martedì 26 aprile 2011

"Clapton is God"


Pochi giorni fa, esattamente il 30 marzo, Eric Clapton ha compiuto 66 anni. Sono un po’ in ritardo negli auguri, ma mi era “passata” davanti la data e non l’avevo afferrata, ma ogni occasione è buona per esaltare i miei miti musicali. Lo ricordo con un post di qualche mese fa, quando avevo commentato la sua autobiografia.
Ho appena terminato di leggere la l’autobiografia di Eric Clapton, pubblicata tre anni fa.
Mi intrigano le vicende dei musicisti che seguo da una vita, e mi piace saperne di più sugli aspetti più “neri”, che un tempo si potevano solo intuire, ma oggi sono alla portata di tutti.
Si apprende di un determinato episodio e si va si youtube alla ricerca dell’evento, o del periodo relativo, e si cercano conferme, ad esempio, del particolare stato di forma dell’artista.
La correlazione tra mito musicale e prezzo pagato per diventare tale, porta a chiedersi:” Ma ne valeva la pena? Non era meglio essere un comune cittadino?”
La vita di Eric, o di qualunque altro artista del suo calibro, non può essere contenuta in un libro.
Un uomo che passa lustri in giro per il mondo, potrebbero scriverne dieci, di libri. Clapton forse … cento.
E’ un intreccio di esperienze, di conoscenze, di disavventure, di morti e nascite che sembrerebbero il sunto di più vite vissute.
Emerge il ritratto di un uomo tutto sommato sfortunato e questo giudizio, probabilmente non condivisibile, è legato alla mia convinzione che ci sia uno stretto legame tra normalità e serenità, ma e ovvio che esiste chi è più incline al “giorno da leone, piuttosto che…”, come è altrettanto sicuro che certe cose non si scelgono, ma si rimane coinvolti, magari molto giovani, e uscire dall’ingranaggio è impossibile, ammesso che si comprenda la situazione di grande pericolo. Come avrebbe potuto pensare Eric Clapton, a vent’anni, quando i muri di Londra erano pieni zeppi di “Clapton is God”, che la musica sarebbe stata solo un mezzo per alleviare le sue sofferenze, che da lì a poco sarebbero diventate la costante dei successivi venti anni?!
Un confortante luogo comune ci indica che la vita incomincia a quarant’anni, e nel caso di Clapton è un dogma con una piccola correzione …”ricomincia a quarant’anni”.
E’ quello il momento che coincide con la sobrietà, e con la consapevolezza che la normalità di una famiglia e l’aiuto verso il prossimo danno dignità a un’esistenza per lungo tempo “bruciata”.
Ora Eric ha una moglie con cui cresce le sue figlie, nella sua casa di sempre, ed è in grado di apprezzare le piccole cose, come la caccia e la pesca, ma soprattutto la contemplazione della sua famiglia, finalmente un vero rifugio. Ed è bello poltrire, ed è sempre più faticoso girare in tour, lontano dai veri affetti.
E’ una storia di amicizie, di amori e forti dolori.
Si delinea la figura di un uomo ombroso, innamorato di sé e incapace di coltivare un rapporto con una donna, toccato dalla più grande disavventura che si possa patire, la perdita di un figlio.
Preso da forti passioni, quei fermenti che lo porteranno a strappare Patti a George Harrison, troverà rifugio dai disagi infantili nelle sue dipendenze, che condizioneranno tutta la sua storia.
La seconda parte del libro, quella in cui si descrive il recupero, diventa quasi una mera cronologia di eventi, con la descrizione di dettagli apparentemente inutili, ma si può immaginare con quale gioia e con quale trasporto Clapton abbia voluto soffermarsi su ciò che un tempo non avrebbe mai apprezzato e che ora diventa la base della sua vita futura.
L’immagine finale lascia tuttavia un po’ di amaro in bocca, e quella particolare età che normalmente diventa un problema per molti, sessantadue anni, per lui , con alle spalle una vita vissuta sempre al limite, appare presentare un conto salato. Eric si descrive infatti come “pesante” e fuori forma, quasi completamente sordo, incapace di dormire se lontano da casa, insofferente al di fuori del suo habitat naturale.
Ma come lui stesso indica con amarezza la sua priorità non è la famiglia, come sarebbe lecito aspettarsi, ma la sua sobrietà, perché senza quella non ci sarebbero i presupposti per proseguire a vivere la sua seconda vita, quella che prevede i binari della normalità e dell’aiuto verso il prossimo.
Chissà se riusciremo ancora a godere della sua musica dal vivo?!

Per ricordare il periodo ho riesumato un articolo di Gianni Lucini.


The Rainbow, Londra, 13 gennaio 1973

All’inizio degli anni 70, le sparizioni improvvise delle rockstar non erano più una novità. Bob Dylan sfruttò un incidente motociclistico come pretesto per tre anni di assenza dalle scene fra il 1966 e il 1969. I Beatles sfuggirono alle pressioni della celebrità post Sgt Peppers per ritirarsi in un eremo alle pendici dell’Himalaya con il Maharishi. Ma la fuga dalla notorietà che Eric Clapton si era imposto era sfociata nell’incubo di una tossicodipendenza che minacciava di distruggergli non solo la carriera ma anche l’esistenza. “Entrare nel buio fu una necessità”, avrebbe spiegato tempo dopo.
L’amico chitarrista dei Who, Pete Townshend, molto colpito dalle recenti morti di Brian Jones e Jimi Hendrix, si rese ben presto conto della piega che stava prendendo la situazione e lo stesso fece Lord Harlech, padre di Alice Ormsby Gore, all’epoca fidanzata di Clapton. Insieme i due elaborarono un piano per far si che “Dio” ritornasse al lavoro.
Dopo una settimana di prove nella casa di Ron Wood a Hampton Court, Eric Clapton si presentò sul palco del Rainbow di Londra insieme a uno strepitoso cast di accompagnatori fra cui Jim Capaldi, Steve Winwood, Ric Grech e Reebop, oltre naturalmente a Townshend e Wood. Anche fra il pubblico spiccavano volti noti come quelli di Paul e Linda McCartney, Elton John, Joe Cocker e Jimmy Page, ansiosi come gli altri 2000 spettatori di rivedere all’opera il guru della chitarra.
Date le precarie condizioni del protagonista della serata, sempre sul punto di dare forfait, venne deciso di battezzare l’improvvisato gruppo di musicisti con il nome di “ Palpitation”. E le palpitazioni ci furono davvero, visto che Clapton si presentò in teatro pochi secondi prima di andare in scena. Barbuto e appesantito rispetto all’ultima apparizione in pubblico, il chitarrista esordì sulle note di “Layla” e a quel punto tutti cominciarono a rilassarsi.
Fu un concerto storico ma non strepitoso, come riconobbe anche l’interessato, che lo avrebbe poi definito “molto sotto alla media”.
L’abbondanza di chitarre sul palco appiattì un po’ le parti strumentali di Clapton, mentre minori attenzioni ricevette la voce, divenuta più calda e sommessa.
In quel momento la cosa più importante era averlo recuperato alla musica.

Tratto dal libro “I was there-Gigs that changed the world”, di Mark Paytress



Un nuovo Eric Clapton