E’ lunedì ed è il 18 luglio: Ian Anderson e i “suoi” Jethro Tull sono di scena a Bollate, nel milanese, in uno splendido scenario, quello di Villa Arconati, una location che andrebbe visitata indipendentemente dagli eventi musicali, a patto che non sia estate e sia quindi necessaria una forte dose di spray anti insetti.
Il mio biglietto privilegiato (per la
numerazione favorevole) era il frutto di un regalo di compleanno: i miei
affetti riconoscono le mie " debolezze"!
Ma un concerto è un concerto e poi come si
fa a non ringraziare mister Ian Anderson!
Una cosa è certa, il marchio “Tull” tira
sempre, e vedere una simile folla riconcilia con la musica, che essenzialmente
è partecipazione.
E poi stiamo vivendo un momento difficile,
ed è bene ricordare la voglia di normalità, di condivisione, di assemblaggi
umani nonostante la logica attuale ci consiglierebbe maggiori attenzioni.
Il pubblico è stranamente sconosciuto, l’unico
incontro di rilievo, pensando al fan club, è quello con Aldo Tagliaferro (il
Presidente di Itullians) che rivedrò da lontano mentre accompagnerà con l’auto
la band vicino al palco. Altri amici sono dei dintorni, lo apprendo dalla rete,
ma tale è la massa umana che risulterà impossibile darsi un appuntamento.
Parte del pubblico è giovane, alcuni
giovanissimi, e non ho potuto fare a meno di immortalare un fan in erba, un
neonato già dotato di… cuffie: difficilmente da adulto potrà ascoltare un live
dei Jethro!
Ma l’impressione è che l’audience sia
formata da chi, abitando vicino, sia stato attratto dal nome, magari carico di
ricordi giovanili, persone che si salutano a fine set col proposito di andare a
risentire tutta la discografia dei J.T., riposta da anni in chissà quale
scaffale.
Mi sono avvicinato al concerto senza grosse
aspettative, e alla fine ho ricevuto ciò che mi aspettavo.
Partiamo dalla formazione.
Oltre a Ian Anderson - voce (si fa per dire), chitarra e flauto, Florian Opahle (che non abbandonerà per
un attimo la sua Gibson Le Paul), John O’Hara
- tastiere e cori -, David Goodier
- basso - e Scott Hammond alla batteria.
Tutto sommato una formazione collaudata,
che accompagna Ian ormai da anni.
Per chi non segue con costanza le vicende
tulliche potrebbe sembrare che esista una linea di demarcazione tra i “Jethro Tull” e “Ian Anderson e i Jethro Tull”, ma in realtà la creatura è da
svariati lustri nelle mani del divino Ian, creatore, interprete e gestore della
macchina da guerra.
L’inizio del set con “Living in the Past” assume valore simbolico: stiamo tutti vivendo
nel passato?
Beh, occorre onestamente dire che la
professionalità non si discute, le competenze e l’intelligenza musicale
nemmeno.
Ma, nonostante una scaletta focalizzata sul
“meno canto e meglio è”, nei momenti
topici in cui le liriche necessitano… beh, potrebbe cadere qualche lacrimuccia:
discorso trito e ritrito!
Ma ecco che subentra l’acume tattico di
Ian, che si inventa un modello interpretativo, tanto che se per ipotesi un
neofita si avvicinasse ad una sua performance live potrebbe trovare quel
modello espressivo quasi innovativo, una trovata, l’invenzione di un ruolo.
Eppure, per quelli come me, che pensano che
tra le doti naturali di Anderson la più aulica sia la voce… beh, è dura da
digerire!
Il vecchio repertorio riporta a galla Nothing is Easy, Serenade to a Cuckoo, Sweet
Dream, Bourèe, Song from the Wood, per risalire sino
all’album d’esordio - This Was - con una
Dharma for One che permette ad
Hammond di emulare il famoso assolo di Clive Bunker (che casualmente ho sentito
a Genova due giorni prima e… il paragone non s’ha da fare care Scott!).
Ian appare in buona forma e gioviale e
lascia largo spazio ai suoi “collaboratori”, e anche Ophale trova il modo di
mettersi in evidenza coniugando la musica classica col metal, mandando in
visibilio molti dei presenti.
Anche O’Hara e Goodier trovano il modo di
avere luce personale e mi pare che il loro apporto sia notevolmente migliorato
rispetto alle prime apparizioni.
Impossibile non regalare all'audience Thick as a Brick, My God, Mother Goose e Aqualung, tutte proposte in forma riarrangiata,
anche se è apparsa evidente una grossa sbavatura proprio in "Aqualung", per la
serie… anche gli Dei commettono errori.
Solito bis - risicato - con Locomotive Breath, che dà il via alla fuga
dalla sedia per il tradizionale avvicinamento al palco.
Ho dimenticato di certo alcuni brani, ma credo
che la durata dell’intero set - con sosta di 15 minuti tra primo e secondo atto
- non abbia superato l’ora e mezza.
Siamo anni luce lontani dai fasti di un
tempo, ma Ian sa gestire alla perfezione i temi e i tempi, e il pubblico non
chiede di più.
Ottimi professionisti, tutti quanti, tutti
rivolti ad un progetto che potrebbe diventare a breve solo strumentale: inutile nasconderlo, Ian Anderson è una macchina da soldi!
Dal mio scritto si intenderà una certa
delusione, perché alla fine ci si aspetta sempre ciò che, realisticamente, non potrà
più avvenire.
Ma non importa… immaginiamo un luogo
antico, immerso nel verde, un pubblico composto, in piena armonia, che ascolta
della musica immortale, che sopravviverà a tutti i presenti: si può chiedere di
più?
Forse l’esempio di “My God” potrà sintetizzare il mio pensiero…