domenica 20 marzo 2016

Keith Emerson: divagazioni e approfondimenti con l'apporto di Mauro Selis


Keith Emerson: un lungo assolo oltre il sintetizzatore dell’eternità.

Non ho interesse nel perseguire la pratica del gossip o nel pubblicare giudizi e affermazioni tese al sensazionalismo - non ho niente da vendere e nulla su cui lucrare - ma sono solo realmente interessato ad un fatto che, per puro amore verso il personaggio e la sua musica, mi ha toccato profondamente.
La scomparsa di Keith Emerson, l’ho scritto in più occasioni negli ultimi giorni, mi ha colto di sorpresa e mi ha ferito; non una morte accidentale, ma, secondo quanto si dice, un suicidio. Un po’ di sano egoismo porterebbe a dire: “Ma come si è permesso? Perché ci ha privato della sua possibile futura arte e del suo ruolo?”.
Mi è venuta voglia di indagare maggiormente, utilizzando la figura di Emerson come simbolo della categoria, non quella del musicista, ma dell’essere umano che arriva ad una svolta, trovando difficoltà nell’identificare un obiettivo di vita importante.
Ci stiamo preparando a vedere scomparire ad uno ad uno tutti i nostri miti, e prevale sempre una certa razionalità… l’età che avanza, una vita vissuta intensamente e spesso fuori dalle regole, ma l’autosoppressione è un fenomeno più circoscritto, e pone la star sullo stesso piano di un comune mortale, entrambi possibili vittime di una malattia dell’anima.
Ci sono i ventisettenni morti per overdose, o giù di lì (Hendrix  & amici), esiste chi si toglie la vita da giovane per un forte e palese disagio esistenziale (Cobain), ma l’uomo che arriva al suicidio perché esiste un distaccamento forzato dal prolungamento di una vita (lo strumento con cui si esprime, qualunque esso sia), o perché attraverso di esso non può più proporsi come un tempo, è qualcosa che fa male, e che suggerisce una riflessione che riguarda tutti gli uomini, quando arriva il momento del cedimento, fisico o psichico, o entrambe le cose.
Non è possibile parlare di terzi senza avere elementi tra le mani - solo notizie filtrate dai media - ma ero curioso di sapere cosa dice la scienza in casi come quelli che la stampa ha configurato.
Mauro Selis, l’amico a cui mi sono rivolto, prova a rispondermi, coniugando le sue competenze professionali all’amore  - e conoscenza - per la musica.
E se le cose sono andate diversamente rispetto a ciò che è di dominio pubblico, beh, il nome di Keith Emerson si può tranquillamente sostituire con le tante persone che, purtroppo, si sono trovate in una situazione simile.

L'uomo è da sempre alla ricerca della sua metà, della sua completezza. Nel Simposio, Platone faceva  discutere Aristofane sul tema dell'amore, con le persone alla ricerca della loro antica unità e della perduta forza primigenia. Sono del parere che si possa ampliare il discorso, ponendo l'accento anche su quelle attività precipue che completano l'uomo, il quale diviene tutt'uno con esse.
Keith Emerson si completava con la tastiera, il pianoforte. Come la maggior parte dei grandi musicisti egli si fondeva con lo strumento, epigono espanso del suo tratto di personalità, “organo” indispensabile e necessario per  esprimere la purezza e la prestanza di un fuoco interiore che donava vitalità e senso alle cose. Cosa poter fare senza di esso? Come poter cimentarsi tra le insidiose pieghe della vita senza quell' appendice  psicofisica? Quei tasti bianchi e neri e quei Moog e Hammond erano strutture integrate dentro un organismo perfetto per produrre un suono che ha ammaliato per tecnica e creatività. Stupire, attraverso evoluzioni circensi, con fraseggi e tappeti sonori che hanno scosso il mondo, quell’universo che lo ha elevato come un semidio nel panorama prog-rock dagli anni settanta in poi.
In questa scenario emersoniano appare poco credibile il concetto dello psicanalista Alfred Adler che concepisce l'auto-soppressione come una reazione di difesa super-compensatrice del complesso di inferiorità.
Keith nella sua megalomanica figura artistica aveva costruito - con pregnanza - la sua missione, incarnante nel contempo sia la dimensione egocentrica, sia l'indole narcisista.
In definitiva l'Io si struttura per gradi e si solidifica attraverso l'interazione con i contesti e le altre persone. Se le macchine si possono sostituire con una certa facilità, le parti umane di questo unico “organo” seguono il destino naturale delle cose, il fato con i suoi percorsi lastricati da massi ostili, felicità sottili e risvolti imprevedibili.
Come un capitano di antico valore non abbandona la propria nave nel più devastante dei naufragi così per Keith non era concepibile obliare la tastiera (e derivati), questione emotiva ma anche razionale.
Immagino Emerson, immerso nella sua angoscia come un frutto prelibato in acqua impura, quante volte si sarà osservato le mani, le dita... anche in quell'ultima notte lo avrà fatto tra gli anfratti della sua sofferenza psichica. Con le mani avrà impugnato l'arma letale, quelle mani che sul pentagramma avevano tracciato composizioni indimenticabili ora erano appendici per adempiere alla scelta finale. Quel dito che migliaia di volte aveva premuto un tasto di piacere ora incombeva sopra il grilletto, pigiandolo avrebbe emesso una nota sola… definitiva, quella che lacera il tessuto esistenziale per chiudere quei Pictures at an exhibition dell'esistenza terrena.
Accettando di sopprimersi  Keith ha perseguito - inconsapevolmente? - una logica artistica, quella della sopravvivenza del proprio patrimonio creativo, non attaccato dal mortifero scenario del decadimento.
Dandosi la morte, Emerson ha consolidato la non accettazione di un cambiamento, la non adattabilità alle stagioni, la non flessibilità, come se altre storie non potessero pervadere il suo percorso terreno,  rigoroso e rigido verso un unico stile di vita.
Per dirla con Albert Bandura, Keith stava smarrendo il suo senso di autoefficacia.
Quando l'autostima e l'integrità del sé dipendono dall'attaccamento di un oggetto perduto, il suicidio può apparire come l'unica via per stabilire la coesione di sè” (Glenn Gabbard 2002).
Il richiamo della musica era più forte di ogni altra forma di affettività, di fatto il suo gesto autodistruttivo è la rappresentazione di una forte ostilità inconscia, con compromissione della capacità di amare le altre cose, come se il suicidio fosse il soddisfacimento del desiderio di ricongiungersi - in altra forma/dimensione - “all'organo” amato che stava per essere perduto definitivamente in questa vita.
Alcuni uomini nascono dopo la morte, affermava Friedrich Nietzsche, ma Keith Emerson nella morte ha trovato il consolidamento della sua grandezza di musicista, un lungo assolo oltre il sintetizzatore dell’eternità.