martedì 19 luglio 2016

Ian Anderson e Jethro Tull a Bollate: il resoconto


E’ lunedì ed è il 18 luglio: Ian Anderson e i “suoi” Jethro Tull sono di scena a Bollate, nel milanese, in uno splendido scenario, quello di Villa Arconati, una location che andrebbe visitata indipendentemente dagli eventi musicali, a patto che non sia estate  e sia quindi necessaria una forte dose di spray anti insetti.
Il mio biglietto privilegiato (per la numerazione favorevole) era il frutto di un regalo di compleanno: i miei affetti riconoscono le mie " debolezze"!
Ma un concerto è un concerto e poi come si fa a non ringraziare mister Ian Anderson!
Una cosa è certa, il marchio “Tull” tira sempre, e vedere una simile folla riconcilia con la musica, che essenzialmente è partecipazione.
E poi stiamo vivendo un momento difficile, ed è bene ricordare la voglia di normalità, di condivisione, di assemblaggi umani nonostante la logica attuale ci consiglierebbe maggiori attenzioni.
Il pubblico è stranamente sconosciuto, l’unico incontro di rilievo, pensando al fan club, è quello con Aldo Tagliaferro (il Presidente di Itullians) che rivedrò da lontano mentre accompagnerà con l’auto la band vicino al palco. Altri amici sono dei dintorni, lo apprendo dalla rete, ma tale è la massa umana che risulterà impossibile darsi un appuntamento.
Parte del pubblico è giovane, alcuni giovanissimi, e non ho potuto fare a meno di immortalare un fan in erba, un neonato già dotato di… cuffie: difficilmente da adulto potrà ascoltare un live dei Jethro!


Ma l’impressione è che l’audience sia formata da chi, abitando vicino, sia stato attratto dal nome, magari carico di ricordi giovanili, persone che si salutano a fine set col proposito di andare a risentire tutta la discografia dei J.T., riposta da anni in chissà quale scaffale.

Mi sono avvicinato al concerto senza grosse aspettative, e alla fine ho ricevuto ciò che mi aspettavo.
Partiamo dalla formazione.
Oltre a Ian Anderson - voce (si fa per dire), chitarra e flauto, Florian Opahle (che non abbandonerà per un attimo la sua Gibson Le Paul), John O’Hara - tastiere e cori -, David Goodier - basso - e Scott Hammond alla batteria.
Tutto sommato una formazione collaudata, che accompagna Ian ormai da anni.
Per chi non segue con costanza le vicende tulliche potrebbe sembrare che esista una linea di demarcazione tra i “Jethro Tull” e “Ian Anderson e i Jethro Tull”, ma in realtà la creatura è da svariati lustri nelle mani del divino Ian, creatore, interprete e gestore della macchina da guerra.
L’inizio del set con “Living in the Past” assume valore simbolico: stiamo tutti vivendo nel passato?
Beh, occorre onestamente dire che la professionalità non si discute, le competenze e l’intelligenza musicale nemmeno.
Ma, nonostante una scaletta focalizzata sul “meno canto e meglio è”, nei momenti topici in cui le liriche necessitano… beh, potrebbe cadere qualche lacrimuccia: discorso trito e ritrito!
Ma ecco che subentra l’acume tattico di Ian, che si inventa un modello interpretativo, tanto che se per ipotesi un neofita si avvicinasse ad una sua performance live potrebbe trovare quel modello espressivo quasi innovativo, una trovata, l’invenzione di un ruolo.
Eppure, per quelli come me, che pensano che tra le doti naturali di Anderson la più aulica sia la voce… beh, è dura da digerire!
Il vecchio repertorio riporta a galla Nothing is Easy, Serenade to a Cuckoo, Sweet Dream, Bourèe, Song from the Wood, per risalire sino all’album d’esordio - This Was - con una Dharma for One che permette ad Hammond di emulare il famoso assolo di Clive Bunker (che casualmente ho sentito a Genova due giorni prima e… il paragone non s’ha da fare care Scott!).
Ian appare in buona forma e gioviale e lascia largo spazio ai suoi “collaboratori”, e anche Ophale trova il modo di mettersi in evidenza coniugando la musica classica col metal, mandando in visibilio molti dei presenti.
Anche O’Hara e Goodier trovano il modo di avere luce personale e mi pare che il loro apporto sia notevolmente migliorato rispetto alle prime apparizioni.
Impossibile non regalare all'audience Thick as a Brick, My God, Mother Goose e Aqualung, tutte proposte in forma riarrangiata, anche se è apparsa evidente una grossa sbavatura proprio in "Aqualung", per la serie… anche gli Dei commettono errori.
Solito bis - risicato - con Locomotive Breath, che dà il via alla fuga dalla sedia per il tradizionale avvicinamento al palco.
Ho dimenticato di certo alcuni brani, ma credo che la durata dell’intero set - con sosta di 15 minuti tra primo e secondo atto - non abbia superato l’ora e mezza.
Siamo anni luce lontani dai fasti di un tempo, ma Ian sa gestire alla perfezione i temi e i tempi, e il pubblico non chiede di più.
Ottimi professionisti, tutti quanti, tutti rivolti ad un progetto che potrebbe diventare a breve solo strumentale: inutile nasconderlo, Ian Anderson è una macchina da soldi!
Dal mio scritto si intenderà una certa delusione, perché alla fine ci si aspetta sempre ciò che, realisticamente, non potrà più avvenire.
Ma non importa… immaginiamo un luogo antico, immerso nel verde, un pubblico composto, in piena armonia, che ascolta della musica immortale, che sopravviverà a tutti i presenti: si può chiedere di più?

Forse l’esempio di “My God” potrà sintetizzare il mio pensiero…