and organization Angelina Megassini 

Front cover picture and art: Mauro Negri

Graphics: Manuela Huber

Fabrizio Poggi plays Hohner Harmonicas

Fabrizio Poggi wears The Blues Foundation hat

in loving memory of Jean Franco Formiga (1999 – 2021)