Claudio Sottocornola - “Tra cielo e
terra”
Uno
sguardo filosofico sul mondo
(Centro Eucaristico, 2023)
Claudio Sottocornola è sempre nei miei pensieri e nei miei
scritti, in bilico tra argomenti prettamente musicali e altri più seriosi,
anche se la mia personale concezione del mondo che si cela dietro alla parola
“Musica” è in totale equilibrio con qualsiasi arte o qualsivoglia pensiero.
Il “Filosofo del Pop”: è
questo il ruolo con cui lo conobbi anni fa, una sorta di crasi tra la sua
formazione - e il suo mestiere di docente di Filosofia e Storia - e l’amore per
certa musica, da lui studiata e interpretata a più riprese.
Smessi i panni di colui che per
lavoro educa le nuove generazioni, ritroviamo Sottocornola immerso nei suoi
studi, nel metafisico, nella sua ricerca continua, che di per sé sarebbe già
soddisfacente, ma che trova pieno compimento solo quando entra in gioco la condivisione.
Libri, giornalismo, video, workshop,
un lavoro infinito che oggi pare aver preso una piega precisa, come se il tempo
libero ora acquisito rappresentasse una spinta verso la meditazione, quella che
porta sempre a delle conclusioni, mai definitive, ma certamente da evidenziare,
per sé e per il prossimo.
Oggi propone il suo nuovo progetto, “Tra cielo e terra (Uno sguardo filosofico sul mondo)”,
una raccolta di nove brevi saggi che l’autore ha redatto per la rivista “Il
Cenacolo” nel 2022, nella rubrica che ha per titolo “Lo sguardo filosofico”,
e che ora vengono proposti in versione integrale come raccolta antologica.
Sottocornola si prefigge di
affrontare argomenti complessi in un linguaggio fruibile ai più, ma credo che,
nonostante l’impegno, la zona di pieno utilizzo resti ad appannaggio di una
nicchia di persone. Non è una proposizione proibitiva, seppur ricercata, ma occorre
essere sensibili e virtuosi per porsi quesiti che riguardano genericamente le
nostre esistenze, e pare che il tempo per interrogarsi e riflettere, di questi
tempi, non sia mai a portata di mano.
Eppure, esiste un momento in cui si
indaga su sé stessi, anche se non si è filosofi, una sorta di accensione on/off
che determina auto indagini, punto di svolta della maturazione personale,
momento in cui ci si chiede, ad esempio, cosa sia la felicità, cosa ci sia
oltre la morte, quali siano i veri valori fondanti. E questa svolta arriva per
tutti, e quando non si ha paura della qualità delle risposte, e magari ci si
vuole confrontare con le riflessioni di terzi, si arriva alla lettura
specifica, magari semplificata dalla facilità del web, oppure si ricorre a
scritti certificati, come quelli di Claudio Sottocornola, appunto.
Il mio principale lavoro saggistico
riguarda prettamente gli aspetti musicali, le recensioni di album e libri con
un indirizzo preciso, ma ogni segnale captato è per me fonte di reazione.
Nondimeno proverò a trattare i nove capitoli come altrettante canzoni da
analizzare, provando a mettere giù i miei pensieri come reazione immediata,
istintiva, alla lettura.
Musica e filosofia legate da un forte
legame; Musica come parte fondamentale del sistema metafisico, e raccolgo una
citazione dell’autore, che nella sua introduzione ci regala un aforisma che
definisce il filosofo come “un musicista privo di abilità musicale…”, un’anima
capace di afferrare un disegno di ordine superiore, unendo i vari
elementi, tessendo trame che altri non possono vedere, scrivendo o
interpretando uno spartito, avendo cura di delegare ma al contempo di vegliare
e sostenere, agendo sempre secondo una visione olistica che lascia spazio
all’individualismo solo se messo a disposizione della collettività.
La lettura in genere dovrebbe provocare
l’effetto domino, la soddisfazione della curiosità, la stimolazione della
memoria, e tutto questo si dovrebbe tradurre in una partecipazione attiva.
Il concetto appena espresso, quello
che compara e unisce filosofo e musicista, mi ha portato immediatamente al
pensiero del compianto Ezio Bosso, che raccontava tempo fa… “Il Direttore
d’orchestra è quello che usa di più l’espressione del suo corpo, si prende cura
dei musicisti che suonano con lui e lui sona con loro; la partitura è la
Costituzione, ognuno dà il suo contributo perché si realizzi la società ideale,
quella dove sei obbligato ad ascoltarti e ad ascoltare il tuo vicino e quindi
migliorare costantemente… non si studia ore e ore per essere i migliori ma per
migliorare… l’orchestra è l’esempio più calzante del concetto di inclusività…”.
La mia lunga introduzione nasce come
reazione alla lettura della proposta dell’amico Claudio, scritta senza pensarci
troppo su, volutamente di pancia.
Ma veniamo alle varie “tracce
dell’album”.
Il primo “brano” è intitolato “Conoscere
é amare?”.
L’autore si interroga ed esamina
aspetti che toccano il nostro quotidiano ma, proprio perché costantemente davanti
ai nostri occhi, vengono utilizzati a mio giudizio senza captarne il
significato intrinseco. Non fornisce quindi spiegazioni, non è compito del
filoso, forse, identificare precise coordinate esistenziali, ma la saggezza che
gli viene attribuita - come frutto di studi ed esperienze - rappresenta un faro
atto a illuminare chi è al suo fianco e chi verrà dopo di lui.
Ma vale più la conoscenza o l’amore?
Ulisse spinse i suoi compagni di
avventura al superamento del limite, a oltrepassare le colonne d’Ercole,
essendo l’uomo nato “per seguir virtute e canoscenza”, quella miscela
tra sapere e curiosità come elemento principe dell’esistenza, unione tra il bene
morale e quello dell’intelletto.
L’amore… concetto impalpabile,
travisato e interpretato in modi variegati, confuso nei vari significati,
spesso immaginato coincidente con lo stato di felicità, altro termine al quale
le definizioni da vocabolario non rendono giustizia.
Rubo una citazione nobile, a
proposito del concetto di amore, quella in cui mi ritrovo maggiormente:
“L’uomo, se ama, è un sole che
tutto illumina; se non ama, è un’oscura abitazione dove arde una misera
minuscola lampada”.
Concludo con le parole di
Sottocornola:
“Allora forse, più ancora che di ragione,
sia pure allargata, si dovrebbe parlare di intelligenza: intelligenza che
riconosce e ringrazia, che venera, tramanda ed edifica, che intravede sempre
nuove opportunità di salvezza e valore, in una parola intelligenza che è amore
- come piena accettazione del dono ricevuto.”
L’abbinamento musicale che mi arriva è quello legato alla canzone “Guinnevere”, scritta da David Crosby dopo aver conosciuto il grande amore, portato via in un attimo dalla sorte avversa, fatto che ha condizionando, probabilmente, tutta la sua vita a seguire.
Guinnevere aveva occhi verdi
come i tuoi, quando lei scendeva
lungo il giardino
alla mattina dopo che aveva piovuto.
Perchè lei non può vedermi?
Il titolo del secondo “brano” è “Cerco
la bellezza”.
Non so se sia proponibile un concetto
a me caro e di cui sono abbastanza convinto, quello secondo cui la bellezza è
tendenzialmente oggettiva con sfumature soggettive.
Personalmente credo esista una
bellezza universale, capace di superare ogni caratterizzazione, che si rifà ad
un modello culturale con cui si cresce e ci si forma: ma perché al cospetto di
un’opera d’arte si può rimanere in contemplazione estatica per ore, oppure
restare indifferenti?
La bellezza non è una qualità intrinseca
delle cose, varia a seconda della percezione, diversa per ogni mente, ma
esistono parametri che mettono tutti d’accordo, come una particolare
rappresentazione della natura o la visione di un volto celestiale, situazioni
che provocano la stessa reazione qualunque sia lo stato d’animo del momento.
I modelli imposti e “catturati” dai
giovani determinano ruoli e figure discutibili, ma è forse questo un discorso
da delegare maggiormente alla sociologia o all’antropologia, scienze che
potrebbe spiegarci perché un qualsiasi giovane millennial - così come un
adolescente degli anni ’70 - abbia estrema necessità di conformarsi al gruppo,
qualunque siano le conseguenze.
Con il termine “bellezza” indichiamo
generalmente una perfezione estetica, un'armonia di forme che suscita
ammirazione. Top model e dipinti classici dimostrano che la bellezza esiste, ma
credo sia pienamente condivisibile l’assioma “la bellezza sta negli occhi di
chi guarda", celebre citazione di Oscar Wilde utilizzata dall’autore
nel suo ragionamento iniziale.
E poi tutto è relativo, dipendente
dal contesto sociale e dal momento - e luogo - in cui si vive, e non c’è dubbio
che la frase di Anna Frank “Pensa a tutta la bellezza ancora rimasta attorno
a te e sii felice” sia il risultato della sua particolare condizione di
vita.
Il ragionamento dell’autore è molto
articolato e temo di non rappresentarlo appieno, giacché ho deciso di utilizzarlo
come stimolo per osservazioni del tutto personali, ma prendo in prestito ancora
la sua chiosa finale:
“Dunque, come qualcuno ha detto,
la bellezza salverà il mondo se noi salveremo la bellezza. Prima di tutto in noi.
Salvando, di conseguenza, le nostre anime.”
Il riferimento musicale che ho scelto è “Wonderful Tonight”, di Eric Clapton.
È sera tardi; lei si sta chiedendo
cosa indossare
Si trucca e si spazzola i suoi lunghi
capelli biondi
E allora mi chiede "Sto bene
così?"
E io rispondo si, sei splendida
stasera
E allora mi chiede "Ti senti
bene?"
E io rispondo sì, mi sento
magnificamente stasera
Perché vedo la luce dell’amore nei
tuoi occhi
Ma è la perfezione che davvero andiamo
cercando?
“Pensare la morte aiuta la
vita?”, è la denominazione del terzo episodio del book/album.
È questo un tema che, a partire da un
certo momento della vita - variabile a seconda dei casi - si ripropone con
pericolosa frequenza e, per quanto mi riguarda, è oggetto di pensiero pressoché
quotidiano, vedendo giorno dopo giorno ridotto il tempo a disposizione,
terrorizzato dal lasciare affetti e cose materiali, ovvero il frutto di un
lungo e capillare lavoro, una creazione incrementale che, si immagina, verrà a
mancare all’improvviso.
Gira da un po' di tempo sul web una
vignetta dove è rappresentato un signore che, oltrepassato il confine temporale
a lui concesso, si presenta al cospetto di un giudicante, e lo fa con in mano un
sacco pieno di denaro, essendo lui stato uomo ricco. Il suo interlocutore lo
ammonisce: “… lascia pure fuori, qui non servono!”. Una sorta di “A livella” di Totò!
La lettura mi ha chiarito alcuni
aspetti, elementi che spesso hanno bisogno di una spinta per venire a galla. Il
pensiero è di Emanuele Severino, pensatore ispirato che prima della sua
scomparsa si è espresso così sull’argomento: “Si teme la morte perché la si
confonde con l’agonia, con la sofferenza, che sono fenomeni della vita. Ma dopo
l’agonia cosa c’è? Ecco, dunque, il problema della morte, concepita nella
nostra cultura come annientamento. Ma è davvero così? O la morte, piuttosto, è
un proseguire infinito oltre il dolore che caratterizza la nostra vita? Ma
l’uomo è destinato alla Gioia, superamento di tutte le contraddizioni che
caratterizzano la nostra esistenza. La Gioia non è la felicità, che è sempre
una volontà soddisfatta, ma è infinitamente più alta, ecco perché avvicinarsi
alla morte è avvicinarsi alla Gioia.”
Morte o resurrezione, luoghi di culto
o preghiere solitarie?
Un capitolo che mi ha particolarmente
coinvolto. D’altro canto, impariamo sin dai primi anni di scuola che esiste un
luogo a cui tutti siamo destinati in funzione del nostro comportamento terreno
e, qualunque sia il livello di intelligenza, ci portiamo appresso un’idea
drammatica che cozza contro ogni tipo di razionalità, che tiene conto che qualche
peccato lo avremo pur commesso, e quindi il trapasso sarà probabilmente l’entrata
verso un mondo fatto di sofferenza, tanto per cambiare: guadagnarsi il Paradiso
è roba per poche anime perfette? E poi, seppelliti sottoterra, come si fa a
respirare, o peggio ancora, che dolore bruciare in un forno crematorio!
Non so se esiste soluzione, ma forse
è meglio non pensarci piuttosto che insistere per cercare di comprendere in
anticipo i contorni di un mistero che tutti un giorno risolveremo; l’importante
in fondo è l’opera di contenimento, atta a evitare che la paura di morire ci
impedisca di vivere.
Dice Sottocornola: “La morte
separa e divide, nel nome della verità e del bene, ma ci addita l’abisso perché
abbiamo a scegliere di continuare la salita verso la vetta, quel luogo della
gioia di cui parla Severino", il luogo delle risurrezione e della speranza.”
La canzone che ho scelto come rappresentativa è “The End”, dei The Doors…
Questa è la fine, mia cara e unica
amica
la fine dei nostri piani elaborati,
la fine di ogni cosa stabilita
Non c'è salvezza nè sorprese
A “Il piacere del dovere”
l’autore dedica più spazio, una sorta di “suite” all’interno del disco
che gira sul piatto.
La prima citazione dell’autore
riporta ad un principio formulato nel ‘700 dal filosofo scozzese David Hume,
che consiste nel mantenere distinti il piano dell'essere e quello del dover
essere, in modo da valutare l'utilità di vari comportamenti.
Facendo riferimento alla nostra
cultura, partendo quindi dalla visione di “casa nostra”, si può dire che si
cresce con il pensiero regalato/imposto dalla formazione scolastica, affiancato
all’esempio famigliare e a quanto ci offre il contesto in cui viviamo
quotidianamente. E poi ci sono i media, gli esempi di un mondo che un tempo era
nascosto e che ora diventa un altro potenziale contenitore di linee guida.
E ad un certo punto ci appare chiaro
quali siano le cose che occorre fare, i sani principi che la società si aspetta
che noi osserviamo, una serie di dogmi, leggi scritte, consuetudini e buoni
comportamenti, a volte oggettivi altre tipici del contesto famigliare.
Conformarsi al pensiero comune
diventa molte volte un obbligo incontrollabile, tanto da arrivare spesso a
quello che Orwell descrisse come “bispensiero”, indicando così il meccanismo
mentale che consente di ritenere vero un qualunque concetto così come il suo
opposto, a seconda della volontà plagiante di un ente di ordine superiore: l’obiettivo
è quello di non discostarsi mai dall’ortodossia codificata.
“Fare il proprio dovere”
diventa un modus vivendi, un obiettivo di vita da cui non si può prescindere e
che tiene in ordine la propria coscienza.
Ma può essere puro piacere mostrarsi
sempre e comunque bravi soldatini, rinunciando, a volte, al libero arbitrio?
Mi sono sempre chiesto se quei
filmati che riportano ai lavoratori giapponesi intenti a fare esercizi fisici,
tutti assieme (ma non solo i lavoratori), siano frutto di imposizione e/o se
quei momenti vengano vissuti con piacere.
Il loro modello culturale prevede
poche vacanze, tante ore supplementari e il lavoro al primo posto: forse la risposta
risiede nella certezza che molte famiglie si sfasciano, tanti non si sposano e sono
numerosi i casi di suicidio!
Ritorno a me e ripenso alla mia vita
e alle persone che mi è capitato di conoscere in giro per il mondo, e non
ritrovo una tipicità geografica culturale, ma una moralità più o meno
importante, un’integrità di cui vantarsi, con piccole trasgressioni delle
regole come manifestazione di libertà, seppur all’interno di regole codificato
e radicate.
“Sono del resto misteriosi e
imprevedibili i percorsi grazie ai quali ogni coscienza tende verso la luce e
prova a risplendere.” (C.S.)
L’associazione musicale che utilizzo è questa volta italiana… trattasi di “Canzone di notte n°2”, di Francesco Guccini, che non ascoltavo da anni ma che mi è arrivata di getto nel corso della lettura…
E voglio in questo modo dire
"sono"
A dir, "Dove ho mancato, dov'è stato?"
A dir, "Dove ho sbagliato?"
Eppure, fa piacere a sera
Andarsene per strade ed osterie, vino
e malinconie
Riflessione n. 5: “Una spina
nella carne”.
Il riferimento è ad un passo famoso
di una epistola paolina: “Perché non montassi in superbia per la grandezza
delle rivelazioni, mi è stata messa una spina nella carne, un inviato di satana
incaricato di schiaffeggiarmi, perché io non vada in superbia.”
Un’espressione così forte da essere
diventata proverbiale: ancora oggi in italiano si dice “avere una spina nel
fianco”, e con ciò ci si riferisce a persone o cose che risultino
fastidiose se non dolorose, causanti una condizione complessiva indissolubile e
però, in ultima analisi, salvifica.
L’espressione di Paolo è molto ambigua,
nonostante la sua indiscussa efficacia: chi agisce è una cosa, ma anche una
persona, capace di compiere un’azione umiliante come lo schiaffeggiamento;
inoltre, la sua provenienza è oscura (è un incaricato di satana) ma il suo fine
è buono (che l’Apostolo non monti in superbia): ce n’è abbastanza per mandare
in tilt ogni tipo di commentatore, anche i più attenti nell’interpretazione dei
testi.
Venendo a pensieri ben più comuni, mi
viene da delineare la condizione degli uomini e delle donne che ho avuto la
possibilità di tastare nel corso di un periodo di vita diventato
quantitativamente importante. Il vero fil rouge, il legame che esiste tra le
tante persone che fanno parte di un ideale campione analizzato - significativo
per numero e rappresentativo per varietà - è la necessità di uno stato di
serenità, intesa come vita in cui la vetta positiva si tocca raramente, ma si
anela la presenza di una piattezza positiva, quella che non manda mai in
affanno.
Ma poi esiste la realtà, i dolori che
arrivano improvvisi e a volte insuperabili, che riguardano la sfera affettiva,
la salute, la condizione generale che tiene conto di aspetti economici e
lavorativi, e potrei aggiungere molto altro.
Tra i miei insegnamenti relativi
all’affrontare al meglio la condizione lavorativa (anche a me capita di essere
docente per materie specifiche) c’è l’accettazione di ciò che, obiettivamente,
non si può cambiare, qualcosa che procura disagio e ci condiziona a tal punto
da provocare malessere, ma che nessuno al mondo potrà cancellare e quindi ogni
tipo di battaglia risulterà una inutile perdita di energie.
Tra l’accoglimento di un fatto
immodificabile (penso ad esempio ad una legge dello stato) e una reazione
inutile, magari scomposta, c’è un mondo pieno di ignavi e accidiosi che non
trovano apparente giustificazione.
Dice Sottocornola:
“Siamo quindi testimoni di una
perpetua dialettica tra desiderio di trascendenza e condizione incarnata, ben
riassunta dall’invito evangelico a “portar la propria croce ogni giorno”, ma
guai a noi se interpretassimo ciò come un alibi a lasciare tutto com’è,
scivolando nell’inerzia o nella rassegnazione, in una mera accettazione dello
status quo, mentre il primo segnale del nostro impegno a reggere tale peso sta
proprio nel continuo sforzo di rendere abitabile la nostra condizione umana nel
segno della libertà dello Spirito”.
In questo caso l’abbinamento musicale mi viene suggerito dall’autore stesso, “La chanson des vieux amants”, di Jaques Brel, che descrive un amore che diventa alleanza, attraversando così le numerose tempeste e contraddizioni della vita:
Di sicuro abbiamo avuto momenti
burrascosi
Vent’anni d’amore folle
Mille volte hai fatto i bagagli
Mille volte io ho preso il volo
E più il tempo ci accompagnava
Più il tempo era la cagion del nostro
tormento
Ma non c’è illusion peggiore
Per degli amanti di vivere in pace
Ce ne è voluta di bravura
Per essere vecchi senza essere adulti
Non ci si lascia andare con la
corrente
Ma si è sempre dolcemente in guerra
Al punto n. 6 troviamo “Il bene
che ci è possibile”.
Luogo comune - o forse citazione
nobile - sottolinea come la perfezione non sia di questa terra, affermazione di
per sé frustrante se si pensa alla pretesa umana di puntare sempre in alto,
alzando l’asticella sino a toccare il tetto del cielo. Obiettivamente
un’utopia, anche se, una volta perseguito il principio, anche il solo
miglioramento sarà motivo di soddisfazione: “Progressione… non perfezione!”.
La perfezione è uno stato esemplare
dove tutto è esatto. Dal momento che le cose migliori sono senza colpa o
difetto, la perfezione rappresenta dunque uno stato ideale dove tutto è al 100%:
certo, è impossibile da trovare se si ragiona in termini assoluti, ma le
persone spesso usano impropriamente il termine “perfezione” come complimento
per qualcosa che proprio non poteva essere migliore.
In questo processo di continuous
improvement - a mio giudizio meritorio ma, ahimè, a molti sconosciuto -, ci
proclamiamo spesso giudici esterni, definendo la quantità di bene e male che
alberga in ogni persona incontrata, a volte osservata da lontano, quando tutto
appare genuino perché spontaneo, magari fuori dal contesto e dal ruolo
ufficiale, quello che impone regole e comportamenti. E il punto di vista privilegiato
si focalizza sui dettagli, quelli di cui Leonardo diceva: "I dettagli
fanno la perfezione, e la perfezione non è un dettaglio…”.
Ma esiste un manuale che possa
aiutare chi ha le idee meno chiare, o comunque indicare la miglior via
possibile per fuggire dagli alibi che il quotidiano ci fornisce, quelli che si
alimentano attraverso il facile egoismo, obiettivamente diffuso di questi tempi?
Fare del bene e vivere la vita
pensando anche gli altri è una di quelle cose che maggiormente può rendere la nostra
esistenza particolarmente degna e meritevole.
Molti filosofi, saggi e personaggi
storici ci insegnano che è proprio nel dare che riceviamo e che nell’altruismo
si trova la chiave della felicità. Magari si potrebbe partire dalla question
di Martin Luther King: “Cosa stai facendo per gli altri?”. Può essere questa la domanda più urgente e
persistente della vita?
Per Sottocornola il male assoluto
potrebbe configurarsi allora come un concetto limite e il pertugio di bene
presente anche nel peggior criminale potrebbe alla fine prevalere e condurre
alla salvezza: “Che il Paradiso sia una casa o un destino comune è una
prospettiva di speranza, che tuttavia non può non conciliarsi con quella
esigenza di giustizia che alberga non solo nel cuore degli uomini, ma nella
stessa misericordia divina.”
Per rappresentare il tutto
musicalmente ho scelto una canzone la cui sola musica diventa per me un testo
espressivo, che sento raramente, per scelta, perché mi provoca dolore, essendo
in qualche modo legata al ricordo di mio padre.
Ma anche la lirica esprime immagini che riappacificano col mondo e portano a dimenticare ciò che di brutto esiste. Si tratta di “What a wonderful world”, di Louis Armstrong… il bene e il bello ci circondano, anche se spesso non ce ne accorgiamo!
I colori di un arcobaleno sono così
belli nel cielo
Lo sono anche sui volti di persone
che passano
Vedo amici che si stringono la mano,
si dicono “come stai?”
Stanno veramente dicendo, “Ti voglio
bene”
Sento le ragazze piangere, le vedo
crescere, impareranno molto ancora
che nemmeno lo sapranno, e penso tra
me e me
Che Mondo magnifico!
Passiamo a “Non resta che far
torto o patirlo?” …
Ecco un altro pensiero che occupa
largo spazio nel libro e che indurrebbe ad un’analisi approfondita, con la
centralità della guerra e di tutto ciò che gira attorno ad essa.
Anche io come l’autore ho vissuto un
periodo “felice”, privo di guerre casalinghe, magari poco coinvolgente rispetto
ad eventi tragici che non si considerano propri, davanti ai quali si riflette
nel corso di un servizio televisivo, ma poi ritorna ad essere topic per altri,
meno fortunati, in luoghi non certo meta di una visita di piacere.
Estrapolo dal capitolo alcuni
pensieri terzi, come quello di Lenin, che a proposito della violenza
rivoluzionaria dichiarava apertamente: “Per fare una frittata bisogna
rompere delle uova…”, laddove con le “uova” si fa riferimento ad essere
umani.
Ed ho scoperto un’osservazione illuminante
del teologo Vito Mancuso, che dice: “Talora non si dà guerra “o” pace, bensì
guerra “e” pace, con la congiunzione “e” a connettere intimamente i due
fenomeni; la pace non è mera assenza di guerra, ma è piuttosto un atteggiamento
interiore che può contenere l’idea di conflitto inteso come legittima difesa.”
E qui si potrebbe aprire il dibattito su quanto sta accadendo da un anno a
questa parte, a poche migliaia di chilometri da noi.
Ho provato a immaginare quale possa
essere il disagio - materiale e psicologico - che tocca all’improvviso un
popolo come quello ucraino, cercando un minimo di immedesimazione, qualcosa del
tipo… “e io cosa farei?”. Differenti culture e storie specifiche non
consentono un paragone soddisfacente, ma esistono leggi universali che
dovrebbero aiutarci a comprendere il comportamento umano, e per chi non la
conoscesse suggerisco un approfondimento della Piramide di Maslow,
definita a metà dello scorso secolo da Abraham Maslow - psicologo statunitense
- che stabilisce i vari livelli a cui sono associati i bisogni umani (basici
fisiologici, sicurezza generica, ruolo sociale, stima di sé e
autorealizzazione), un incremento deciso, legato al progredire dell’età - e
quindi si suppone allo stato sociale raggiunto - che spesso conduce al top col
passare del tempo, ma che decade in un solo attimo quando viene a mancare un
elemento che sta alla base, sia esso la salute o la propria sicurezza.
Conclude Sottocornola: “È
possibile distinguere, almeno virtualmente, due opzioni ontologiche: una è
quella disegnata dalla Storia ufficiale, in cui spesso vince il più cinico, che
non disdegna di usare qualsiasi mezzo per raggiungere i propri fini, approccio
di cui la guerra è paradigma; l’altra è quella Storia invisibile,
contrassegnata dalla qualità del nostro rapporto col senso profondo del tutto,
e dunque alla nostra capacità di amare, lasciandoci attraversare da quella
grazia che trasfigura anche le nostre povere storie nella luce della gloria che
attendiamo. Si possono infatti vivere le medesime realtà, ma diverso è l’esito
che l’intenzione produce. Guerra e pace sono prima di tutto opzioni dell’anima.”
La scelta sonora ricade fatalmente su
un testo che contesta apertamente ogni tipo di guerra. Ci sarebbe da
sbizzarrirsi nella scelta, ma seguendo la logica di questo scritto, basata sulla
prima risposta allo stimolo della lettura, propongo ciò che mi è venuto in
mente come “prima immagine”, la celebre “Blowin' in the wind” di Bob Dylan, brano scritto nel 1963, divenuta la colonna sonora del movimento
contro la guerra negli anni successivi…
E quante orecchie deve avere un uomo prima
che ascolti la gente piangere?
E quanti morti ci dovranno essere
affinché lui sappia che troppa gente è morta?
E per quanti anni alcuni possono
vivere prima che sia concesso loro di essere liberi
E per quanto tempo può un uomo girare
la sua testa fingendo di non vedere…
la risposta, amico mio, se ne va nel
vento…
Ci avviciniamo alla “fine del disco”,
ma mancano ancora un paio di pezzi, e ora tocca a “Il lavoro: stanca o
nobilita?”.
E qui si apre un nuovo mondo su cui
intervenire, ma che non può prescindere da fatti incontrovertibili, uno in
particolare: prendiamo in considerazione quello che un tempo era il lavoratore
tipo, un uomo - o una donna - che si “limita” alle sue otto ore di fatica -
fisica o intellettuale - e che magari vive nella stessa città in cui è impiegato
- come si usava un tempo -, quindi una sorta di privilegiato che evita code,
treni, auto, e magari torna pure a casa per il pranzo. Anche in questo caso
limite, e non più proponibile, l’impegno diventa di otto ore, ovvero metà della
vita attiva, se si ipotizza un sonno di pari entità.
Appare chiaro come sia impossibile
immaginare il lavoro come mero mezzo di sostentamento, ovvero occorre pensare
che una qualsiasi attività, manuale o intellettuale, debba dare soddisfazione,
quel piacere che ti porta a non guardare l’orologio in ogni minuto della
giornata, nella speranza che le lancette girino all’impazzata.
Dietro al “far carriera”, spesso
oggetto di critica, esiste una necessità che oltrepassa gli aspetti economici e
il narcisismo umano, e cioè la soddisfazione che comporta un ruolo che prevede
responsabilità.
La tecnologia, spinta negli ultimi
tempi dall’emergenza sanitaria, prevede sempre più mezzi che facilitano lo
svolgimento della propria attività, anche se attenua la socialità, parte
integrante di ogni attività.
Se devo trarre spunto dalla mia lunga
esperienza, fatta di gestione gruppale e di osservazioni di situazioni terze,
mi viene facile sentenziare che occorre fare il possibile per arrivare alla
creazione di un ambiente di lavoro sereno, dove la naturale e fisiologica
durezza delle situazioni sia attenuata dalla suddivisione dei compiti e dalla
comprensione, dal “trattare con cura” donne e uomini che reagiranno di
conseguenza, insomma, non è un caso se al secondo posto - in Italia e in Europa
- nella grande famiglia delle malattie
professionali sia collocato il disagio provocato alle persone dal lavoro
(stress lavoro correlato) e, assicuro il lettore, è questo un problema a cui si
potrebbe ovviare agevolmente!
Ho scelto in questo caso una vecchia canzone di Le Orme dal titolo “Se io lavoro”…
Se io lavoro è perché non so che
fare, ho pochi amici con cui passare il giorno
E non vorrei che si parlasse male di
me, che si dicesse che cerco solo di guadagnare
Perché questo non è vero, non è mai
stato vero
Perdere tempo vuol dir restare
indietro, e se dovessi tornare a nascere un'altra volta
direi al Signore di darmi la forza
del contadino
E non mi manca certo la gioia di
vivere…
E arriviamo alla fine del viaggio che
Claudio Sottocornola ci propone, e troviamo l’epilogo, “Perché abbiamo
perso la gioia?”.
È questo un titolo che non richiede
particolari interpretazioni, e il fatto che sia posto in chiusura dovrebbe
avere un significato preciso, una sorta di paradigma dei vari concetti
espressi, che contiene intrinsecamente un messaggio che induce al cambiamento
di rotta.
Potendo rapportare la mia giovinezza
a quella dei millennial, l’elemento che più mi colpisce è lo scemare
dell’entusiasmo, la mancanza di stupore rispetto a piccole cose a cui non si dà
più significato. Eppure, la capacità di meravigliarsi al cospetto di minuscole
rappresentazioni del quotidiano mi pare una ricetta formidabile per migliorare
la qualità della vita. E poi programmare eventi futuri permette di uscire dalla
routine e immaginare scenari che a volte, con un po' di buona volontà, si possono
concretizzare.
Certamente esistono bisogni primari -
e ritorno così alla piramide di Maslow - ma la certezza di avere tutto a
disposizione, in qualsiasi momento del giorno, non sempre aiuta: santa o
maledetta tecnologia!
Anche in questo caso la musica mi viene in
aiuto, e mi riporta all’entusiasmo giovanile legato all’LP appena uscito (comprato a
turno tra gli amici per dividere le spese), condiviso in un a stanza e
consumato, quasi imparato a memoria: il famoso rito del vinile!
Tutto ciò, purtroppo non esiste più,
tutto è disponibile in modo “liquido” e non c’è musica o artista che venga
ascoltato con attenzione: e se i Pink Floyd nascessero oggi e il loro “The
Dark Side Of The Moon” (che quest'anno compie 50 anni) ne fosse la conseguenza, di
certo non diventerebbe uno degli album più venduti al mondo, e i PF sarebbero
un nome come tanti nel panorama musicale.
Altri tempi quindi, ma le distanze
temporali e culturali non giustificano questa sorta di incapacità di apprezzare
ciò che ci circonda.
Ma qual è il ruolo della meraviglia
nella vita dell'uomo? Chi riconosce i suoi vantaggi, afferma che oltre a
migliorare la propria vita, fa sentire meglio le persone care e rappresenta la
ricetta ideale per ridurre il disagio, attraverso piccole gioie quotidiane,
come un progresso del proprio figlio a scuola, una giornata di sole in mezzo
alla natura o una gentilezza rivolta a chi ne ha più bisogno.
“Abbracciare con lucidità e
trasporto ciò che la nostra civiltà, e dunque i nostri avi, ci hanno trasmesso
di bello e di buono non può che ingenerare in noi anche una sorta di felice
operosità nell’alimentare e tramandare tale eredità, e anche questo contribuirà
a dar senso e spessore al nostro vivere.”
L’ultima corrispondenza sonora è la famosa “A perfect day”, di Lou Reed, che si presta a differenti interpretazioni, ma io scelgo quella che esalta la serenità che si ritrova nei piccoli atti quotidiani…
Proprio una giornata perfetta, bere sangria nel parco e poi, più tardi, quando fa buio tornare a casa…
I problemi messi da parte, sono
contento di averla trascorsa con te…
Proprio una giornata perfetta, mi ha
fatto dimenticare me stesso, ho pensato di essere un altro, una persona
migliore
A conclusione di questo mio inusuale
e bizzarro commento, mi viene da ringraziare Claudio Sottocornola per avermi
indotto a soffermarmi su aspetti che, col passare del tempo, assumono per me un
valore sempre maggiore. Mi rendo conto di aver agito come una sorta di
tennista, che rimanda la palla oltre la rete come risposta ad un tiro da fondo
campo, ma qualche argomentazione personale andava fatta, nel rispetto del
rapporto osmotico tra autore e lettore che si viene a creare quando tutto
funziona come dovrebbe.
E se tutto potesse cambiare
all’improvviso a seguito delle nostre preghiere e chiarezza di idee?
"Quando preghi per la pioggia, il fango va messo in conto!", ma il fango sarebbe sopportabile se potessimo eliminare la siccità!