Pubblico con piacere un articolo di Innocenzo Alfano
Cari Beatles, dal vivo
non ci siamo
Mi sono spesso domandato come mai né i
Beatles e né tanto meno i Rolling Stones, cioè i due gruppi rock più famosi di
sempre, abbiano mai pubblicato un LP interamente dal vivo nel corso degli anni
’60. La risposta che mi davo, ogni volta che ponevo questo genere di quesito a
me stesso, era che, in fondo, nessun gruppo musicale, rock o di altro tipo, è
obbligato a pubblicare dischi dal vivo. Ovvio, solo che molti gruppi, negli
anni ’60, lo facevano, e il fatto che quelli refrattari fossero proprio i più
famosi di tutti contribuiva a tenere vivo il problema dentro la mia testa. Poi
un giorno ho trovato la soluzione, che per quanto riguarda i Rolling Stones ho
ampiamente articolato nel libro Effetto Pop, uscito alla fine del 2008. La
risposta è più semplice di quello che uno si immagina, ed ha a che fare, a
dispetto del successo e della fama che li circonda, con la modesta abilità
tecnica dei musicisti delle due formazioni.
E’ vero che i Beatles, a differenza dei
Rolling Stones, svolsero un ruolo importante e per certi versi decisivo nella
fase di passaggio dal beat alla musica rock sofisticata che si affermò in
Inghilterra, e poi in tutta Europa (compresa l’Italia), a partire dalla fine degli
anni Sessanta. Ma se ascoltiamo senza pregiudizi alcune loro incisioni dal vivo
realizzate nella prima metà del decennio – ed incluse nell’unico album live,
peraltro postumo, del gruppo, intitolato “At The Hollywood Bowl” – noteremo i
tanti difetti palesati dal quartetto di Liverpool nell’eseguire i passaggi
strumentali più impegnativi. La performance di Roll Over Beethoven dell’agosto
1964, dal repertorio di Chuck Berry (incisa dal chitarrista nero statunitense
nel 1956), ne è forse l’esempio migliore. E neppure si salva, a ben vedere, la
versione in studio dello stesso brano pubblicata nel novembre del 1963. Anche
in questo caso le parti di chitarra, soprattutto quelle più intricate,
risultano alquanto approssimative e lontane dalla brillantezza e precisione
esibite da Chuck Berry sette anni prima.
Non è dunque un caso se i Beatles ed i
Rolling Stones siano state tra le poche formazioni rock a non aver pubblicato
nessun LP dal vivo durante tutti gli anni ’60. Il fatto è che per pubblicare un
disco dal vivo i componenti di qualsiasi band dovevano (e dovrebbero) essere in
grado di suonare, dal vivo, buona musica, dimostrando nel contempo di possedere
qualche qualità come strumentisti. Ma né i cinque membri dei Rolling Stones, né
i quattro componenti dei Beatles erano dei musicisti particolarmente brillanti.
I Rolling Stones, come tutti i fans di questo gruppo sanno, pubblicarono il
loro primo long playing interamente dal vivo solo dopo aver ingaggiato il bravo
chitarrista Mick Taylor al posto di Brian Jones, mentre i Beatles si astennero
del tutto dal pubblicare materiale live perché quello che avevano registrato
durante le loro numerose tournée della prima metà del decennio era considerato
di qualità audio scadente, dopodiché nel corso dell’estate del 1966 decisero di
rinunciare in via definitiva ai concerti in pubblico e così il problema non si
ripropose più. In realtà, come ben dimostra il 33 giri “At The Hollywood Bowl”,
la qualità delle registrazioni dei concerti dal vivo dei Beatles riferite alla
metà degli anni Sessanta non è affatto così scarsa come si è sempre sostenuto.
Il problema, come si evince dall’ascolto di questo LP, è invece un altro, e
cioè che nel 1965 i Beatles suonavano un tipo di musica che era già fuori moda
rispetto agli interessi e ai gusti manifestati dalle migliori formazioni rock
allora in circolazione. Interessi che riguardavano ormai il rhythm’n’blues –
eseguito lasciando un ampio spazio alle parti solistiche – piuttosto che il
rock’n’roll e la canzone melodica con strofa, ritornello e ponte. E i Beatles,
in fatto di rhythm’n’blues, e soprattutto di parti solistiche, non avevano
molto da dire. Per una conferma dell’assunto si ascolti Yer Blues dall’album
doppio “The Beatles”, pubblicato nel 1968, e si faccia attenzione ai due assolo
di chitarra elettrica eseguiti verso la fine del brano; un brano che, giusto
per rimanere in tema di incisioni live, venne registrato per l’appunto in presa
diretta, cioè dal vivo sebbene all’interno di uno studio di incisione
discografica piuttosto che in un club o dentro a uno stadio. Chi non è un fan
sfegatato di McCartney e soci si accorgerà subito, ascoltando Yer Blues, che la
capacità solistica di George Harrison e (soprattutto) di John Lennon a contatto
con un genere come il rock-blues – ossia l’unione della tipica esuberanza rock
con gli schemi classici del blues, molto in voga in Gran Bretagna tra il 1966
ed il 1970 – era abbastanza limitata. Lo stesso pezzo venne riproposto, poco
tempo dopo la sua pubblicazione su LP, dal solo John Lennon nell’ambito del
Rock’n’Roll Circus, uno spettacolo rock televisivo organizzato dai Rolling
Stones e trasmesso nel periodo di Natale del 1968. Lennon, autore del testo, in
quel caso si fece però saggiamente accompagnare dal batterista della Jimi
Hendrix Experience Mitch Mitchell e dall’esperto chitarrista blues, nonché ex
membro dei Cream, Eric Clapton, il quale si occupò delle parti solistiche
nobilitando una composizione che, così com’era nella sua versione originale,
lasciava parecchio a desiderare. A proposito, e per concludere, ricordiamo che
Eric Clapton è uno che negli anni ’60 ha contribuito, con tre diversi gruppi,
alla realizzazione di ben cinque long playing dal vivo, di cui il primo
registrato (e pubblicato) con gli Yardbirds nel lontano 1963. Di questi cinque
ne consiglio, agli appassionati di musica rock che si entusiasmano ascoltando
parti solistiche brillanti e ben eseguite, due incisi con i Cream, entrambi nel
1968: “Wheels Of Fire – Live at the Fillmore” e “Goodbye”. Tutta un’altra
musica…
N. B. Articolo pubblicato su “Apollinea”,
Rivista bimestrale del territorio del Parco Nazionale del Pollino, Anno XIV –
n. 1 – gennaio-febbraio 2010, pag. 38.
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