Dopo la reunion e l'uscita dell'album "Il Pittore
Volante" avvenuta nel 2010, dopo 36 anni dallo scioglimento della
Raccomandata con Ricevuta di Ritorno nel 1973, La Nuova Raccomandata con Ricevuta di Ritorno si presenta al Piper Club di Viareggio con un nuovo
chitarrista di prestigio, Rocco Zifarelli, attuale chitarrista dell'Orchestra
di Ennio Morricone e collaboratore internazionale di vari progetti, tra cui il
Mahavishnu Project. Al basso Nanni Civitenga della originale formazione degli
RRR e bassista dell'Orchestra di Ennio Morricone. Maurizio Pariotti alle
tastiere è l'arrangiatore del nuovo album in uscita all'inizio del prossimo anno.
Cristina Cioni figlia, d'arte del grande tenore Renato Cioni, sarà cantante e
corista in supporto a Luciano Regoli. Al sax e flauto Alessandro Tomei,
richiestissimo session man. Alla batteria il giovane Andy Bartolucci,
batterista attuale di Alex Britti.
Per chi ama la musica Viareggio vuol dire … Piper,
Piper e ancora Piper… 2000.
Il fascino è ancora intatto: entrare nel Piper è come
entrare nella storia.
Nasce quindi un nuovo progetto, con un indirizzo
preciso, nei tempi, nei modi e nei protagonisti, una svolta rock capace di
creare un ponte con il periodo d’oro; non un’operazione nostalgia, ma un idea,
una filosofia di vita che cammina in parallelo con l’andamento della nostra
società.
C’è voglia di tornare alla semplicità, ai sentimenti
puliti, alla serenità, scommettendo sui giovani, abbinandoli ai miti, cercando
di dare visibilità a chi spesso resta nell’ombra per mancanza di opportunità.
Accorrete numerosi per ricreare assieme attimi di pura
magia!
Serata da
non perdere, dopo 40 anni un ritorno al passato
Ut New Trolls in concerto, tutto live
Per
ritornare grandi come allora il Piper 2000 mette le ali!
"Qualcuno ci associa ai New Trolls o agli Ibis: niente di tutto questo.
Non rinneghiamo il nostro passato che ha contribuito a farci crescere, ma il
progetto che abbiamo in mente vuol prendere la sua strada, si configura come un laboratorio: un “work in progress” in cui,
naturalmente, “Ut”, “Searching for a land”, “Canti d’innocenza – Canti
d’esperienza” avranno il loro spazio ma rivisitate, al di là di un gruppo che
ha avuto mille vicissitudini, mille nomi, mille facce diverse… Perché, alla
fine, quello che conta in un gruppo e lo fa esistere è la musica. Noi speriamo
che trovi l’istante per toccare il cuore della gente e per restituirci il volto
umano di tutti”. Del resto, neanche noi non siamo più quelli
di allora, sia anagraficamente, sia nei volti, nelle situazioni e,
naturalmente, nella musica che suoniamo. Resta, però, il desiderio di
rivisitare quel periodo che ha così profondamente segnato la nostra gioventù.
Per chi ama la musica Viareggio vuol dire … Piper, Piper e ancora Piper… 2000.
Il fascino è ancora intatto: entrare nel Piper è come entrare
nella storia.
Nasce quindi un nuovo progetto, con un indirizzo preciso, nei
tempi, nei modi e nei protagonisti, una svolta rock capace di creare un ponte
con il periodo d’oro; non un’operazione nostalgia, ma un idea, una filosofia di
vita che cammina in parallelo con l’andamento della nostra società.
C’è voglia di tornare alla semplicità, ai sentimenti puliti, alla
serenità, scommettendo sui giovani, abbinandoli ai miti, cercando di dare
visibilità a chi spesso resta nell’ombra per mancanza di opportunità.
Accorrete numerosi per ricreare assieme attimi di pura magia!
Il corriere è appena partito dopo la sua
consegna, e mi ritrovo tra le mani l’oggetto del desiderio, esattamente come 40
anni fa, quando le 3000 lire sudate, spesso frutto di una colletta familiare,
mi davano la possibilità di acquistare un nuovo vinile, magari mangiato con gli
occhi sulle pagine di CIAO 2001.
Mi emoziono ancora per queste semplici cose,
anche se l’avvento del digitale ha tolto molto del fascino connaturato all’LP,
ma la musica di cui mi appresto a parlare seguirà due vie parallele, due
filosofie, due modalità per assecondare un mondo un tempo in auge, successivamente
ridotto a nicchia ed ora sulla via della nuova fruizione in larga scala: mi
riferisco al Rock Progressive; questa logica ha portato alla realizzazione di
un doppio CD e… udite udite, un doppio vinile!
Nell’occasione provo la strana sensazione
di toccare al contempo il conosciuto - il materiale risale al 1972 - e l’assoluta
novità, ed in parte è vero, perché ciò che viene proposto è una doppia veste,
che non è solo il confronto tra il passato e l’attualità, ma anche la
comparazione tra “studio” e “live”, tra line up differenti, tra generazioni non
allineate.
Sveliamo l’arcano, sto parlando di una
versione lussuosa di una pietra miliare del prog italiano - e non solo - che nasce
nei primi anni ’70 ad opera dei The Trip: Atlantide.
Il primo CD è l’originale, rimasterizzato,
e quindi tecnicamente perfetto, anche se la lacrimuccia simbolica per la
mancanza di fruscio potrebbe arrivare, se non si decide di acquistare anche il
vinile: si sa, certi riti mantengono la forza di un tempo, sfuggendo alla
razionalità.
Il secondo è una novità assoluta, l’inedito
Live in Tokyo 2011, realizzato nel mese di novembre all’interno del contesto “Italian Progressive
Rock Festival”. Nell’essenza una riproposizione di Atlantide, sei tracce su otto, con la compensazione che avviene
attraverso “Caronte” e “L’ultima ora ode a Jimi Hendrix”, sostituti
di Leader ed Energia.
Non mi soffermerò sul valore dell’opera all’interno
del corretto contesto temporale, ma è forse più utile rivedere la proposta dei
Trip come confronto tra situazioni lontane, pensando magari alla potenzialità
di arrivare al pubblico di oggi, e non mi riferisco a chi, per molteplici
motivi, possa essere già entrato in contatto con la musica di … impegno.
Dice Furio
Chirico, successore di Pino Sinnone
dopo i primi due dischi: “ Il Prog deve essere inserito nel contenitore della
musica Classica, perché ne fa parte, con la differenza che presenta un’anima
rock…”, e con questo concetto si potrebbe pensare ad una proposta musicale
scolastica un po’ più intelligente, mio vecchio pallino.
Lasciamo sullo sfondo la validità di
messaggio legato al mito di Atlantide, concetti e storie che pare siano sempre
all’avanguardia, e che, se analizzate a fondo, diventano potenti strumenti
didattici.
Pensiamo invece a cosa voglia dire poter
confrontare realmente la stessa musica, che nel caso del live - secondo CD - evidenzia i medesimi protagonisti di un tempo
con l’aggiunta di alcune forze nuove, fatto che permette di realizzare un ponte
temporale di oltre 40 anni.
Foto di Enrico Rolandi, scattata alla Prog Exhibition del 2010
Il disco giapponese, ripropone Joe Vescovi alle tastiere, Furio Chirico alla batteria e Arvin Wegg Andersen alla voce, ovvero i
tre musicisti presenti sul “vecchio” Atlantide;
la reunion del 2010 ha visto l’entrata di Fabri
Kiareli alla chitarra e voce e di Angelo
Perini al basso.
Doveroso sottolineare come questo secondo
album sia interamente dedicato a Wegg, scomparso prematuramente lo scorso anno,
ma sempre presente nei cuori e nelle menti dei partecipanti alle performance
dei Trip. Aver condiviso - anche - con lui attimi privati nel corso del Prog
Hexhibition del 2010 mi ha fatto toccare con mano il valore umano e l’affetto
che riusciva a suscitare in chi lo circondava. E poi sul palco il suo carisma
era intatto.
Due formazioni diverse che portano a filosofie
musicali distanti tra loro, perché l’aggiunta di una chitarra elettrica in un
trio classico - organo, basso e batteria - richiede una rivisitazione della
suddivisione dei compiti con un taglio più rock di quello della genesi.
Kiareli e Perini danno nuova forza e idee
affinanti, che si uniscono all’ incredibile freschezza di Vescovi - saranno
pure sue creazioni melodiche, ma stupisce il suo essere sempre sul pezzo - e
all’energia di Chirico, capace di
condurre il gruppo verso gli umani limiti ritmici.
Da questo piccolo accostamento nasce il
futuro, la novità Trip, che ci si auspica possa avere come fine prossimo la
realizzazione di un album inedito: i mezzi e la materia prima non mancano.
Dal 2010, Roma, ho visto i Trip tre volte,
con e senza Wegg, e ciò mi permette di comprendere a fondo il “side B” del digipackcelebrativo, potendo associare l’ascolto alla parte visiva, e
posso testimoniare il forte impatto che la loro musica scatena, come se il
tempo si fosse arrestato ad un’epoca antica, che si vuole a tutti i costi rivivere, non per
la nostalgia che prima o poi attanaglia l’uomo nel momento della maturità, ma
per la comprensione che la qualità resiste ad ogni tipo di passaggio temporale.
Tutto questo coinvolgimento emerge chiaramente
dall’ascolto di Live in Tokyo 2011 (meglio se il volume è sostenuto!).
Per realizzare progetti come questo
occorre avere alla spalle gente capace che… ci crede, e un ringraziamento
speciale va a Pino Tuccimei,
nuovamente manager dei Trip dopo svariati lustri, e alla Sony Music, etichetta discografica e distributrice del
cofanetto/vinile.
Tutto questo fa sperare che la retta via sia
stata ritrovata, o almeno l'imbocco di essa.
E noi ammalati di musica aspettiamo
fiduciosi!
Nel frattempo godiamoci Atlantide, e… diffondiamo il verbo, un po’ del
cambiamento auspicato passa anche attraverso la nostra singola azione.
In uno spazio
temporale ridottissimo il Museo Rosenbach rilascia un nuovo album, il
secondo, se si considera che il recente Zarathustra, Live in Studio, è di
fatto la riproposizione ammodernata del disco seminale creato quarant’anni fa.
Barbarica è un altro concept, nel pieno
rispetto dell’ideologia prog, con una lunga suite iniziale e quattro brani a
seguire, una quarantina di minuti utilizzati per lanciare un nuovo forte
messaggio.
Tracciare un bridge
tra le idee antiche e quelle attuali è d’obbligo, anche se la sintesi, il “tirare
le somme”, fa paura, e la scelleratezza delle nostre scelte di vita, dirette o
indotte, presenta ora il conto da pagare, e nessuno sa se se esista un
efficacie punto di svolta.
Con Zarathustra il ritorno alla semplicità è più che un consiglio: solo attraverso il
rispetto per noi stessi e per il mondo circostante si arriva alla serenità,
coltivando i rapporti umani e l’ambiente in cui le anime si muovono.
Ma quanto il profeta
auspicava non è avvenuto, e Barbarica
si trasforma nella fotografia del risultato che siamo stati capaci di ottenere:
degrado ambientale, morale, economico… umano. Visione pessimistica?
Apprezzabile raccontare la verità, senza filtri che possano addolcire l’amara
pillola.
Resta la speranza,
piccola, che possa arrivare una forte reazione… ma saremo ancora in tempo?
La provocazione
letterale contenuta nel titolo dell’album si affianca all’art work, un
capolavoro di immagini e significati: evidente il contrasto tra la gioiosità
della cover e la tristezza/durezza delle pictures che costituisco il booklet…
le due facce di un mondo che piace poco… una facciata da immortalare ed una
sostanza da condannare.
Museo Rosenbach presenta due poli temporali anche attraverso la line up: tre
elementi storici (Stefano “Lupo” Galifi,
Alberto Moreno, Giancarlo Golzi) sommati a forze nuove (Sandro
Libra, Max Borelli, Fabio Meggetto e Andy Senis), sono garanzia di continuità e rappresentatività.
Un anno di lavoro è
servito per fondere la band, per limare le asperità, per capirsi al volo, e l’ascolto
di Barbarica da la forte idea di continuos improvement.
Anche dal punto di
vista strettamente musicale non ci sono dubbi o fughe nell’approssimazione del
genere: in un periodo in cui tutti sfoderano sfumature variegate per descrivere
la musica che propongono, si può affermare che la proposta del M.R. non è cambiata, coerente col credo
iniziale, e Barbarica lo si può
considerare senza dubbio alcuno un album di musica progressiva, almeno secondo
le linee guida della definizione. Questo significa brani articolati, con
variazioni di tempi e temi sonori, con un rock che si fonde a momenti di
atmosfera, con una certa rigorosità di copione al cui interno c’è spazio per la
libertà espressiva.
Elemento
caratterizzante è la voce di “Lupo”, che pare non senta l’inesorabile passaggio
del tempo.
Un'altra perla, un
altro disco destinato a restare nella storia: la speranza è che ora, ritrovata
la strada della passione comune, il Museo
Rosenbach si presenti ai suoi sostenitori - e sono tanti - con una certa continuità.
Ci siamo lasciati da pochissimo con il commento del “Live in
studio”.
Nell’occasione mi raccontasti della genesi di un nuovo
concept di cui ora è noto il nome: che
sapore ha Barbarica rispetto alla
recente rivisitazione di Zarathustra?
Barbarica ha il sapore del presente quindi aspro e pungente; Zarathustra in studio richiama invece i
ricordi, le immagini, le sensazioni del passato. Abbiamo tentato di “piegare”
il linguaggio musicale a queste due diverse dimensioni del tempo cercando di
mantenere il nostro sound identificativo.
Di fatto Barbarica
è il secondo album del gruppo, che mi pare avete realizzato in un lampo: cosa significa ritrovarsi dopo tanti
anni e creare in piena comunione di intenti?
Proprio in un lampo… ma in quest’attimo abbiamo
condensato un lavoro di circa un anno durante il quale Giancarlo, Stefano ed io
abbiamo rafforzato la nostra amicizia con Fabio, Sandro, Max e Andy. E’
difficile formare una band così numerosa ed eterogenea per quanto riguarda
l’età e gli impegni. I buoni risultati ottenuti mi fanno capire che l’amalgama,
musicale ed umano, sia riuscito.
La nuova linfa - i
giovani introdotti - hanno avuto un ruolo determinante?
Il nuovo, se non ha cattive intenzioni,
arricchisce sempre il vecchio: gli fa sentire l’entusiasmo senza disillusioni,
lo spinge verso strade che il camminatore abituale non conosce; lo rimprovera
quando si attarda nella troppa riflessione. Il nuovo è slancio.
Veniamo al disco,
perché Barbarica? Qual è il tema
dominante?
Il tema dominante è il rapporto tra l’uomo e il
suo ambiente (Il respiro del pianeta) e
tra l’uomo e i suoi simili ( le altre quattro tracce); “Barbarica” si chiede se abbiamo un futuro in questo mondo inquinato
e acciaccato dalla nostra avidità di risorse; la risposta è una speranza: che
il pianeta sia talmente forte da non subire danni irreversibili. Si confida
nella sua dimensione astronomica che rende la distruzione ambientale una
malattia di stagione. La speranza si affievolisce quando ci si chiede se l’uomo
sarà capace di cancellare lo scandalo della guerra, la terribile ombra che
inquina dolorosamente i nostri cuori. Il titolo è una provocazione, sintetizza la condizione della nostra civiltà in cui il
progresso appare discutibile, ancora
prigioniero della mentalità di dominio sulla natura. Qualunque
intelligenza tecnologica è inutile se i popoli si considerano reciprocamente
pericolosi. Forse siamo preistorici!
Prova a tracciare un ponte concettuale tra i vostri due
lavori, separati da enorme spazio temporale.
Il ponte c’è: come se Zarathustra, dopo aver
lanciato il suo messaggio, tornasse per verificarne i risultati. E’ ovvio che
non sarebbe contento! “Ama la tua terra
…” diceva… e noi, sordi, la soffochiamo. Il profeta si augurava una liberazione
dai dogmi e dalle ipocrisie, e non sembra che ciò sia avvenuto. Ritrova
soltanto una sua frase: “ Come l’autunno
il mondo vuol sfiorire... cresce ed uccide nel tempo la sua umanità”.
Scuote la testa ma guarda sempre verso nuove aurore.
Trovo particolarmente convincente l’art work, ma mentre la
cover colpisce - anche - per il colore, le fotografie interne evocano
sentimenti angoscianti: mi racconti la scelta delle immagini?
Dalle risposte precedenti fluisce questa. La
cover, colorata e astrale, è serena; lo sfondo vuole trasmettere la meraviglia
del cosmo. La testa in primo piano è il profilo multicolore e variegato di una
sola umanità. Come dire… lo scrigno è la bellezza di ogni diversità che esiste.
Le fotografie interne sono il contenuto dello scrigno: i colori svaniscono, i
contorni sono aspri, il messaggio è venato di tristezza. Le due facce di
Barbarica.
E’ già pronta l’impalcatura live di Barbarica?
Per forza… perché l’abbiamo quasi inciso dal
vivo!
Nel Regno dei Ciechi è il nuovo album della Periferia Del Mondo, band giunta al quarto album in studio, con oltre tre lustri
di attività alle spalle.
Circa un anno fa avevo raccontato di uno step del loro
percorso, e appare quindi evidente la voglia di presentare rapidamente l’evoluzione,
personale e di insieme.
Poco più di cinquanta minuti di musica, suddivisa su nove
tracce, forniscono la forma di una band difficilmente catalogabile.
E se su di una struttura ben delineata si decide di essere
espressivamente liberi, può accadere di trovarsi tra le mani un disco che per
certi versi spiazza - in positivo - dove le linee melodiche e ritmiche mutano da brano a brano, dove la
lingua scelta oscilla tra l’inglese e l’italiano - in funzione della necessità
contingente - dove gli stilemi prog (Suburban
Life) si miscelano ad atmosfere “sognanti”, e l’etnia (A
rutta u jelu)… a tanto
rock. Sì, è un album rock, di quello a volte tosto (Sakura zensen, I need U, Alibi), che istiga al movimento del corpo.
Un primo elemento di sintesi risulta quindi la varietà della
proposta, un contenitore free dentro il quale le influenze singole diventano
sound compatto.
Rilevo, come già fatto in passato, la capacità di queste
sonorità di incidere e condizionare lo stato d’animo, diventando una base di
partenza per le riflessioni personali: credo sia lo scopo della musica fornire
stimoli che permettano di intraprendere un viaggio intimo, e possibilmente
interagire e annusare influenze di tracce che fanno parte della nostra storia,
sarebbe strano il contrario; in questa ottica ho trovato toccante la
drammaticità “Hammilliana”di Purity, il tratto vocale di Derek Shulman
nella già citata Suburban Life e… l’ascolto
di The Bridge’s resilience mi ha
trascinato in una dimensione che avevo quasi dimenticato, quella sognante,
onirica, eterea di Angel’s Egg e
quindi dei Gong.
Queste sono emozioni! Ritrovare sfumature antiche in tanta
sostanza attuale è cosa che auguro a tutti di provare. Nel Regno dei Ciechi facilita e predispone la sintonia tra passato
e presente, creando un ponte, probabilmente involontario, che si cristallizza
nel concetto di originalità.
Art work di forte impatto, incentrato sulla metafora del
mondo secondo PDM.
Scivola via la mia coscienza, cerca segnali di demenza, e
carica informe una sentenza: “Siamo
frustrati dai ceti, vinti da aborti di fedi, salvi nel regno dei ciechi”.
La cecità è la salvezza del mondo? Forse la musica, questa
musica, potrà darci sostegno, o forse solo un po’ di serenità, e la
soddisfazione non potrà che essere unanime.
L’INTERVISTA
Esattamente un anno fa dal
mio blog raccontavo qualcosa sul vostro terzo album; qual è l’essenza del nuovo
“Nel regno dei ciechi”?
Alessandro
Papotto “Nel regno
dei ciechi” ha rappresentato in questi ultimi anni la nostra nuova sfida: tentare
percorsi espressivi più diretti, attraverso i quali descrivere la realtà che ci
circonda, senza però rinunciare alla libertà compositiva offerta dal Rock Progressive.
Sin dall'inizio ci siamo resi conto che quello che avevamo voglia di fare era
sostanzialmente un disco Rock, così abbiamo cercato di semplificare le
architetture musicali del materiale, senza risparmiare sulle idee, ma evitando
tutto ciò che ci sembrava superfluo. Dal punto di vista dei testi invece è
rimasto intatto quello stile ermetico nella sintassi, ma diretto nella forma,
che contraddistingue le nostre canzoni.
Giovanni TommasiSiamo alla ricerca di essenzialità, e questa ricerca ci ha regalato
suoni più energici, più compatti. Questo è evidente in tutti i brani, alcuni
dei quali, rispecchiando l’intenzione che pervade il lavoro, sono decisamente
più duri che in passato, come I need U,
Alibi, o la stessa title-track.
Bruno VeglianteTrovo che questo disco rimanga comunque molto legato al Rock
Progressive. Le idee musicali contenute nei vari brani sono veramente molte,
quasi trasbordano dalla superficie del disco. Forse però il mio modo di intendere
il Prog è un po’ differente dall’accezione che il termine ha nell'uso comune. Penso
che i contenuti principali debbano essere un buon numero di idee, tante
sonorità diverse e tanto rock, mentre penso che la miscela di forme musicali
usate debba invece essere legata solo al gusto personale.
Esiste
una linea concettuale che unisce i due dischi?
Alessandro PapottoIn questo disco abbiamo coscientemente applicato e sviluppato le
scelte espressive e stilistiche che tutto sommato erano già presenti nel disco
precedente: un sostanziale alleggerimento delle strutture dei brani,
essenzialità negli arrangiamenti, e maggiore cura nello scrivere testi ispirati
alla realtà che ci circonda. Ci sono alcuni trait-d’union che riguardano gli
stili dei brani, ad esempio A rutta u
jelu rimanda alle sonorità etniche di Suite
Mediterranea, ma anche a quelle atmosfere world che ci sono sempre state
care. Penso che la nostra sia una linea concettuale molto simile a quella dei
gruppi progressive degli anni ’70: come loro infatti non ci preoccupiamo affatto
che il nostro nuovo disco sia in qualche modo simile al precedente, piuttosto
ci preoccupiamo invece di mantenere intatto una sorta di marchio di fabbrica
che contraddistingua la band rendendola unica.
Giovanni TommasiAnche in questo disco come nel precedente lavoro sono presenti
timbriche più moderne e suoni elettronici. Ad esempio in un brano come Purity potremmo in fondo trovare delle
affinità con Come un gabbiano, ma
l’aggiunta di quegli elementi tipici del rock d’autore che tanto ci ha ispirato
negli ultimi anni lo rendono unico e allo stesso tempo ideale per questo nuovo
disco. Ancora una volta l’esperienza del passato ci aiuta a vivere meglio il
presente.
Bruno VeglianteSuburban Life invece è una classica suite nella più tipica accezione del Rock
Progressive, e forse proprio per questo potremmo dire che più che al disco
precedente rimanda a brani del nostro primo disco, come The ghost in the shell. Ma anche questa nuova suite rimane
fortemente ancorata al presente grazie ai tratti duri e aggressivi che
pervadono tutto il nostro nuovo lavoro.
Tra i due esiste una
differenza di utilizzo della lingua inglese: quale il motivo della scelta?
Giovanni TommasiRiprendo un concetto di cui abbiamo già parlato nella precedente
intervista e che vale sia per il nostro lavoro in generale, sia nello specifico
per questo nostro ultimo disco: la lingua inglese ci permette di utilizzare una
metrica che, secondo noi, risulta a volta più efficace dell’italiano a livello
musicale. Di solito per ogni nuovo brano scegliamo ad istinto la lingua che
pensiamo si adatti meglio al caso specifico. In particolare possiamo dire che a
nostro avviso la lingua inglese si adattava meglio alle sonorità energiche
della maggior parte dei brani di Nel
regno dei ciechi.
Dal punto di vista
strettamente musicale quali sono le novità più importanti?
Claudio BraicoUna maggiore immediatezza delle idee, negli arrangiamenti e nei
suoni. Credo che questo sia dovuto alla nostra voglia di respirare aria un po'
diversa dal solito. Il risultato è un rock puro, sanguigno, duro, viscerale,
insomma per definirlo con una parola direi “impetuoso”. Ad esempio la canzone
che apre il disco, Sakura Zensen,
dedicata alle vittime e ai sopravvissuti dello tsunami del 2011 in Giappone,
nonostante le atmosfere decisamente floydiane, e quindi una certa eleganza, o
dolcezza timbrica di fondo, ha un incedere incisivo e trascinante. La stessa
cosa si avverte in un brano più progressive come The Bridge’s Resilience, che ha un’apertura scarna, nervosa, eppure
imperativa, per poi sciogliersi in atmosfere più rarefatte.
Tony ZitoInoltre il disco è stato registrato praticamente live
dall’intera band, con l’aggiunta di pochissime sovraincisioni, a differenza di
come avevamo lavorato in passato. Insomma abbiamo fatto un lavoro di squadra
anche in studio, abbiamo usato pochissimo l’editing, e abbiamo invece dedicato
molto tempo al mixaggio, alla ricerca del giusto equilibrio di volumi,
equalizzazione e ambiente, alla ricerca del
suono finale più adatto alle composizioni. Penso che tutto ciò
conferisca al prodotto finito un senso generale di naturalezza. Ringraziamo per
questo l’etichetta “Immaginifica-Aereostella” nelle persone di Iaia De Capitani
e Franz Di Cioccio che ci hanno dimostrato ancora una volta la loro fiducia
verso il nostro lavoro producendo interamente il disco, e poi anche gli amici
fonici dello studio di registrazione "Locomotore - LRS Factory" di
Roma, degli ottimi professionisti con cui è nata anche una bella amicizia.
Avete
previsto una promozione live dell’album?
Bruno VeglianteTutti i brani del disco sono stati pensati per poter essere
eseguiti dal vivo con il massimo risultato. Questo è purtroppo un momento
storico in cui le opportunità di suonare dal vivo, per band del nostro target, sono
poche. Però voglio dare un consiglio a tutti gli amici che vogliono ascoltarci
dal vivo (e mi piace pensare che ce ne siano molti): fatevi sentire, gridate
forte, e noi risponderemo con tutti i decibel in nostro possesso.
Nella recensione precedente sottolineavo
un senso generale di velata tristezza che mi provocava l’ascolto, e anche in
questo caso le trame musicali mi spingono verso … la riflessione; sono questi
stati d’animo che colpiscono anche chi crea, o è un fatto personale tra me e la
vostra musica?
Alessandro PapottoSecondo me lo scopo principale di un artista è spingere chi
fruisce della sua opera verso la riflessione per cui possiamo dire di aver
centrato l’obiettivo. Le melodie, le armonie, i ritmi e le parole che scriviamo
cercano di esprimere i nostri sentimenti riguardo ad un argomento, per cui puoi
percepire una sensazione di disagio, un momento di felicità, della rabbia o
dell’euforia, la condivisione della gioia per una notte d’amore o del dolore
per una perdita. Insomma i sentimenti che pervadono ciascun essere umano e in
cui ognuno di noi può riconoscersi.
Giovanni TommasiPer noi ogni brano esprime un mondo a se, frutto di esperienze o
riflessioni personali, un mondo che riflette uno o molti nostri stati d'animo.
Ma non possiamo sapere quali di questi stati d’animo riescono ad arrivare
intatti all'ascoltatore, ne quante e quali parti di questo mondo vengano
percepite o comunque percepite nella forma che noi volevamo cercare di
esprimere. Sicuramente nelle opportune differenze tra l’artista musicista e
l’ascoltatore che “accoglie” la sua opera entrano in gioco aspetti fortemente
legati all’inconscio individuale, che rendono l'intero processo insondabile.
Claudio BraicoCredo che la tristezza di cui parli sia legata al nostro stato
d’animo odierno, parlo di sensazioni che sono la naturale conseguenza dei tempi
che stiamo vivendo. Però nelle nostre canzoni puoi trovare anche molto altro:
ad esempio tanta energia e tanta voglia di libertà. E poi naturalmente,
speriamo, tanti altri ingredienti sconosciuti al nostro Io conscio.
Mi riaggancio all’ultima
risposta della vecchia intervista, in quella che avete definito “la preghiera
del buon rockettaro”: avete ottenuto soddisfazioni di pubblico e seguito
nell’ultimo anno?
Tony ZitoOggi la situazione del mercato musicale rende tutto molto
difficile. Noi però ci crediamo ancora e pensiamo che il risultato finale del
nostro lavoro sia facilmente commerciabile in Italia come all’estero. Scrivere
una canzone immaginando un ipotetico ascoltatore dall'altra parte del mondo è
un piacere tutto nostro (d'altronde siamo la Periferia Del Mondo). Nell’ultimo
anno siamo stati molto impegnati con il lavoro per questo disco per cui anche i
riscontri sono stati pochi, a parte alcune occasioni con i concerti dal vivo.
Ora il lavoro è terminato e rimaniamo quindi in attesa di nuovi riscontri.
Bruno VeglianteLavoriamo in maniera promozionale anche sulla rete anche se in
questo ambito è più difficile valutare. Penso però che, nella nostra
discografia, Nel regno dei ciechi sia
il più facilmente reperibile su Internet, in tutte le forme, fisiche, virtuali
ed eteree. Personalmente, avendone la possibilità, mi piacerebbe molto
togliermi la soddisfazione di andare a comprarne una copia a Tokio, dove mi
risulta essere reperibile in alcuni negozi (ad esempio http://www.gardenshedcd.com/). Nel frattempo abbiamo cominciato con una bella intervista a
Rai Stereonotte in compagnia di Duccio Pasqua che ringraziamo, cosi come
ringraziamo anche te Athos per aver realizzato (ancora una volta) questa bella
intervista dedicata al nuovo disco, che siamo sicuri porterà ottimi risultati
sul lungo termine. Speriamo e crediamo nel futuro…
Violinizer è l’album di fresca uscita realizzato da
Peppe Giannuzzi.
Oltre quaranta minuti di musica
strumentale suddivisa su dieci tracce, dove emergono due elementi: la voglia di
rock e l’utilizzo del violino come mezzo caratterizzante… non uno strumento al
di sopra delle parti, ma integrato e, semmai, conduttore di un team amalgamato.
L’appellativo che viene attribuito a
Peppe, “Stariani del violino”, è per
certi versi fuorviante, perché riconduce all’estremo tecnicismo, alla capacità
personale piuttosto che all’anima: Satriani è unico, e la schiera di
chitarristi che cercano di imitarlo cadono frequentemente sull’esibizione
effettistica, fatta di rapidità e rincorse sulla tastiera.
Giannuzzi è altra cosa. Intanto suona il
violino, uno strumento che riporta alle origini, all’austerità musicale, ad un
mondo sdoganato oltre quarant’anni fa dall’avvento della musica progressiva. Lunga
la lista dei suoi illustri predecessori rock, ma non ricordo altri album di
genere - rock - registrati avendo come strumento leader il violino.
Come succedeva in tutti i dischi di “movimento”,
esistono tracce che se avessero liriche potrebbero essere definite “balllad”,
come Wind of Africa, o Eddy Smile o Hotel Laguna, così come la ritmica prog fa capolino in Strings of Fire, e tutto questo rende
estremamente diversificato, ma omogeneo, Violinizer.
Raccontare un percorso, rilasciare un
messaggio, senza l’utilizzo di testi, non è semplice, anche se la lettura dei
titoli è un primo segnale degli intendimenti di chi ha composto, ma esiste un
forte pregio legato all’assenza di parole, che è quello dell’interazione tra
artista e ascoltatore, dove il secondo diventa parte attiva ed inventa la
propria storia, magari chiudendo gli occhi e lasciandosi andare.
Giannuzzi non vuole definirsi virtuoso,
ma ama misurarsi con le difficoltà (godibile la sua reinterpretazione di Canon
Rock, tratta dalla famosa versione dell’Orientale Jerry C, fruibile su youtube),
e la sua filosofia chitarristica applicata al violino è qualcosa che, oltre a
rendere in sala di incisione, dovrebbe essere uno spettacolo nello spettacolo
in fase live: fase da scoprire!
Un bell’album e una grande sorpresa.
L’INTERVISTA
Come nasce, artisticamente parlando, Peppe Giannuzzi?
Nonostante I molti anni di musica alle spalle, nasce
veramente il giorno in cui venne chiamato a suonare con Stewart Copeland e “La
Notte della Taranta”, in un Tour nel 2009. Trovarmi a suonare con Stewart,
Vittorio Cosma e tutti gli altri grandissimi musicisti mi ha fatto capire che
potevo e volevo stare in determinati contesti, e ho incominciato a pormi
obiettivi più importanti.
Esiste un musicista che hai sempre considerato un esempio da seguire?
Non uno in particolare, oltre al “Capo”, Joe Satriani,
seguo e apprezzo molti musicisti, la maggior parte chitarristi, tipo Mark
Knopfler (Dire Straits) o Carlos Santana o Steve Vai, ognuno di loro ha delle
caratteristiche diverse che mi attirano. Come violinisti ascolto Jean Luc Ponty, Lino Cannavacciuolo e
Stephane Grappelli, ma per il concetto
che ho io del violino preferisco avere una visione più “chitarristica” negli
ascolti.
Come considereresti la tua musica, al di là dei generi precostituiti?
Questa è una bella domanda, perché ormai si tende ad
etichettare tutto. Credo che Violinizer
venga catalogato nella “World Music”, io posso dirti che come “piglio” è un album
di musica rock, perché io parto sempre dal rock come concetto di base. Poi
avendo la fortuna di muovermi in diversi generi musicali, probabilmente c'è un
po' dimescolanza, l'importante
(per me) è che ci sia una base rock, nel ritmo, nei suoni o nell'arrangiamento.
Ho letto una definizione che ti riguarda e che di dipinge come “il
Satriani del violino”, ovvero un virtuoso dello strumento: cosa serve oltre
alla tecnica sopraffina per diventare un grande musicista?
Premettendo che io non mi considero assolutamente un
virtuoso, la tecnica deve essere solo un mezzo per arrivare allo scopo finale,
che è quello di arrivare allo “stomaco” dell'ascoltatore, e per arrivare alla
gente serve che la musica abbia un'anima.
E’ da poco uscito il tuo album Violinizer: che tipo di percorso
musicale hai voluto raccontare?
Come dicevo prima, ho avuto la fortuna nella mia vita
artistica, di muovermi attraverso diversi generi musicali, dal folk al blues al
country all'etnico. Credo che Violinizer sia un sunto di tutto questo, con un
filo conduttore comune a tutti i pezzi, il rock.
Chi sono stati i tuoi compagni di viaggio in questa avventura?
Cominciamo dal più importante, il mio manager, Giovanni
Pollastri, credo che senza Giovanni Violinizer
sarebbe uno dei tanti album che nessuno si filerebbe; poi tantialtri amici, tra cui Francesco Moneti (Modena City
Ramblers), che ha messo la sua chitarra in tre pezzi, Roberto Gemma, storico
fisarmonicista della Notte della Taranta, che ha fatto tutte le parti di
tastiera e piano, e Angelo Fumarola, altro chitarrista che probabilmente, se
fosse nato in Inghilterra, farebbe una concorrenza spietata a Mark Knopfler.
E’ prevista una promozione live del disco?
Stiamo valutando delle situazioni; io mi auguro che ci
siano tantissimi concerti con Violinizer,
anche perché la mia dimensione preferita rimane sempre il live.
Quali sono i tuoi progetti futuri
Quante pagine hai a disposizione?
Nel breve sicuramente vorrei avere la possibilità di
suonare i miei pezzi dal vivo, anche perché
live hanno tutto il sapore rock che voglio trasmettere, poi sicuramente fare un
altro album nel quale avere altre guest star... anzi a questo proposito ho
un'idea abbastanza folle della quale per ovvi motivi scaramantici non voglio
parlare!
Un po’ di storia estratta dal comunicato stampa.
Peppe Giannuzzi, classe 1971, è stato definito il ‘Satriani’ del violino. La sua verve
e la sua creatività lo hanno portato ad andare oltre i confini del tipico suono
dello strumento, creando quindi una personalissima sonorità, senza tralasciare
comunque un uso tradizionale del violino.
Diplomato
in Viola presso il Conservatorio T. Schipa di Lecce, nel '95 ha scelto
quindi una "via alternativa di una proposta musicale non
consueta" coniugando le influenze musicali "rockettare" di
gioventù con sonorità World e Ambient, il tutto unito alle influenze della
terra natia, la musica tradizionale salentina (pizzica).
Un
percorso che gli ha permesso di condividere il palco con Stewart Copeland
(batterista dei Police), con il quale ha suonato, oltre che nelle maggiori
città d’Italia,
anche in alcuni grandi festival internazionali con l’ensemble de La Notte della
Taranta toccando la Spagna, la Svizzera, il Portogallo e recentemente il
Brasile, esibendosi al rinomato PercPan Festival di San Paolo.
Tra le
altre collaborazioni troviamo i nomi di Vittorio Cosma e Mauro Pagani, sempre
nel progetto de La Notte della Taranta (nell’edizione del 2007, che ha visto partecipare
anche Massimo Ranieri e Giuliano Sangiorgi dei Negramaro), e i Modena City
Ramblers, con i quali ha condiviso il palco sempre nel 2008.
Ha
collaborato inoltre con alcune tra le realtà folk-rock di richiamo tra cui
FRACMIRE’, con cui
tuttora suona, con SU' d'EST Cantierisuoni, ARTETIKA, AVLEDDHA (con i quali ha
inciso il cd ‘Ofidèa’) e ha collaborato al brano
"POLVERE E SILENZIO" insieme a Treble aka Lu Professore, inserito
nella colonna sonora del film FINE PENA MAI (2007, regia di Davide Barletti).
INFO
Peppe Giannuzzi
suona:
Violino Silent Yamaha sv 100
Violino elettrico 5 corde Cantini VRT Series
Pedaliera BOSS GT-10
Hanno suonato: Roberto Gemma alle tastiere
Angelo Fumarola alla chitarra (acustica ed elettrica)
Francesco Fry Moneti alla chitarra elettrica nei brani 1,4 & 6