domenica 14 dicembre 2025

Mirko Jymi & Gianni Venturi – "Senza Rete": un manifesto poetico anti-omologazione



Senza Rete si configura come un'opera radicalmente sperimentale e fieramente di nicchia, che rinuncia intenzionalmente alle lusinghe del mercato musicale mainstream. Il titolo stesso evoca un senso di rischio e di totale esposizione, un richiamo a confrontarsi con la realtà senza filtri né protezioni.

Concettualmente, l'opera si inserisce in una tradizione di critica intellettuale che in Italia trova il suo parallelo più diretto nell'eredità del Teatro Canzone di artisti come Giorgio Gaber, per la sua critica radicale all'omologazione e l'uso del linguaggio come strumento di risveglio. Stilisticamente, l'integrazione di Avant-garde e Rock Progressivo Italiano (RPI) lo colloca idealmente nella scia dei progetti storici più concettuali (come le prime opere degli Area o certi approcci di Franco Battiato).

Nota: le analogie con queste figure storiche non vogliono suggerire una dipendenza stilistica, ma rappresentano piuttosto quel "profumo di..." che, a tratti, si avverte nell'ascolto: un'eco lontana di un'attitudine o di una tensione creativa già esplorata, ora rielaborata in chiave assolutamente personale.

È un'opera che, secondo gli autori stessi, rappresenta un veemente atto d'accusa e un "grido" contro la massificazione culturale e l'appiattimento del pensiero imposto dalla società contemporanea. L'album non si limita a un commento, ma si erge a vero e proprio manifesto filosofico-artistico.

Il compositore e tastierista Mirko Jymi dipinge un paesaggio sonoro eclettico, attingendo alla sua vasta esperienza che spazia dal Dark Ambient e Avant-garde fino al Jazz e al Progressive. Le musiche non sono semplici sottofondi, ma vere e proprie architetture emotive che amplificano l'intensità del testo.

L'elemento a sorpresa è la partecipazione di musicisti brasiliani. Questa fusione genera una tensione dinamica unica: la cupezza e l'astrazione delle atmosfere elettroniche e jazzistiche si scontrano o si fondono con la ricchezza ritmica tipica della musica sudamericana, creando un "oltre" musicale che evade qualsiasi facile categorizzazione, fornendo la colonna sonora per questo "film poetico".

Il ruolo di Gianni Venturi è centrale: l'album è strutturato come un "film poetico" narrato attraverso la sua voce. La sua "cadenza narrativa" è diretta, aspra e priva di compromessi.

Venturi utilizza la parola come uno strumento chirurgico per dissezionare le ipocrisie della comunicazione moderna e le incongruenze politiche, religiose e sociali. I suoi versi non cercano rassicurazione; al contrario, instillano un senso di acuta consapevolezza e un pessimismo lucido, derivato da una profonda osservazione della condizione umana. L'ascoltatore è costretto a riflettere sul significato autentico delle parole, spogliate di ogni retorica vuota.

"Senza Rete" è un'opera che richiede un ascolto attivo e non convenzionale. Non cerca di piacere, ma di scuotere. È un progetto di coraggiosa integrità artistica che unisce la sofisticata ricerca sonora di Mirko Jymi con la tagliente e disperata poesia di Gianni Venturi. È consigliato a chi cerca musica che vada oltre il puro intrattenimento, proponendo una esperienza immersiva e concettuale che resiste all'omologazione con orgoglio, rivendicando la propria identità di "nicchia nella nicchia".


Brevi Profili degli Autori

Mirko Jymi (compositore e tastierista) 

Mirko Jymi è un musicista e compositore noto per la sua vastissima cultura musicale. La sua carriera è caratterizzata da una curiosità onnivora che lo ha portato a esplorare e padroneggiare generi complessi e interconnessi, tra cui il Jazz, il Rock Progressivo, la Fusion, la Bossa Nova, e l'Ambient. La sua esperienza gli consente di muoversi agilmente tra arrangiamenti ricchi e atmosfere astratte, creando tappeti sonori che sono allo stesso tempo tecnicamente sofisticati e profondamente evocativi.

Gianni Venturi (poeta, narratore e artista sperimentale)

Gianni Venturi è una figura di spicco nel panorama della sperimentazione musicale e poetica italiana, con un'attività che si concentra in particolare nell'ambito Progressivo e Avant-garde. È conosciuto per la sua militanza in progetti concettuali e di rottura come Altare Thotemico e la Banda Venturi. La sua cifra stilistica è la narrazione schietta e concettuale, spesso intrisa di un tono disincantato e critico. L'approccio di Venturi in "Senza Rete" è il culmine di una carriera dedicata a utilizzare la parola non solo per comunicare, ma per interrogare, sfidare e graffiare la superficie delle convenzioni sociali e linguistiche.





venerdì 12 dicembre 2025

"Rock and Roll Circus" l'11 dicembre del 1968


Ricercando qualche chicca nella mia raccolta video, ho trovato questa "Yer Blues", tratta da "Rock and Roll Circus", ovvero due giorni di musica organizzati dai Rolling Stones, in un circo. Sono presenti le migliori band del 1968 e, in alcuni spezzoni, anche amici degli artisti e veri giocolieri, mangiafuoco e trapezisti.
Insomma una sintesi dell’ambiente musicale della Londra del 1968.

Il video è stato pubblicato soltanto nel 1996 e, considerando i partecipanti, vale la pena di essere visto.


Cito ad esempio The Who, Jethro Tull, Taj Mahal, Marianne Faithfull, Yoko Ono.
Nell'eccezionale spezzone seguente, oltre al presentatore Mick Jagger, si possono vedere/ascoltare John Lennon (chitarra ritmica e voce), Eric Clapton (chitarra solista), Keith Richard (sorprendentemente al basso) e Mitch Mitchell (batteria, of corse).







giovedì 11 dicembre 2025

Addio a Tetsu Yamauchi: il bassista giapponese di Free e Faces è scomparso a 79 Anni

 

Il mondo del rock piange la scomparsa di Tetsu Yamauchi, l'influente bassista giapponese che ha lasciato il segno in alcune delle band britanniche più iconiche degli anni '70, tra cui Free e Faces. Yamauchi è morto il 4 dicembre 2025 all'età di 79 anni.

Nato il 21 ottobre 1946 a Fukuoka, in Giappone, Tetsu Yamauchi è emerso sulla scena musicale internazionale grazie al suo stile fluido e radicato nel blues rock. La sua carriera lo ha visto inizialmente attivo in Giappone e poi in Europa con la band prog-rock Samurai.

Il grande salto avviene all'inizio degli anni Settanta, quando si trasferisce in Inghilterra e inizia una fruttuosa collaborazione con i membri dei Free, Paul Kossoff (chitarra), Simon Kirke (batteria) e John "Rabbit" Bundrick (tastiere), nel progetto Kossoff, Kirke, Tetsu and Rabbit.

L'opportunità di unirsi ai leggendari Free arriva nel 1972, quando Yamauchi subentra al bassista originale Andy Fraser. La sua presenza è fondamentale per il sound del loro ultimo album in studio, Heartbreaker (1973), un disco che, nonostante le tensioni interne e la successiva rottura della band, è ricordato per la sua intensità emotiva.

Subito dopo lo scioglimento dei Free, Tetsu è chiamato a sostituire l'uscente Ronnie Lane nei Faces, la band capitanata da Rod Stewart e Ronnie Wood. Sebbene il suo reclutamento sia avvenuto in un momento di incertezza per la band, Yamauchi ne è stato un membro a pieno titolo per oltre due anni.

Ha partecipato al tour mondiale del gruppo e compare nell'ultimo singolo dei Faces, "You Can Make Me Dance, Sing or Anything" (1974), e nell'album live Coast to Coast: Overture and Beginners (1974). La sua partecipazione ha contribuito a mantenere viva la sezione ritmica di una band nota per la sua energia grezza e spontanea.

Dopo lo scioglimento dei Faces nel 1975, Yamauchi ha intrapreso una carriera solista e come session musician, pubblicando diversi album come solista, tra cui il debutto del 1972, "Tetsu". Verso la fine degli anni '70, è tornato in Giappone, continuando a registrare e a esibirsi fino al suo ritiro dall'industria musicale alla fine degli anni '90.

Tetsu Yamauchi sarà ricordato come uno dei rari talenti giapponesi ad aver raggiunto un posto di primo piano nella scena rock britannica degli anni d'oro, portando il suo tocco unico in due delle formazioni più celebrate dell'epoca.




Paolo Siani: tre stagioni di sound tra analogico e digitale-Tratto da una nostra chiacchierata

 


Tre stagioni di musica tra analogico e digitale, dal gruppo al controllo totale del suono

 

Questo articolo nasce da una intervista realizzata con Paolo Siani, batterista e protagonista del progressive italiano con Nuova Idea e oltre, e si inserisce in un progetto editoriale più ampio dedicato all’evoluzione della tecnologia applicata alla musica. L’obiettivo è raccontare come la sua carriera abbia attraversato tre stagioni distinte, segnate da un diverso equilibrio tra creatività artistica e impronta tecnica.


Tre momenti, tre percentuali

Siani ricorda tre fasi precise del suo percorso:

  • Con il gruppo: all’inizio il rapporto era 50/50 tra contributo artistico e visione tecnica del produttore, poi diventato 70/30 a favore del gruppo.
  • Come batterista professionista: la percentuale si invertì, 30/70, perché la figura dell’arrangiatore risultava determinante.
  • Oggi: il controllo è totale, 100% a suo favore. Dopo settant’anni di musica, osserva con ironia, “è quasi un diritto”.


Produttori e decisioni

Non ha mai avuto esperienze con “produttori fantasma”: ha sempre lavorato con persone consapevoli del lavoro da affrontare. Le decisioni più difficili furono prese dal gruppo stesso, come il rifiuto di partecipare a Sanremo, giudicato troppo commerciale rispetto al loro target musicale. Una scelta discutibile, ma coerente con la loro visione.

Giovane convinzione e produttori marginali

Alla domanda se il produttore fosse stato più “psicologo” o “giudice critico”, Siani risponde con sincerità: a vent’anni non c’è spazio per nessuno, si è troppo convinti delle proprie idee per accettare opinioni altrui, salvo errori clamorosi.

In generale, la figura del produttore discografico non ebbe mai grande impatto nella sua storia musicale, soprattutto in Italia fino agli anni ’80, dove spesso appariva inutile o addirittura controproducente.

Suoni da digerire e mixaggi da recuperare

Può capitare, per mancanza di tempo, di dover accettare suoni non perfettamente “commestibili”. Siani però riuscì quasi sempre a recuperarli in fase di mixaggio, dimostrando un approccio pragmatico e resiliente.

Analogico e digitale

La sua età lo lega inevitabilmente all’analogico, con le sue imperfezioni. Tuttavia, riconosce che il digitale ha “democraticizzato” la registrazione, nel bene e nel male. Oggi le registrazioni degli anni ’70 avrebbero un suono decisamente migliore grazie alle tecnologie moderne.

Tecnici e invenzioni accidentali

Ha avuto la fortuna di lavorare con ottimi professionisti, senza mai dover imporre o subire scelte non condivise.

Sul fronte delle invenzioni accidentali, ricorda con ironia due episodi:

  • una moneta caduta e rotolata vicino a un microfono Neumann U87, idea poi “soffiata” da un disco dei Gentle Giant;
  • con l’Equipe 84, il suono della sua pancia registrato al posto della cowbell nell’LP Sacrificio.

Accanto a queste esperienze, resta la presenza del cosiddetto tecnico fantasma: una figura che lavora nell’ombra, non cerca visibilità, ma garantisce solidità e continuità al suono.

Hardware e tensione della registrazione

Se potesse riportare in vita un pezzo di hardware analogico, sarebbe un registratore multitraccia Studer a 24 piste. Perché? Perché cambierebbe totalmente l’approccio alla registrazione. Oggi, con tracce illimitate, il musicista sente meno la tensione del “non dover sbagliare”, e quindi anche meno pathos.

Personalità e ottimizzazione

Nell’era di Pro Tools e dei plugin, Siani considera l’ingegnere un ottimizzatore delle risorse, non una figura creativa. L’impronta sonora unica resta sempre legata alla personalità del musicista o del produttore.

Batteria, synth e Mellotron

Registrare la batteria negli anni ’70 era complicato: poche tracce disponibili, compressori da condividere, nessuna memoria sui mixer. Per questo serviva una prima sessione in solitario per trovare i suoni giusti. In seconda battuta, Siani amò sperimentare con strumenti come synth e Mellotron, cercando un colore particolare per ogni brano.

Errori delle band indipendenti

Secondo Siani, l’errore più comune delle band indipendenti è curare molto le registrazioni individuali e trascurare il mixaggio e il suono d’insieme. Affidarsi solo alla propria poca esperienza, senza collaboratori esperti, porta a risultati mediocri.


Conclusione

La testimonianza di Paolo Siani attraversa tre stagioni della musica italiana: dal gruppo al professionismo, fino al controllo totale del suono. Tra ironia e lucidità, emerge una visione chiara: la tecnologia cambia, ma il cuore del sound resta nella personalità e nella tensione creativa del musicista.







martedì 9 dicembre 2025

Una guida al folk progressivo in 10 atti


Le band folk e folk rock sono responsabili di alcune delle musiche più progressive mai realizzate. Non solo, ma hanno influenzato il mondo del rock come lo conosciamo noi.

È una scienza imprecisa cercare di definire la musica per categoria e genere. Gli artisti si scagliano contro di essa, i critici si sforzano di inchiodarla nei termini più semplici, nelle definizioni più comode e nelle frasi ad effetto. Ma, in definitiva, è utile cercare di spiegare il legame che artisti apparentemente diversi possono condividere. Quindi, che tipo di folk è questo genere che chiamiamo folk progressivo?

Bene, esattamente questo: gruppi folk e artisti che hanno osato espandere i propri orizzonti rispetto al formato tradizionale. Nel profondo, la musica folk urla tradizione. Le canzoni folk vengono tramandate di generazione in generazione. Sono canzoni cantate nei pub e nei salotti di tutto il mondo. In quanto tale, la vera musica folk è un importante strumento storico.

Un contestatore al Manchester Free Trade Hall il 17 maggio 1966 chiamò Bob Dylan "Giuda" per aver osato espandere le sue radici folk, abbandonare la sua acustica malconcia e prendere e collegare una chitarra elettrica, ma in verità il folk è spesso stato tra le forme di musica più progressiste. Doveva esserlo, semplicemente per sopravvivere così a lungo. La musica ha dovuto cambiare con i tempi.

Ai tempi in cui non c'erano le chitarre, la musica folk veniva cantata a cappella di default. Poi a volte veniva cantata a cappella di proposito. Poi, quando la tecnologia ci ha portato chitarre, mandolini, pianoforti, chitarre elettriche, sitar, mellotron e migliaia di altri strumenti, la musica folk poteva essere suonata su qualsiasi cosa.

Gli artisti folk sono al centro delle forme di musica rock. Ammettiamolo, senza folk e blues non ci sarebbe il rock'n'roll. Senza l'innovativo lavoro di chitarra di Bert Jansch dei Pentangle o l'intrigante modo di suonare di Roy Harper, i Led Zeppelin avrebbero probabilmente avuto un suono molto diverso. Se Rick Wakeman non avesse iniziato la sua odissea musicale con gli Strawbs e non avesse abbracciato la loro natura progressiva, sicuramente gli Yes sarebbero stati una bestia dal suono completamente diverso.

Probabilmente la rock band più influente e grande del mondo avrebbe potuto svilupparsi in un modo totalmente diverso se non si fosse incrociata con un folk progressivo. Se Donovan non avesse ampliato le sue prime inclinazioni folk e non si fosse seduto a suonare la chitarra con John Lennon e George Harrison, i Beatles, forse, non avrebbero suonato come la band che conosciamo oggi.

I folk progressisti non avevano (e non hanno ancora) paura di sperimentare, sia vocalmente, sia nei testi, sia in termini di arrangiamento, usando musicisti extra, orchestre o semplicemente armeggiando con le loro chitarre che suonano così incredibilmente aliene. Usare violini e chitarre elettriche, sitar e zucche, voci all'unisono e linee di chitarra brucianti è la normalità per i nostri amici progressisti, e dobbiamo esserne loro grati.


Pentangle, da Londra 

Formazione classica: Terry Cox (batteria e voce), Bert Jansch (chitarra e voce), Jacqui McShee (voce), John Renbourn (chitarra e voce), Danny Thompson (contrabbasso).

Supergruppo folk? Beh, se mai ne è esistito uno, allora è sicuramente quello dei Pentangle. Due luminari del folk revival degli anni '60 si sono uniti per creare una gloriosa cacofonia di rumore folk progressivo: i chitarristi Bert Jansch e John Renbourn si sono uniti all'inizio del 1968 con la voce cristallina di Jacqui McShee, il contrabbassista Danny Thompson e il batterista Terry Cox. La sezione ritmica proveniva entrambi da un background jazz/blues che avrebbe avuto una profonda influenza sul sound della nuova band.

Jansch (una grande influenza su Jimmy Page dei Led Zep) e Renbourn avevano stili di chitarra diversi che si scontravano delicatamente, bruciavano e sottolineavano la voce slanciata di McShee. I ritmi jazzati che Thompson e Cox portarono alla band fornirono una leggerezza al folk rock prevalentemente acustico dei Pentangle.

Avendo i mezzi per realizzare che il rock e il folk non devono necessariamente escludersi a vicenda, la band arruolò il produttore Shel Talmy (che aveva lavorato sia con The Who che con The Kinks) per dare forma al loro sound. Mixarono con successo canzoni folk tradizionali come “Let No Man Steal Your Thyme” con standard jazz di artisti del calibro di Charlie Mingus.

I Pentangle hanno avuto un notevole successo mainstream: il loro terzo album “Basket Of Light” è entrato nella Top Five nel Regno Unito ed è rimasto nella classifica degli album per oltre sei mesi. La loro influenza rimane profonda e, infine, quest'anno la band è stata riconosciuta per i suoi risultati e la formazione originale si è riunita per i BBC Radio 2 Folk Awards, dove hanno ricevuto un Lifetime Achievement Gong. E ovviamente hanno anche suonato.

Consigliato: The Pentangle (Castle, 1968)


The Strawbs, da Londra 

Formazione classica: Dave Cousins (chitarra e voce), John Ford (basso e voce), Richard Hudson (batteria e percussioni), Rick Wakeman (tastiere),Tony Hooper (chitarra)

Sia Rick Wakeman degli Yes che Sandy Denny dei Fairport Convention hanno trascorso del tempo con gli Strawbs prima di avventurarsi nel loro futuro progressivo. L'album di debutto degli Strawbs è riuscito a cavalcare i confini tra folk e prog rock più tradizionale con canzoni come “Oh How She Changed” e “The Battle”. 

Ma la band non riuscì a mantenere questo ritmo con la loro seconda uscita “Dragonfly” nel 1970, e il membro fondatore Dave Cousins ​​coinvolse Rick Wakeman. Questa collaborazione fu un successo e gli Strawbs pubblicarono un autentico album crossover folk rock/prog rock chiamato “Just A Collection Of Antiques And Curios”.

Registrato dal vivo alla Queen Elizabeth Hall di Londra nel luglio 1970, il disco ha visto la band estendersi e include un'esaltante performance di Wakeman su “Temperament For A Mind”. Se non altro, questo è stato il disco che ha segnato in modo succinto la transizione degli Strawbs dai folk al rock progressivo più tradizionale. “Bursting At the Seams” del 1973 ha finalmente prodotto alla band un singolo di successo in “Part Of The Union”, ma ormai i loro inizi folk stavano svanendo. 

Consigliato: Bursting At The Seams (A&M, 1973)



The Incredible String Band, da Glasgow 

Formazione classica: Robin Williamson (violino), Mike Heron (chitarra),  Licorice McKechnie (voce e piatti a dita), Clive Palmer (banjo)


Non si penserebbe necessariamente che Glasgow sia il luogo da cui il folk progressivo ha tratto le sue influenze indiane e africane, ma The Incredible String Band ha preso il suo marchio infuocato di folk celtico e lo ha mescolato con alcuni sapori molto internazionali. Il chitarrista Mike Heron e il suo compagno di crimine violinista Robin Williamson sono riusciti senza sforzo a fondere sfumature indiane e africane nella loro musica. 

Le cose arrivarono davvero al culmine dopo che Williamson trascorse un po' di tempo in Marocco, dando vita al completo, impossibilmente eclettico “The 5000 Spirits Or The Layers Of The Onion” nel 1967 (che vedeva anche Danny Thompson dei Pentangle al basso). Molti critici lo citano come un disco psichedelico, ma se questo non è il titolo di un album prog, non sappiamo cosa lo sia. 

Nonostante le sue canzoni disparate, insolite e, francamente, folli (con testi su ricci canterini e riferimenti casuali agli alberi di Natale), la comunità folk lo adorava. “The Hangman's Beautiful Daughter” seguì nel 1968, e fu altrettanto psichedelico. 

Consigliato: The Hangman’s Beautiful Daughter (Warners, 1968



Roy Harper, da Manchester.

Il contributo di Roy Harper al folk progressivo non può essere sottovalutato. Cresciuto nella scena folk londinese della metà degli anni '60, Harper si è tenuto alla larga dall'interpretazione degli standard folk e si è concentrato sul suo materiale fin dall'inizio. I suoi primi album consistevano nel suo eccentrico lirismo poetico sostenuto dal suo intrigante modo di suonare la chitarra acustica. 

Cercando sempre di spingere i confini del folk tradizionale, Harper era creativo con la sua esplorazione sonora: un primo album (“Flat Baroque And Berserk“) lo vedeva suonare la sua chitarra acustica attraverso un pedale wah-wah nel brano "Hell's Angels". Mentre Hendrix ci aveva fatto conoscere il wah-wah su una chitarra elettrica, ascoltare l'effetto su uno strumento più tradizionale era sorprendentemente diverso. 

Harper aveva sempre ampliato il formato della canzone e il suo quinto album distintivo galvanizzò questo talento. Con solo quattro canzoni, “Stormcock” era un'opera sbalorditiva, che spaziava liricamente dalla religione che criticava (“The Same Old Rock”, una canzone che presenta un cameo furtivo di Jimmy Page mascherato da S. Flavius ​​Mercurius) a “Me And My Woman”, un tributo epico alle donne della sua vita, sottolineato da un grande arrangiamento orchestrale. Tanto di cappello a (Roy) Harper, davvero. 

Consigliato: Stormcock (Harvest, 1971)



John Martyn, dal Surrey (Regno Unito) 

Chitarrista e cantante fenomenale, John Martyn ha cambiato il suo stile di folk progressivo nel corso della sua lunga e brillante carriera.

Rifuggendo il folk tradizionale, Martyn incluse molti elementi sia del blues che del jazz nei suoi primi lavori. Ciò fu ulteriormente esaltato dai suoi trucchi con la chitarra. Senza paura di sperimentare, Martyn fece passare la sua chitarra acustica attraverso molti pedali di effetti, dalla distorsione (tradizionalmente usata con uno strumento elettrico) al flanger e al phase-shifter, trasformandone il suono in qualcosa di alieno e unico. 

Per molti, il modo di suonare di Martyn è sinonimo di Echoplex, un'unità che aggiunge un eco/ritardo al suono della chitarra, rendendolo distintivo e ultraterreno. Questo processo è stato utilizzato per ottenere un effetto raffinato sulla traccia “I'd Rather Be The Devil” nell'album “Solid Air di Martyn” del 1973, la cui traccia del titolo era un omaggio all'amico di John e collega folk prog Nick Drake.

Nel corso della sua carriera, Martyn ha abbracciato tutti gli stili musicali nel suo modo di suonare idiosincratico. Ha persino lavorato con il flautista/sassofonista jazz Harold McNair per il suo secondo album, "The Tumbler". Pur rimanendo un folkie nel profondo, Martyn ha spinto i confini musicali per tutta la vita. E se questo non è progressive, non sappiamo cosa lo sia! 

Consigliato: Solid Air (Island, 1973)



Nick Drake, da Birmingham 

Sottovalutato in vita (morì nel 1974 all'età di 26 anni per overdose di antidepressivi), Nick Drake riuscì comunque a cambiare la percezione della musica folk tradizionale, seppur postuma. Cronicamente timido e ostinato dalla depressione e dall'insonnia, Drake non fu mai veramente tagliato per essere un artista, ma furono queste condizioni psicologiche a influenzare chiaramente la natura inquietante del suo lavoro.

Principalmente un chitarrista (e uno che usava alcune delle accordature più strane e innovative immaginabili), i testi di Drake riflettevano spesso il suo fragile stato mentale. Ma fu la combinazione del suo modo di suonare idiosincratico, dei testi toccanti e degli abili arrangiamenti orchestrali del suo amico di college e collaboratore Richard Kirby che portarono davvero Drake oltre l'essere un semplice cantautore qualunque. Il suo secondo album ("Bryter Later") avrebbe persino contenuto elementi di jazz.

Con solo tre album all'attivo, Drake è stato poco più di una figura di culto durante la sua vita. Suonava raramente dal vivo e, nonostante fosse stato scoperto da Ashley Hutchings dei Fairport Convention, la scena folk non lo abbracciò mai veramente. Rimase un musicista per musicisti fino alla fine degli anni '80, quando iniziò a essere citato nella stampa musicale popolare.

Oggi, Nick Drake è probabilmente il cantante folk progressivo più citato nella cultura mainstream. 

Consigliato: Five Leaves Left (Island, 1969)



Fairport Convention, da Londra 

Formazione classica: Sandy Denny (voce), Dave Swarbrick (violino e viola), Richard Thompson (chitarra e voce), Simon Nicol (chitarra e voce), Ashley Hutchings (basso e voce), Dave Mattacks (batteria e percussioni) 

I Fairport Convention nacquero nel 1967 a Muswell Hill, Londra. Frutto dell'ingegno del bassista Ashley Hutchings, dei chitarristi Richard Thompson e Simon Nicol, i Fairport erano una band che inizialmente aveva un grande debito nei confronti della musica folk tradizionale americana e della nascente scena acustica della West Coast.

Prima che il loro album di debutto omonimo arrivasse sugli scaffali nel 1968, i Fairport avevano già sostituito la loro cantante solista Judy Dyble con Sandy Denny. Conteneva principalmente materiale originale, scritto principalmente da Thompson, fatta eccezione per una cover di Chelsea Morning di Joni Mitchell. Il loro sound era abbastanza eclettico da attirare un po' di attenzione e la band fu persino brevemente definita "i Jefferson Airplane britannici".

L'aggiunta di Denny portò la band a vette più alte. Fresca del suo periodo negli Strawbs, era una voce familiare al contingente folk tradizionale. Il secondo album della band (“What We Did On Our Holidays”, 1969) mescolò le cose: la band affrontò canzoni di Mitchell e Bob Dylan insieme a melodie folk tradizionali inglesi.

Con “Unhalfbricking” (luglio '69) la band continuò su questa strada, ma dopo un tragico incidente stradale in cui perse la vita il batterista Martin Lamble, la band si riunì per registrare la loro definitiva affermazione “Liege And Lief”. Il violinista Dave Swarbrick si unì a tempo pieno e la band si immerse nel materiale, dai feroci riff acustici al violino ad alto voltaggio, il tutto completato dalla straordinaria voce di Sandy Denny.

Sarebbe stato il loro momento decisivo, ma avrebbe anche decretato la fine della formazione classica. Verso la fine del 1969, sia Hutchings che Denny avevano lasciato la band. 

Consigliato: Liege & Lief (Island, 1969)



Tim Buckley, da Washington D.C. 

Tim Buckley, a cavallo tra il mondo del prog folk e quello della psichedelia, è stato uno dei cantautori più intriganti della fine degli anni '60.

Sebbene la musica folk fosse sicuramente al centro della sua attività, Buckley riuscì a infondere nella sua scrittura di canzoni elementi di così tanti stili musicali diversi, dal progressive jazz alla West Coast country. Di conseguenza, molti detrattori di Buckley (e persino fan) lo criticano per il suo sound non coerente.

E, con il passare degli anni, Buckley si interessò sempre di più al jazz, infondendo nel suo lavoro una bravura che raramente si sente nel folk. Avrebbe usato la sua voce come uno strumento d'avanguardia e, come tale, l'album “Lorca” del 1970 lo alienò da molti dei suoi fan. Sparito il cantautore sensibile e pieno di sentimento, al suo posto c'era uno sperimentatore eccentrico, pieno di scat vocali su jam stridenti e discordanti.

Purtroppo, il 1975 segnò la fine del viaggio musicale di Buckley, che morì per overdose di eroina. Ma, per quanto riguarda i folkster progressisti, Buckley rimane ancora all'avanguardia. 

Consigliato: Starsailor (Rhino, 1970)



Steeleye Span, da Londra 

Formazione classica: Tim Hart (dulcimer, chitarra e voce), Bob Johnson (chitarra e voce), Rick Kemp (basso, batteria e voce), Peter Knight (violino, tastiere e voce), Maddy Prior (voce) 

Quando lasciò i Fairport Convention, il bassista Ashley Hutchings aveva bisogno di un altro progetto: non aveva ancora finito nel mondo progressive. Così si unì ai folk affermati Maddy Prior e Tim Hart per creare gli Steeleye Span. Ma il mandato di Hutchings non durò a lungo e dopo tre album prese strade diverse.

Questo non significò la fine degli Steeleye, però. La band aveva lavorato duramente per tutta la sua esistenza per essere accolta nel mondo del rock. Così decisero di continuare. Sfruttando un lato più duro e proggy, gli Span pubblicarono “Below The Salt” (1972) e “Parcel Of Rogues” (1973). Le grandi chitarre rock lottarono per la supremazia tra i violini elettrici killer e le loro ormai caratteristiche linee vocali armoniche.

Per promuovere il loro sound prog folk, la band ha coinvolto Ian Anderson dei Jethro Tull per produrre “Now We Are Six” (che ha visto anche la partecipazione di nientemeno che David Bowie al sax), un album di canzoni folk principalmente tradizionali con il trattamento Steeleye. La loro svolta commerciale è arrivata sotto forma di “All Around My Hat” (1975) prodotto da Mike 'Womble' Batt, e nel 2019 la band ha pubblicato il suo 24° album in studio. 

Consigliato: Parcel Of Rogues (Chrysalis, 1973)



DONOVAN, da Glasgow 

Spesso è stato chiamato "mellow yellow", ma Donovan è molto più di quel successo del 1966. Salito alla ribalta nello stesso periodo in cui Bob Dylan stava facendo progressi negli Stati Uniti, Donovan è stato spesso ingiustamente etichettato, o addirittura liquidato come "il Dylan britannico".

Ma questo non sorprende affatto, dato che sia Dylan che Donavan ammiravano il lavoro di Woody Guthrie e di altri primi folk americani tradizionali. Il cantante fu anche influenzato dalla musica folk scozzese e inglese (trascorse del tempo su entrambi i lati del confine durante la sua crescita), e prese in mano la chitarra in giovane età e iniziò a imparare a suonarla da solo. In termini di chitarra, il collega folk Bert Jansch ebbe un'enorme influenza sul giovane chitarrista, tanto che Donovan scrisse la canzone “Bert's Blues” in omaggio.

Una volta perfezionato, lo stile di Donovan nel suonare la chitarra era davvero distintivo: sviluppò la sua tecnica distintiva, il "flatpicking", e spesso gli viene attribuito il merito di aver insegnato questo specifico stile di picking a George Harrison, Paul McCartney e John Lennon dei Beatles mentre erano tutti in ritiro in India con il Maharishi.

Donovan non si accontentava di scrivere semplici canzoncine folk acustiche e leggere; il suo sound si sarebbe presto evoluto, incorporando elementi jazz (era un grande ammiratore di Billie Holiday), sfumature psichedeliche e, grazie al suo soggiorno in India, orchestrazioni di sitar.

Nonostante avesse ampliato i suoi orizzonti musicali e reso il suo genere folk il più progressivo possibile, Donovan rimase comunque una presenza fissa sulla scena folk britannica, riuscendo a coinvolgere il suo pubblico anziché alienarlo.

Oggi, Donovan continua questo viaggio musicale e ha pubblicato il suo album più recente, “Gaelia”, nel dicembre 2022. Attualmente si sta preparando per gli spettacoli del 60° anniversario nel 2025. 

Consigliato: A Gift From A Flower To A Garden (Pye, 1967)


E la storia continua...





lunedì 8 dicembre 2025

Erva de ientu – Airportman & Egidio Marullo

 


Erva de ientu – Airportman & Egidio Marullo

Lizard Records

 

La fragilità che resiste, tra suono e immagine

 

C’è un vento che soffia sulle dune, e porta con sé sabbia, sale e memoria. Tra i cardi e le erbe spontanee che resistono al mare, nasce un’immagine fragile e tenace: l’“erva de ientu”, l’erba di vento che gli anziani salentini chiamavano così, quasi a riconoscerne la forza silenziosa. È da questa immagine che prende vita il nuovo lavoro di Airportman insieme al pittore Egidio Marullo.

Il progetto appare come un viaggio che intreccia suono e pittura, radici e resistenza. Ogni brano è accompagnato da un’immagine, e ogni immagine diventa tappa di un percorso che si guarda e si ascolta allo stesso tempo. Sei quadri, sei titoli, sei atmosfere: Erva de ientu, Sentiere, Èpopteìa, I cardi e l’alba, Orazione, Elegia.

Il lettore e l’ascoltatore sono invitati a entrare in questo paesaggio sospeso, dove la musica si fa pigmento e la pittura vibra come suono. È un’opera che chiede tempo, attenzione e apertura, come un sentiero che si percorre lentamente, lasciandosi guidare dal vento.

Ogni quadro di Marullo dialoga con un brano di Airportman, e insieme costruiscono un’opera che non si limita al suono ma si apre a un’esperienza multisensoriale.

Erva de ientu - L’immagine iniziale è essenziale, quasi scarna, come la pianta che resiste al vento. La musica che la accompagna è fragile e sospesa, ma proprio in questa fragilità si trova la forza. È l’apertura del viaggio, il manifesto di un’estetica che celebra la resistenza silenziosa.

Sentiere - Qui la pittura suggerisce un cammino, una traccia che si perde e si ritrova. La musica diventa passo lento, esplorazione interiore. È come seguire un sentiero che non porta a una meta precisa, ma invita a perdersi nel paesaggio.

Èpopteìa - Il titolo enigmatico richiama ritualità e visioni iniziatiche. L’immagine sembra custodire un mistero, un segno che non si lascia decifrare subito. La musica accompagna con atmosfere più dense, quasi sacrali, come se ci trovassimo di fronte a un rito segreto.

I cardi e l’alba - La pittura evoca l’asprezza dei cardi, ma anche la luce che sorge. È un contrasto tra durezza e rinascita. La musica riflette questa tensione: suoni spigolosi che si aprono a una luminosità improvvisa, come il primo chiarore del giorno.

Orazione-L’immagine qui si fa più meditativa, quasi liturgica. La musica è contemplativa, lenta, come una preghiera che non chiede ma ringrazia. È un momento di raccoglimento, di sospensione, dove il tempo sembra fermarsi.

Elegia - L’ultima immagine è malinconica, ma non cupa. È memoria, è ricordo. La musica chiude il viaggio con un tono elegiaco, lasciando l’ascoltatore in uno stato di quieta riflessione. Non c’è finale netto, ma un dissolversi che invita a restare nel silenzio.Registrato alle Airport Officine nell’inverno 2024/2025, mixato da Paolo Bergese e rifinito da Paride Lanciani presso Oxygen Studio, Erva de ientu esce per Lizard Records nella collana Open Mind. Una cornice perfetta: perché questo è un lavoro che richiede apertura, ascolto lento, disponibilità a contemplare.

Musicalmente, Airportman conferma la sua vocazione per un suono sospeso tra ambient e post-rock, dove il silenzio è parte integrante della composizione. Non ci sono esplosioni o virtuosismi, ma tessiture rarefatte, elegiache, capaci di evocare paesaggi interiori e naturali. È una musica che non si consuma in fretta, ma che chiede tempo e attenzione, come un quadro che si osserva a lungo per coglierne le sfumature.

Le immagini che accompagnano il disco – segni astratti, figure frammentarie, tipografie essenziali – non cercano di spiegare, ma di evocare. La palette cromatica sobria, fatta di bianchi, neri e grigi, amplifica il senso di resistenza silenziosa. È come se la grafica fosse anch’essa un paesaggio: dune che respirano, spazi che si aprono, simboli che rimandano a un mistero più grande.

Erva de ientu è una vera e propria esperienza multisensoriale, un viaggio che unisce suono e immagine, fragilità e resistenza, natura e arte. È un lavoro che parla di radici e di vento, di ciò che sembra fragile ma in realtà è capace di durare.

Un incontro tra musica e pittura che diventa esperienza, e che invita chi ascolta e chi guarda a lasciarsi attraversare, come l’erba di vento che resiste sulla sabbia.


Venerdì 5 dicembre uscirà per Lizard Records Erva de ientu, un album che unisce sei brani di Airportman a sei acquerelli di Egidio Marullo, pensati per dialogare con la musica e valorizzati dal formato 20x20. La gestazione è stata veloce e libera: un lavoro a distanza, fatto di confronti periodici e di rimandi poetici tra immagini e suoni.

Con una ventina di dischi all’attivo, Airportman rappresenta una delle realtà più solide e tenaci del rock indipendente italiano, custode di un’idea di musica totale che nasce dalla provincia e dalla periferia, e che continua a resistere grazie alla visione di Loris Furlan e della sua Lizard Records.


Tiratura limitata

Contatti: 338 81 93 612

studio_risso@tiscali.it








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domenica 7 dicembre 2025

Savona, 5 dicembre 2025: la Stella Maris rivive la storia del Live Aid a 40 anni dall'evento

 


Commento all'evento: Live Aid – Un ponte tra storia e solidarietà

 

La serata del 5 dicembre 2025, presso la Sala Stella Maris di Savona, ha celebrato in grande stile un anniversario fondamentale della storia della musica e della televisione: i 40 anni dal Live Aid (13 luglio 1985), con la presentazione del volume LIVE AID – Il juke-box globale compie 40 anni di Angelo De Negri e Aldo Pedron.

L'evento si è rivelato un successo su tutta la linea. La sala strapiena e il pubblico attento e partecipativo hanno creato l'atmosfera ideale per ripercorrere un'epoca e un evento che hanno ridefinito il concetto di musica come veicolo di solidarietà globale.

Il cuore della serata è stato il dialogo tra il co-autore Angelo De Negri e lo storico Giovanni Fabbi (autore dell'inquadramento dedicato agli anni Ottanta in Usa e Uk). Il confronto ha saputo intrecciare con grande profondità l'analisi del contesto storico e musicale che portò alla realizzazione del Live Aid.

Si è spaziato dai grandi brani solidali che fecero da apripista - come Do They Know It’s Christmas? dei Band Aid e We Are the World degli Usa for Africa - fino alla ricostruzione della giornata del 13 luglio 1985, con una buona aneddotica, gradita dai presenti. Gli interventi hanno ben evidenziato come il volume sia un'opera essenziale non solo per i fan della musica, ma per chiunque voglia comprendere il primo grande spettacolo televisivo benefico mai realizzato, toccando temi centrali come l'altruismo e l'immenso sforzo tecnologico che rese possibile il tutto.

A fare da cornice musicale alla presentazione, in un set intimo e acustico al servizio dello spirito solidale dell’evento, sono stati gli ospiti speciali The Cost of Freedom, che hanno proposto un sentito omaggio con sette brani eseguiti originariamente al Live Aid, sottolineando il ruolo della musica come forza motrice per il cambiamento.

I presenti hanno potuto riascoltare, ma in chiave acustica, sette brani simbolo del Live Aid:

Brano

Artista (Live Aid, 13 Luglio 1985)

Imagine

Patty LaBelle (a Philadelphia)

Let It Be

Paul McCartney (a Londra)

All You Need Is Love

Elvis Costello (a Londra)

Teach Your Children

Crosby, Stills and Nash (a Philadelphia)

Southern Cross

Crosby, Stills and Nash (a Philadelphia)

Blowin' in the Wind

Bob Dylan (a Philadelphia)

We Are the World (Finale)

USA for Africa (eseguita come finale con tutti gli artisti a Philadelphia)

I The Cost Of Freedom hanno proposto un set acustico elettrificato ridotto, pensato per la serata. La band è la seguente: Ivo Bologna (basso e cori), Marco Briano (chitarra 12 corde e cori), Fabrizio Cruciani (cori e percussioni), Athos Enrile (chitarra e cori) e Roberto Storace (voce, chitarra 12 corde, armonica e arrangiamenti).

In conclusione, la presentazione è stata un’occasione ricca e stimolante che, a quarant'anni di distanza, ha saputo riaccendere i riflettori su un evento spartiacque, confermando che il Live Aid non è solo un ricordo, ma un modello per la solidarietà globale, magnificamente documentato in questo nuovo volume.

Video Riassunto della serata