Intervista a Gianni Venturi e
Alessandro Seravalle
già presente su MAT2020 di febbraio
Gianni Venturi e Alessandro Seravalle uniscono intenti e anime e propongono “QOHELET”, un progetto che, nato in modo virtuale, appare destinato a trovare una giusta conformazione teatrale… appena sarà possibile.
Per entrare nei dettagli di un lavoro non certo facile, collocabile nella sfera che abbraccia musica e poesia, mi sono rivolto direttamente agli autori che hanno fornito dettagli utili alla comprensione, ma occorre un punto di partenza, che estrapolo dalle note del comunicato:
“Il grande “pensatore privato” rumeno Emil Cioran sostiene che il Qohelet contiene «tutte le verità», ogni opera segnata dalla lucidità, quella stessa lucidità che Cioran ritiene essere «incompatibile con lo scandalo del respiro» si configura quindi come una sorta di variazione sul tema. Dunque, anche quest’opera in cui la potente e torrenziale poesia di Gianni Venturi s’ibrida con i raggelanti paesaggi elettronici di Alessandro Seravalle è variazione, tecnica per altro ben nota in musica, di alcuni temi decisivi del biblico testo sapienziale: il Male, il dramma della nascita («inconveniente», lo definirebbe il filosofo transilvano), l’apologia dell’inazione, la coscienza, e il suo derivato, la conoscenza, come «pugnale nella carne» (ancora Cioran).
Ho posto alcune domande a Gianni Venturi e Alessandro Seravalle che, alternativamente, hanno risposto in modo esaustivo.
Sono abituato ad una tua produzione
artistica molto diversificata, ma per comprendere il tuo ultimo progetto, in
accoppiata con Alessandro Seravalle, appare utile qualche approfondimento.
Iniziamo dalla combinazione autorale: quando e come nasce l’incontro tra te e
Alessandro?
Gianni: La cosa interessante che io e Alessandro non ci siamo ancora incontrati fisicamente. Io seguo il suo lavoro da tempo - Garden Wall, Officina Fratelli Seravalle -, lui segue il mio - Moloch, Mantra Informatico - e piano piano si è sviluppata un’amicizia artistica. Un giorno, non so come, è venuto fuori il nome “Qohelet”, io ho espresso il desiderio di farci un opera - non pensavo ancora ad una collaborazione - e lui ha risposto che si tratta di un argomento che ama, quindi ci siamo detti: “Proviamo?” Da lì mi ha mandato un brano, io ci ho recitato cantato, vocalizzato e rimandato. È nato tutto così.
Da dove parte l’idea/necessità di
affrontare musicalmente e spiritualmente il Qohelet?
Alessandro: Secondo Emil Cioran il Qohelet contiene “tutte le verità”. La versione di Guido Ceronetti del testo sapienziale dell’Antico Testamento è stato il punto di coagulazione del progetto. In un primissimo tempo l’idea era di lavorare a un singolo brano per vedere dove potevamo arrivare. Il risultato di questo primo esperimento ci ha convinti dell’opportunità di ampliare il progetto fino a farlo diventare un disco. L’ibridazione tra la mia ricerca timbrica e la torrenziale poesia di Gianni veicolata da un approccio vocale eterodosso rappresenta il campo da gioco su cui il lavoro si è dipanato. La risultante di queste due forze è stata un’opera ostica, urticante, per nulla accondiscendente, ma abitata da un’autenticità che traspare e in qualche modo riesce a catturare coloro disposti a porvisi di fronte in modo aperto.
Ogni nostra azione/interazione ha a
che fare con aspetti sociali e politici, anche quando si pensa di affrontare il
quotidiano con leggerezza, ma i messaggi che volete lanciare sono tutt’altro
che blandi: mi parli del vostro obiettivo, rimanendo nell’ambito della
denuncia/riflessione?
Gianni: Sinceramente tutto il mio lavoro
è caratterizzato da una consapevolezza oscura, in questo in particolare la
modernità del messaggio Qohelitico sarebbe sufficiente; il tutto è vento, è
fame di vento, apre uno squarcio su questa società tecnocratica, sulla ripetizione
delle problematiche umane.
I grandi filosofi del passato -
Eraclito e Pitagora su tutti - avevano già intuito la direzione priva di
lungimiranza dell’umanità.
Non può sopravvivere una società incolta e superficiale come la nostra. Alcuni pensano che sia aumentato il livello culturale… falso, sono aumentate alcune informazioni, ma basterebbe leggere i carteggi tra poeti della fine dell’Ottocento per rendersi conto del nulla nel quale siamo sprofondati. Va da sé che l’uomo diventa predatore, sia con i suoi simili che con l’ambiente che lo nutre. Ed il vuoto avanza.
Dal punto di vista musicale esiste
una normale suddivisione dei compiti, ma considero strumento anche la tua voce:
come è avvenuto l’abbinamento tra liriche e sonorità?
Gianni: In realtà la suddivisione è sorta dalla fiducia, Alessandro mi ha mandato brani senza alcuna indicazione, io ho risposto come ho “sentito” e lui ha apprezzato. A volte sperimentare mi allontana dal “cantato” pur non arrivando a tanto, si tratta di quello che capitava a Demetrio. Unire la lirica Qoheletica ad una sperimentazione musicale non è stato facile, unire la mia poesia al Qohelet poteva apparire presuntuoso, ho preferito diventare più strumento e attore che cantante. Sono felice del risultato. Concludo dicendo che raramente ho trovato una tale “assonanza” artistica, quasi mistica, forse la distanza ci ha consentito di meditare di più sui contenuti. Anche se la vera distanza non è mai fisica. Con questo concetto si può dire che io e Alessandro siamo stati e siamo molto vicini.
Che parte ha avuto la
sperimentazione? È insito nel progetto percorrere nuove atmosfere e uso di
particolari tecnologie?
Alessandro: L’aspetto sperimentale è decisivo. Lo “sperimentare su sé stessi”, in un lavoro di approfondimento, d’inabissamento nelle spire più lontane e oscure del proprio essere, si riflette nella sperimentalità applicata al suono. Per quanto mi riguarda si tratta di spedire una sorta di sonda psichica nei miei meandri nascosti, una sonda sonica che riporti in superficie suoni che mi consentano una sorta di autognosia e, al medesimo tempo, un’attività di tipo “terapeutico” di “drenaggio” dei miei fantasmi interiori. Il computer, se utilizzato con autenticità e con spirito nobilmente “ludico” (niente di più serio del gioco, ci insegna Johan Huizinga), diventa uno strumento timbrico straordinario per predisporre tale sonda e per leggere il suo rientro a casa. Sono schegge, frammenti di suono da un altrove che, in realtà, è il luogo che abitiamo. Il timbro è attualmente il parametro che più mi affascina come pure l’armonia che sfocia in timbro, agire in quell’area di confine mi sembra alquanto interessante e fruttuoso.
Siete pienamente soddisfatti della
riuscita dell’album?
Alessandro: Un disco è l’istantanea di un momento esteso, la condensazione di un periodo della propria vita. Sono convinto che tra dieci anni, guardandoci indietro, questo lavoro manterrà la sua profondità. Quindi, sì, sono pienamente soddisfatto. In genere gli artisti tendono a esprimere delle riserve, spesso tecniche, circa i loro lavori passati, io lo ritengo sbagliato. Quando la foto risulta nitida, bene a fuoco nel restituire il passato che sei stato allora il suo valore non è soggetto al tempo.
Per costruzione e contenuti il disco
non è adatto ad ogni tipo di orecchio; non pare possa essere per voi un
problema, ma la condivisione è necessaria per tentare di educare il pubblico:
la fruibilità e comprensione di terzi è un problema che vi siete posti?
Alessandro: Francamente ho l’impressione che la fruibilità che, ben inteso, non ha assolutamente nulla di negativo in sé (adoro Phil Collins, per dirne una), corra il rischio di mutarsi in ammiccamento qualora cozzi con l’autenticità, con il libero e sincero esprimersi e sgorgare della musica dal suo autore. Ne consegue che avere in testa il pubblico nel momento creativo, d’ideazione e di realizzazione dell’opera si configura inevitabilmente come negazione dell’autenticità qualora il libero sgorgare venga incanalato da considerazioni extra-artistiche. Il disco è ostico, perché negarlo? Ma lo è in modo, ancora una volta, autentico, non affettato. È richiesta una buona dose di curiosità (qualcosa che va tristemente scomparendo) al fruitore finale, orecchie aperte, pronte a rigettare le abitudini d’ascolto. Una sfida. Ma non è forse vero che l’arte dovrebbe stimolare, pungolare, persino ferire?
“Qohelet” appare perfetto per la
performance live, seppur di nicchia: avete pensato a rappresentazioni per il
pubblico, una volta terminata l’emergenza sanitaria?
Gianni: Alla fine di questo delirio sanitario, sì, cominceremo a presentarlo in pubblico, ma sarà una sorta di laboratorio di ricerca con ospiti, danza, immagini, una sorta di sincretismo artistico.
Chi ha collaborato alla “costruzione”
del progetto?
Alessandro: ovviamente al centro del progetto stiamo io e Gianni, tuttavia “Qohelet” non avrebbe mai potuto vedere la luce senza la passione, la curiosità, l’apertura mentale e la competenza con cui Loris Furlan guida Lizard Records. Voglio citare anche il grafico Roberto Menegon che ha trasferito il quadro di mio padre sul libretto e ha curato ogni aspetto della sua realizzazione.
Possiamo approfondire il meraviglioso
artwork?
Alessandro: Come anticipato si tratta di un quadro di mio padre, Giovanni “Ninos” Seravalle (che aveva già dipinto per Officina F.lli Seravalle e altri miei lavori). L’uomo è nudo, i colori sono acidi… il pendolo giallo è in posizione di equilibrio, immobile a simboleggiare l’arrestarsi del tempo poiché… “nihil sub sole novi”. E dunque, in definitiva, il tempo scorre (ammesso che lo faccia) invano. L’attestazione della nostra mortalità e della vanitas vanitatum.
Ci sono possibilità che la coppia
Venturi/Seravalle continui la collaborazione?
Alessandro: Certamente. Lavorare con Gianni è stato fantastico. È davvero un grande poeta e il suo approccio alla vocalità è del massimo interesse. C’è questa idea di lavorare questa volta sul Cantico dei cantici… staremo a vedere.
“QOHELET”
GIANNI VENTURI - testi, voce
ALESSANDRO SERAVALLE - elettronica,
piano, synth, samples