giovedì 11 febbraio 2021

Angelina-“Volevo fare la deejay”

 


Conosco Angela Megassini - e Fabrizio Poggi - da molti anni, anche se non ricordo il motivo specifico del nostro primo incontro, ma ovviamente c’entrava la musica.

Dal 2009 ad oggi ho visto molti concerti di Poggi - uno l’ho persino organizzato -, ho commentato i suoi lavori e ho seguito i suoi vari progetti legati al blues e alla tradizione popolare.

Chiunque abbia assistito ad uno di questi eventi non avrà fatto fatica nell’accorgersi che la squadra in gioco non è costituita solamente da musicisti ma esiste l’elemento in più, sempre presente in veste organizzativa e continuo punto di riferimento nel corso della performance, e per Fabrizio citare Angelina, ad un certo punto del concerto, diventa fatto spontaneo e naturale.

Per provare a spiegare in poche righe il rapporto tra coniugi/complici/amici utilizzo alcune frasi catturate dal libro che ho tra le mani, “Volevo fare la deejay”, da poco rilasciato:

“Da quasi trent’anni mi occupo di far risplendere la luce del mio compagno di vita e grande artista, Fabrizio Poggi. Ho ascoltato migliaia di suoi concerti e ogni volta mi affascina e mi inchioda alla sedia. Il suo modo di suonare mi cattura a tal punto che mi fa quasi volare. In quella grande luce che lo pervade mi rifletto e fa brillare anche me. Vorrei prendere un po’ di quella luce, metterla in tanti barattoli di vetro, chiuderli e spedirli in tutto il mondo. Vorrei mandarla in quelle case dove potrebbe entrare tanta luce ma nessuno la vuol far risplendere. Perché un artista ha bisogno di quella luce, di quel sostegno, di quell’entusiasmo che non sempre arriva.”

Un atto d’amore nei confronti dell’uomo della vita, della musica e di chi la crea, ovvero gli ingredienti che alimentano la storia che l’autrice ha deciso di raccontare.

Difficile, credo impossibile, non restare colpiti dalla “pulizia relazionale” che si instaura all’impatto quando si entra in contatto con Angelina, una buona educazione espressiva basata sulla ricerca dell’empatia, condita però da tenacia e fermezza, e alla fine il suo lato sognatore si fonde con la concretezza derivante da una formazione dura e all’antica, di cui parla nel suo testo.

Sono molte le cose che generano tra me e lei una buona corrispondenza di idee e propositi, ma vorrei soffermarmi sull’amore per l’America, quella che sin da bambini abbiamo idealizzato davanti alla tv in bianco e nero e la cui conoscenza, ad un certo punto della vita, è diventata realtà e ci ha fatto esclamare: “Ma allora è tutto vero, non era una finzione!”.

Buona parte di quell’America e della musica collegata sono raccontate in “Volevo fare la deejay”, book dedicato a Fabrizio e alla dottoressa Patrizia Longo, mancata nel corso della recente emergenza sanitaria.

Le origini dell’autrice ci conducono ad un piccolo paese dell’alessandrino, Alzano Scrivia, luogo di vita per ben ventisette anni.

La classica famiglia patriarcale: un padre padrone che si divide tra i campi e l’impegno di Sindaco, una madre sottomessa e… lavoro e basta.

Se poi si è donna non esiste spazio per le frivolezze e le divagazioni superflue, e poi cosa c’entra la musica…  cosa sono quei nomi strani come Kerouac o Ginsberg… solo lavoro, casa e studio, nulla di più. In estrema sintesi… “chi dorme non piglia pesci”, diceva il capo famiglia.

La ribellione monta giorno dopo giorno e il primo grande sogno si avvera dopo la vittoria ad un concorso letterario e il conseguente viaggio negli USA, a ventisei anni. Sarà solo il primo di una lunghissima serie, anche se nei successivi avrà al fianco il suo uomo.

Parte da qui la narrazione che si sviluppa con una serie di frammenti che arrivano come flashback e permettono di entrare in una favola attraverso la porta che si spalanca davanti al lettore, un mettersi a nudo delineando momenti estremamente personali, tra fede e disgrazie famigliari, tra la vita di campagna e le luci della ribalta americana.

Al di là dei singoli episodi, che lascio alla scoperta di chi si appresta a leggere, emerge il lato umano di Angelina, il suo donarsi incondizionato, il suo amore per il prossimo, il suo sentirsi parte di un mondo dove le differenze di razza e di cultura sono arricchimento e non elementi divisivi.

Questa forma mentale positiva è figlia, forse, della ribellione e della reazione verso un’educazione spartana che alla fine, nel momento della maturità, viene riconosciuta come valore formativo, e non posso dimenticare il capitolo in cui viene raccontato un episodio in cui Angelina, molto piccola, riceve in dono dallo zio un cavallo a dondolo che la rende felice.

Uno stato che dura dalla sera alla mattina, visto che il giorno successivo quel gioco lo ritrova tra le mani dei bambini dell’asilo, regalo del papà/sindaco.

Invidia, livore, rabbia e gelosia, forse odio nell’immediato, ma nell’evoluzione personale l’episodio viene metabolizzato e diventa insegnamento: le cose sono solo cose a cui è bene non attaccarsi perché non ci seguiranno all’infinito. Ma se esiste la possibilità di condividerle e fare felice il prossimo, perché non farlo? Non è questo il senso del dono?

Nell’alternanza di situazioni emergono siparietti gustosi - legati a conoscenze inaspettate e visite a luoghi un tempo irraggiungibili - ma resta forte il concetto di solidità famigliare, di legame con gli affetti, primitivi e derivati.

Sullo sfondo resta la nebbia della campagna alessandrina, quella che investiva Angelina quando, alle sei del mattino, affrontava il sentiero che l’avrebbe condotta al bus diretto alla scuola. Col passare del tempo quella nebbia sarebbe stata sostituita dal vapore dei tombini di New York, dal fumo dei locali di qualche bettola del profondo Sud americano e dai riflettori del Madison Square Garden.

Una fortuna incontrare Fabrizio, la fermatura del cerchio, una condivisione totale delle disavventure che capitano lungo il percorso, una cesellatura fatta di musica e incontri straordinari.

E a quel punto … “Ogni cosa ha valore, anche una foglia caduta nel bosco di Woodstock racconta di un bellissimo momento di vita vissuta…”