lunedì 30 ottobre 2017

"Rory Gallagher- il bluesman bianco con la camicia a quadri"- il libro di Fabio Rossi: intervista all'autore



Fabio Rossi è l’autore del libro di fresca uscita “RORY GALLAGHER- il bluesman bianco con la camicia a quadri”, Chinasky Edizioni.
Non esistono biografie complete nella nostra lingua e questo credo sia già utile a sottolineare il paradosso che appare evidente quando di parla di Gallagher: un artista fondamentale per il blues e per l’utilizzo della chitarra in generale, ridotto al minimo della visibilità in un periodo in cui i musicisti coevi hanno creato il proprio mito. Ma Rory non aveva bisogno di essere considerato un “Dio” - lo è diventato suo malgrado - perché il suo unico interesse era la musica, quella che creava attraverso la sua inseparabile Stratocaster. 
Lontano dallo star system, refrattario alla pubblicità spicciola, distante anni luce dalla facilità commerciale del 45 giri, fu innovatore e precursore dei tempi, stimato da tutti ("rischiò" anche di diventare un possibile Stones!), indicato persino da Hendrix come migliore nel mondo; portò avanti un disagio che culminò in una dipartita prematura a seguito di un trapianto di fegato.
Nessuna comparazione con gli artisti maledetti dell’epoca, ma il malessere interiore trovò sola attenuazione nello smodato uso di alcolici, tipico di quei tempi, spesso testimoni di miscele letali.
E poi un irlandese che non beve non si era mai visto! Già, un irlandese che fa blues, che trae ispirazione dai suoi maestri d’oltreoceano e raccoglie i gradi sul campo, prendendo le distanze da ogni tipo di visibilità a tutti i costi, favorendo al contrario la sostanza e il contatto con il pubblico. Un uomo semplice, differente in tutto e per tutto dai modelli imposti, musicista unico.
Dobbiamo ringraziare Fabio Rossi per il grande tempo dedicato alla raccolta documentale che, unita alla sua immensa passione, fanno sì che la vita di Rory Gallagher venga raccontata oggi in Italia con una sequenza logica e oggettiva, condita dai giudizi personali, con elementi di vita che si fondono al commento degli album, tutti vincenti, come evidenzia Rossi.
Il book è anche carico di aneddoti significativi che riguardano quel mondo ormai alle spalle, e che vale la pena di ricordare. 
Eccone uno particolarmente divertente.

L’aneddoto che segue è un’ulteriore testimonianza della “pericolosità” di Jerry Lee Lewis (The Killer), nonché un mirabile esempio delle doti umane che contraddistinguevano Rory Gallagher. Nel 1974 fu invitato a un concerto di Jerry al Roxy di Los Angeles. Tra gli spettatori c’era anche John Lennon che già solo con la sua presenza finì per oscurare il Killer. Rory rievoca così quell’incredibile serata: “Lennon si trovava a Los Angeles in quel periodo, i suoi capelli erano davvero corti, ma tutti lo riconoscevano e si voltavano a guardarlo mentre prendeva posto al Roxy. Inutile dire che questo fatto lo aveva “messo in ombra” e Jerry 47 Lee stava perdendo la testa. Iniziò a suonare Jerry Lee Rag, ma tutti stavano ancora guardando Lennon e parlando di lui. Improvvisamente Jerry Lee si fermò e iniziò a dire che i Beatles e i Rolling Stones erano “merda” e che nessuno poteva fare vero rock’n’roll nel modo in cui lo faceva lui. Lennon si divertiva e iniziò a incitare Jerry Lee gridando “sì, hai proprio ragione, i Beatles sono merda!”. La gente cominciò a ridere, ma Jerry Lee pensava che lo stesse insultando, così andò fuori di testa del tutto. Scansò il pianoforte sul palco e divenne una furia. Il clima nel Roxy era teso, la maggior parte delle persone lasciarono il locale temendo che Jerry Lee potesse andare pericolosamente fuori dai gangheri e usare una delle armi da fuoco che si diceva portasse sempre con sé, mentre gli altri rimasero lì per vedere che cosa sarebbe accaduto. Non avevo paura di Jerry Lee perché avevo lavorato con lui, ma tutti gli altri erano ovviamente molto spaventati. Non c’era nessun altro quando io e Tom O’Driscoll (suo amico e guardia del corpo non ufficiale) ci recammo nel camerino. Iniziammo a chiacchierare con Jerry rievocando le sessioni di registrazione. Tutto ad un tratto la porta si aprì ed entrò John Lennon. Ci fu un silenzio di tomba per un paio di secondi. Fissai Jerry Lee per vedere come avrebbe reagito. Tom non poté resistere a quest’opportunità, era stato un grande fan dei Beatles e non appena si avvicinò a Lennon si lasciò cadere in ginocchio, baciò la sua mano e disse: “Ho aspettato vent’anni per ottenere l’autografo del re del rock and roll”. Naturalmente questo scatenò una profonda ira in Jerry Lee che dapprima si tastò il calzino come per prendere la pistola e poi iniziò a guardarsi intorno per trovare qualcosa da gettare o rompere. Lennon, nel mentre, autografò rapidamente un pezzo di carta a Tom e poi, per stemperare la situazione, prese la penna e un altro pezzo di carta da Tom e andò da Jerry Lee. Fece esattamente quello che Tom aveva fatto con lui: si inginocchiò, baciò la mano di Jerry Lee e disse: “Ho aspettato vent’anni per ottenere l’autografo del vero re del rock and roll!”. Jerry Lee era felice: autografò il pezzo di carta, iniziarono a parlare e poi tutto andò bene. È stato un momento meraviglioso.”

Un libro scritto con molta cura, che ha il pregio di far convivere la testimonianza oggettiva con la giusta personalizzazione, dando luce ad un musicista che dovrebbe essere conosciuto da chiunque decida di avvicinarsi al mondo dei suoni.
Magnifiche le fotografie allegate.
Fabio Rossi con il suo scritto ci dà una grossa mano nell’opera di diffusione di Rory Gallagher, un uomo bianco di blues, un uomo, quasi sempre, con la camicia a quadri.



L’intervista a Fabio Rossi

Domanda d’obbligo: ti ho conosciuto come progger appassionato e ti ritrovo col blues nel sangue… quali sono i sentieri musicali che ami percorrere?

Sono un grande appassionato di musica da quasi mezzo secolo ormai, e spazio dal rock all’heavy metal, passando per il blues, la fusion, il progressive e il punk. Diciamo che ho una gamma di gusti piuttosto estesa che comprende anche la classica. A casa possiedo oltre un migliaio di titoli tra long playing, CD e DVD, nonché una cinquantina di libri sui generi citati e monografie di band e artisti famosi. Amo la musica, quella con la M maiuscola.

Il libro che hai appena rilasciato ha come fulcro la storia di Rory Gallagher, un uomo di blues, uno che ha lasciato il segno pur restando ai margini della grande visibilità, in un periodo in cui, qualcuno di importante ha detto, “… bastava essere giovani per essere delle star!”: ti sei fatto un idea precisa sul perché di questo successo a metà, nonostante il grande talento?

Questo tema è uno dei fulcri del mio libro. Appare incredibile che un talento puro come Rory Gallagher non si sia affermato come star di primo livello nel rutilante mondo del rock, basti solo considerare l’incondizionata ammirazione di tanti personaggi del calibro di Gary Moore, Jimmy Page, Brian May, Joe Bonamassa, The Edge e altri ancora. Lo volevano nei Rolling Stones e nel 1972 è stato premiato come miglior chitarrista; nonostante tutto ciò, e a fronte di una discografia eccellente, Rory Gallagher viene sovente relegato in secondo piano. Perché? Di certo lui era refrattario allo star system, detestava i 45 giri, i passaggi radiofonici, e non dedicava troppo tempo alla registrazione dei suoi album, tutti di valore ma nessuno in grado di essere ricordato alla stregua di “In Rock” dei Deep Purple o “II” dei Led Zeppelin. L’avidità e l’incapacità del manager dei Taste ha provocato lo scioglimento di una delle band più promettenti di quel periodo e i musicisti che hanno accompagnato Gallagher nella sua carriera non erano al suo stesso livello, oltre a non possedere il carisma giusto per cercare di centrare il successo pieno, insomma gente tipo Roger Glover o John Paul Jones. Come vedi alla tua domanda non è facile rispondere. Forse chissà, anche il fatto di essere irlandese potrebbe averlo penalizzato, ma sono solo congetture, resta la sua superba musica e il mio sforzo letterario è teso a farla conoscere il più possibile.

Perché hai deciso di focalizzare le tue idee su Gallagher? C’è qualcosa che ti ha colpito in modo particolare rispetto ad altri artisti coevi?

Per me Gallagher è sul podio come miglior chitarrista con Jimi Hendrix e Duane Allman. E’ un artista che ascolto da sempre senza mai stancarmi, e non sopportavo l’idea che nessuno in Italia si fosse mai degnato di dedicargli un libro. Ci ho pensato io!

Quali sono state le difficoltà maggiori che hai trovato nel reperire documentazione e testimonianze?

Le difficoltà sono state molte, perché da noi si trova poco e niente. Ho dovuto setacciare il web e procurarmi le riviste dell’epoca, quasi tutte straniere, dove si parlava di lui. Ho acquistato anche alcuni libri in inglese da dove ho estrapolato molte delle testimonianze che ho poi inserito nel mio saggio. Una faticaccia, ore e ore a tradurre dall’inglese, ma il risultato finale penso sia soddisfacente.

Il blues è musica tecnicamente semplice ma che spesso è rifiutata quando è proposta da gente di pelle bianca… c’è diffidenza verso chi, qualcuno ritiene, non ha storicamente sofferto abbastanza per comprendere l’anima del blues: che cosa avevano in più Gallagher, Mayall, Clapton per essere accettati a pieno titolo?

Sono stati accettati perché erano dei veri e propri talenti e dove c’è il talento non conta il colore della pelle.

Gallagher è stato anche un innovatore, e sono memorabili, ad esempio, le sue performance col mandolino, uno strumento legato ad altre tradizioni: cosa ti ha sorpreso di lui studiandolo a fondo?

Gallagher era mostruoso con la slide, forse il migliore addirittura, ha abbracciato il jazz con i Taste (suonava anche il sassofono), il folk, il rock’n’roll, l’hard rock e naturalmente l’amato blues con risultati sorprendenti. “Going to my Hometown” è il pezzo maggiormente apprezzato dai fan che lo hanno visto dal vivo; ho raccolto le loro testimonianze inserendole nel libro e tutti ricordano vividamente il mandolino che primeggia in quel pezzo trascinante.


Esiste un album che ti sembra sia più importante di altri?

I tre live ufficiali: “Live! In Europe”, “Irish Tour ’74” e “Stage Struck”. Tre dischi imperdibili!

Scrivendo un libro come il tuo, una biografia, inevitabilmente si vive per un certo periodo in simbiosi col personaggio di cui si parlerà: cosa ti ha lasciato nel profondo questa esperienza?

Al di là della valenza artistica, Rory mi ha colpito per la sua semplicità, riservatezza e altruismo. Era davvero un’antistar, era uno di noi, era “il proletario irlandese”, era un grande e solo il fatto di essere andato a Belfast a suonare mentre tutti evitavano quella città per paura degli attentati fa di lui un mito. 

Come spiegheresti in poche parole ad un giovane la figura di Gallagher, provando a stimolare la curiosità che dovrebbe spingere ad un futuro ascolto?

In questo vuoto assoluto che permea l’universo delle sette note, un giovane deve solo guardarsi indietro e cercare di comprendere la filosofia di artisti veri come Rory Gallagher. Oltretutto la sua proposta musicale è davvero unica e merita attenzione da parte di chi non lo conosce ancora. Ci tengo a precisare che, come nel caso del mio primo libro sul rock progressivo, scrivo essenzialmente per i giovani affinché conoscano quali sono le loro radici e quello che per motivi anagrafici si sono persi.

Come hai pianificato la pubblicizzazione del libro? Sono state pianificate delle presentazioni?

Il libro è stato presentato il 7 ottobre a Cerea (Verona) nell’ambito dell’8° raduno Blues Made In Italy grazie all’interessamento dell’organizzatore Lorenz Zadro che ringrazio pubblicamente. Il 31 ottobre parteciperò al Rory Gallagher Italian Meeting 2017 che si svolgerà a Bologna presso la Sala “Serena 80”, l’8 dicembre si terrà il secondo festival italiano in onore dell’artista di Ballyshannon e mi troverete a Bergamo presso l’O’Dea’s Pub... insomma gli impegni sono tanti e se ne prevedono altri analoghi a Roma a fine dicembre e forse a Torino, Napoli, Livorno e Genova.