venerdì 31 maggio 2024

Rick Wakeman: Empire Pool, Wembley, Londra, 30-31 maggio 1975


Rick Wakeman
Empire Pool, Wembley, Londra, 30-31 maggio 1975


Dopo aver siglato due magniloquenti sinfonie progressive come “The Six Wives of Henry VIII” e “Journey To The Centre Of The Earth”, Rick Wakeman decise che il suo terzo colossal, “Myths And Legendes Of King Arthur And The  Knights Of The Round Table”, avrebbe meritato un allestimento scenico davvero grandioso...

Il mio management voleva la Royal Albert Hall, ma io volevo Wembley, dove una settimana dopo ci sarebbe stato uno spettacolo sul ghiaccio e quindi non se ne poteva fare nulla. Avevo un diavolo per capello. Mi capitò di incontrare Chris Welch nella redazione di Melody Maker e, chissà perché, gli dissi che avrei fatto “King Arthur” a Wembley e sul ghiaccio! Il giornale ci ricamò sopra e a quel punto non potei più tirarmi indietro. Visto che investivo soldi miei, avevo il controllo totale dell’evento e cercai di ottenere il meglio. I pattinatori arrivarono da ogni parte del mondo, l’amplificazione fu trasportata in aereo dagli Stai Uniti e per la prima volta venne sospesa tramite delle reti. Il cast era enorme: 45 orchestrali, 48 cantanti divisi in due cori, cinquanta pattinatori, cinquanta cavalieri, un gruppo di accompagnamento di sette elementi e non ricordo più che altro. Fu divertente, ma i problemi non mancarono".

“Una serata da vedere per credere. Sul serio.”
Paul Gambaccini, Rolling Stones, 1975

“Una delle due sere, appena salito sul palco, il mio mantello si impigliò in una delle tastiere che venivano sollevate dal suolo e mi ritrovai a penzolare a mezz’aria. Mi toccò uscire di scena in totale imbarazzo e cercando di non scivolare sul ghiaccio. Poi c’era il ghiaccio secco che in una situazione di quelle dimensioni era difficile da gestire. La prima sera la nebbia restò per un pò a livello dei cavalieri, poi cominciò a salire. Nessuno sapeva come spegnere l’apparecchiatura e, verso la fine di “Lady Of The Lake”, la ballerina che interpretava la regina Ginevra scomparve insieme alla parte bassa dell’orchestra e al primo ordine di posti della platea. Era come guardare dal finestrino di un aereo!".


“Quella fu la sera delle nuvole. Poi ci fu la sera del cavaliere suicida. Nella battaglia finale 25 cavalieri per parte dovevano sfidarsi a singolar tenzone e cadere morti in mezzo al ghiaccio secco. Ma uno dei cavalieri si ammalò e diede forfait. Pensai che, con tanta gente sul palco, non fosse un problema. Ma, naturalmente, alla fine del pezzo c’era un cavaliere che andava alla ricerca di qualcuno che lo uccidesse. Il direttore di orchestra mi guardava con la faccia disperata, ma il tipo se la cavò bene. Dopo aver vagato per un po' senza sapere che fare ebbe un colpo di genio e si suicidò: spettacolo allo stato puro!”
(Mark Paytress-“Io c’ero”)



giovedì 30 maggio 2024

“Wight Is Wight”-"L'isola di Wight", tra Michel Delpech e Dik Dik

Wight Is Wight” è una canzone di Michel Delpech uscita nel 1969. La canzone evoca i Festival dell'Isola di Wight che si sono svolti nell'isola dal 1968 al 1970.

In Francia riscosse un notevole successo e raggiunse la prima posizione della hit parade. Anche in Italia sfiorò la vetta, raggiungendo la seconda posizione.

In totale ha venduto oltre un milione di copie ed è stata premiata con il disco d'oro.

Nella canzone, influenzata dalla cultura hippy, l'autore menziona Bob Dylan e Donovan in segno di tributo.



Nel 1970 i DIK DIK realizzarono la loro versione in italiano, con i testi di Claudio Daiano e Alberto Salerno, intitolata “L'isola di Wight”, e pubblicata nel singolo L'isola di Wight/Innamorato”.

I Dik Dik avevano da poco interrotto la collaborazione con Mogol-Battisti. Pietruccio Montalbetti voleva dedicare una canzone al fenomeno dei raduni pop (cominciati con il Festival di Monterey, a cui successe Woodstock e, appunto il Festival dell'Isola di Wight) e avendo casualmente sentito il pezzo di Delpech, pensò di farne una versione in italiano. I Dik Dik la incisero "in fretta e furia" ottenendo anch’essi un grande successo.

Una bella canzone - e tanti ricordi -  in tutte le versioni…






mercoledì 29 maggio 2024

Ricordando Ollie Halsall, immenso chitarrista che ci lasciava il 29 maggio del 1992


Il 29 maggio del 1992, all’età di 43 anni, ci lasciava Ollie Halsall, a causa di un'overdose di eroina.

Chitarrista inglese, è conosciuto per il suo lavoro con i Rutles, con i Patto, con i Timebox, con i Tempest e con i Boxer e per la sua collaborazione con Kevin Ayers. È stato uno dei pochi suonatori di vibrafono nel rock.

Halsall è stato un musicista estremamente talentuoso e versatile, in grado di suonare una vasta gamma di strumenti, tra cui chitarra, basso, pianoforte, tastiere, percussioni e fiati. La sua tecnica era caratterizzata da una grande abilità tecnica e da una creatività eclettica. Era noto per la sua capacità di passare senza sforzo tra generi musicali diversi, includendo rock, jazz, funk, soul e altri.

Nonostante il suo talento, Halsall non ha raggiunto la stessa notorietà di alcuni dei suoi contemporanei. Tuttavia, è tuttora considerato un musicista molto rispettato nella cerchia degli appassionati di musica e tra i suoi colleghi.

Rivediamolo nei PATTO, alle prese con due differenti strumenti…







Nel ricordo di Jeff Buckley


Il 29 maggio del 1997, a Memphis, perdeva la vita, a soli 31 anni, Jeff Buckley, figlio del già famoso Tim, e musicista da un probabile futuro luminoso.
Lo ricordo ripresentando un post di un po’ di tempo fa.

Volendo parlare di una famiglia di musicisti sarebbe corretto iniziare dal capostipite, dal più vecchio, da chi ha aperto la strada.
Non posso farlo, in questo caso, perché attraverso la musica del figlio ho scoperto quella del padre.
Mi riferisco ai Buckley, Jeff il figlio e Tim il padre.

Sono arrivato a Jeff leggendo un’intervista al chitarrista Steve Vai, che diceva, più o meno: L’ultima volta che mi sono emozionato per un disco è stato quando ho ascoltato ”Grace”, di Jeff Buckley".

Incuriosito ho cercato “Grace” e… ne sono rimasto incantato.
Da Jeff a Tim, il passo a ritroso è stato il frutto della curiosità alimentata da un libro che narra la vita di un padre e di un figlio che non si conosceranno mai.
Jeff Buckley stava per diventare un mito con un solo disco," Grace", destinato a rimanere uno dei capolavori degli anni '90, quando una morte assurda lo portò via. Ma tutta la sua vita è segnata da un destino negativo.

Jeffrey Scott Moorhead nasce il 17 novembre 1966, a Orange County, da Mary Guibert e da Tim Buckley. Suo padre, uno dei più grandi cantanti e compositori della storia del rock, iniziava proprio in quel periodo la sua carriera, incidendo il primo disco e separandosi, dopo poche settimane, dal piccolo Jeff e da sua madre.
Tim morì per overdose all'età di 28 anni, entrando nella leggenda della musica americana e trascinando suo malgrado il figlio, che vide per la prima volta poche settimane prima di morire, inconsapevole di un destino altrettanto avverso che si prospettava anche per Jeff.
A 17 anni Jeff forma il suo primo gruppo, gli Shinehead, a Los Angeles.

Nel 1990 ritorna a New York e con l'amico Gary Lucas costituisce i Gods & Amp; Monsters. Ma i dissidi interni portano il progetto ben presto al fallimento.
Jeff Buckley inizia allora una carriera solista suonando nel circuito del Greenwich Village e rendendosi noto soprattutto per la partecipazione al concerto tributo in onore del padre, di cui interpreta “Once I Was” (da “Goodbye and Hello”).
Le sue prime esibizioni avvengono in un piccolo club dell'East Village di New York chiamato Sin-E'. Nel 1993, dopo alcuni anni di gavetta, Jeff ha la possibilità, tramite la Columbia, di registrare il suo primo disco, inciso dal vivo, proprio nel "suo" club.

" Live at Sin-E'", contiene solo quattro pezzi, due dei quali sono cover, una di Edith Piaf e l'altra di Van Morrison, e due suoi pezzi, "Mojo Pin" ed "Eternal Life".
Per promuovere il disco Jeff e la sua band partono per una tournée nel Nord America e in Europa.
Visto il discreto successo, la sua casa discografica avvia una campagna promozionale per il suo primo disco completo "Grace", pubblicato negli Usa nell'agosto del 1994.
Nell’album si rivela tutto il talento di Jeff: la sua voce invocante sembra prendere coraggio per strada, finendo in un crescendo, intenso e doloroso. I testi - veri tormenti dell'anima e del profondo - pescano nel repertorio del padre Tim, ma anche di Bob Dylan, Leonard Cohen e Van Morrison.

Il lavoro contiene dieci tracce: tre composte da Jeff, due in collaborazione con l'amico Gary Lucas, una con Michael Tighe e una con Mick Grondahl e Matt Johnson, più tre cover, tra le quali, da brivido, la meravigliosa "Halleluja" di Cohen.
Nell'album, Jeff Buckley suona chitarra, harmonium, organo e dulcimer, accompagnato da Mick Grondahl al basso, Matt Johnson alla batteria e percussioni, Michael Tighe e l'amico Gary Lucas alle chitarre.

"Grace" risulta davvero un'opera carica di grazia, eseguita da un gruppo di tutto rispetto, con pezzi che esaltano le doti vocali di Jeff (in particolare le altre due cover, "Liliac Wine", "Corpus Christi Carol") tali da raggiungere una struggente intensità.
Il canto di Buckley parte piano, modulando le inflessioni nello stile dei folk-singer, ma finisce sempre in un crescendo drammatico e “mistico”, lambendo blues e gospel. Uno stile ad effetto, che lascia senza fiato in ballate come “Lover”, “Ethernal Life” e “Dream Borother”, oltre che nella struggente title track.

Musicalmente, sono il tintinnio della chitarra di Gary Lucas e i soffici sottofondi delle tastiere di Buckley a esaltare il senso di religiosità dei brani (metà dei quali sono di ispirazione liturgica). Arrangiamenti eleganti, a volte sinfonici, in bilico tra folk e rock, pop e soul, si combinano bene con l’esile trama delle melodie.
Nel 1997 viene avviato il progetto per la realizzazione del nuovo disco "My sweetheart the drunk", che uscirà postumo, in una veste piuttosto grezza e visibilmente incompleta, con il titolo di "Sketches" .

La notte del 29 maggio l'artista si reca con un amico a Mud Island Harbor (Tennessee), dove decide di fare una nuotata nel Mississippi e si getta nel fiume completamente vestito.
Qualche minuto più tardi, forse travolto dall’ondata di una nave, sparisce tra le acque.
La polizia interviene immediatamente, ma senza risultati.
Il suo corpo viene ritrovato il 4 giugno, vicino alla rinomata Beale Street Area.
Aveva solo 30 anni. Le indagini stabiliranno che il musicista non era sotto l’effetto né di droghe né di alcol.
Nel 2000, la Columbia, dietro la supervisione di Michael Tighe e della madre di Jeff, pubblica "Mistery White Boy", una raccolta dal vivo, e "Live in Chicago" (su dvd e vhs), concerto del 1995, registrato al Cabaret Metro di Chicago.
Nel 2001, esce invece "Live à l'Olimpya", ritratto del giovane Jeff nella sua Parigi, contenente brani del primo disco e qualche cover.

Emerso dal circuito folkie e bohemien newyorkese, Jeff Buckley si è dimostrato musicista di razza nonché musa ispiratrice di molti artisti rock, anche in epoca recente. Seppur meno geniale del padre, ha saputo in qualche modo tramandarne lo spirito fragile e disperato, rivelandosi uno dei “personaggi” di culto del decennio Novanta.





martedì 28 maggio 2024

Le origini di "Quadrophenia"



Nell’inverno del 1960, Jack Lyons, il più noto fan degli Who e colui che è considerato il primo mod londinese, entrato definitivamente nel mito per aver ispirato in larga parte il personaggio di Jimmy in Quadrophenia, e familiare ai più col nome di Irish Jack, abbandona Cork e si trasferisce a Londra. E’ un giovane alto, snello e timidissimo, ma si trova subito bene come cittadino della capitale britannica, dove frequenta una scuola nel quartiere di Shepherd’s Bush. Nonostante la pronuncia di Jack somigli più a quella inglese, ormai senza alcuna inflessione irlandese, e il suo look sia naturalmente “cool”, i suoi coetanei “rocker” (quelli vestiti col giubbotto di pelle alla Elvis Presley) non lo sopportano e gliene combinano di tutti i colori. Dopo una zuffa, Jack sanguina. Ciò nonostante, o forse per questo motivo, quella sera si ripulisce e decide, con rabbia, di varcare la soglia di un locale denominato Goldhawk Club. E’ il 1964.

Tutto quello che volevo”, racconta Irish Jack ripensando al suo primo incontro con gli Who, “era sentirmi ripulito ed entrare in quel locale per vincere la timidezza e sentirmi bene. Lo feci e mi accorsi che tutti osservavano la mia giacca. In effetti era scura e aveva un taglio impeccabile. Non ricordo dove l’avevo comprata, so solo che mi piacque appena la vidi esposta in una vetrina di un piccolo negozio sconosciuto. Sul palcoscenico quella sera si esibiva una band chiamata The Detours (primo nome degli Who). Avevano sì e no la mia età e il cantante si muoveva alla maniera si Cliff Richard. Colui che mi colpì maggiormente fu il chitarrista, Pete Townshend: aveva un’energia incredibile su un corpo affilato e un viso molto triste e sofferto, e allo stesso tempo arrabbiato. Divenni amico dei Detours e fui il loro primo fan. Ricordo con affetto le bevuto con John Entwistle e gli scherzi di Keith Moon.”

In sintesi, gli ingredienti per trasformare un Irish Jack Lyons o un giovane “qualsiasi” in un “mod”consistevano nella disponibilità di guadagnare una somma, anche minima, da poter investire in abiti e in oggetti di grido: da un punto di vista materiale, era riconosciuta l’assoluta importanza di possedere una Lambretta. Il primo modello di Vespa diventa infatti il distintivo più alto di appartenenza al “genere”, così come indossare un parka di colore verde e ambiti impeccabili, almeno di sabato sera o quando ci si trovava a ballare nei locali-culto, ovviamente coi capelli tagliati in modo geometricamente ineccepibile.
A distanza di tempo verrà concepita l’opera rock Quadrophenia, proprio come omaggio al popolo mod e ai tanti Irish Jack dell’epoca.

Gli Who, trasformati in bandiere del “modernism” per “cavalcare l’onda”, non furono dei mod e non perseguirono con convinzione il reale stile di vita modernista, ma Pete Townshend al proposito ha dichiarato: “ Non sono mai stato un mod e non ho mai finto di esserlo, però i mod mi hanno dato quella carica che ha reso possibile suonare, all’inizio, in quel modo. Come ogni esperienza, specialmente se si tratta di una prima esperienza, quegli anni sono entrati a far parte di me e degli Who. Imprescindibilmente. Credo di essermene reso conto nel preciso momento in cui scrissi le prime note di Quadrophenia: molto prima di sapere cosa avrei realizzato, se una rock opera, un album o anche solo un paio di canzoni e nient’altro, sentivo nascere in me il desideri odi scrivere quella musica per il popolo mod. E così è stato”.
Tratto da: “La Storia del Rock”, volume 3





lunedì 27 maggio 2024

Resoconto presentazione del libro "Woodstock..." a Stella San Martino, il 25 maggio 2024

 


Sabato 25 maggio è andato in scena un nuovo capitolo legato alla divulgazione del libro “Woodstock, Ricordi, aneddoti, sentimenti diffusi”, di Pintelli/Enrile/De Negri.

Evento speciale, perché realizzato in un teatro, un luogo solitamente dedito ad altro tipo di rappresentazioni, in un paese dell’entroterra savonese, Stella San Martino, immerso nel verde e dall’atmosfera sicuramente adatta all’argomento trattato.

In pieno accordo con l’assessore alla cultura Arianna Oggero, e con l’ausilio indispensabile del factotum Simone Ruscino, si è dato largo spazio alla musica, maggiore rispetto alle precedenti occasioni, e di fatto, oltre ai brani tradizionali legati alla presentazione, è nata una seconda parte di spettacolo dedicata esclusivamente alla musica suonata che, occorre dirlo, i BECS proponevano per la prima volta in modus elettrificato, utilizzando un impianto nuovissimo e di fatto sperimentando un diverso modello propositivo.

Ma chi sono i BECS?

BECS è l’acronimo dei cognomi dei componenti l’ensemble: Briano (Marco), Enrile (Athos), Cruciani (Fabrizio) e Storace (Roberto).

Il format, sempre lo stesso, è diventato per l’occasione evento musicale, con le parole che si sono miscelate alle immagini didascaliche e ai differenti brani.

Il tutto per un paio di ore di spettacolo che è stato possibile grazie al gradimento del pubblico, che ha favorito il proseguimento oltre i tempi canonici.

Un palco, una platea, uno schermo - e proiettore - e quattro ex ragazzi con una chitarra in mano.

A metà evento si sono unite al gruppo due girls, Raffaella Bergonzi e Maura Genta, per far parte del coro della mitica “With a little help from my friends” e di un successivo medley californiano (“California dreamin”, “San Francisco” e “Stay”). Insomma, uno spirito di gruppo che il pubblico pare abbia apprezzato.

Vediamo una sintesi di questa prima parte targata “CSN&Y”….

La seconda parte si è basata solo sulla musica, permettendo di spaziare su altri repertori, come quello degli Eagles, dei Lynyrd Skynyrd, per terminare con i Pink Floyd.

Anche di questa sezione propongo una sintesi…

Alla fine, bicchierata in piena comunione con il pubblico e attimi di socializzazione e serenità.

Una bella organizzazione ha permesso di superare le difficoltà legate a tutte “le prime volte”, con la guida sapiente di Roberto Storace, il driver musicale del gruppo.

Un ringraziamento particolare ai rappresentanti del Comune, all’ANSPI e al proprietario/gestore dello spazio parrocchiale.

E speriamo sia solo un arrivederci!






Ricordando Gregg Allman nel giorno della sua dipartita.

 


The Allman Brothers Band: tra musica e dolore

 

Il 27 maggio del 2017 ci lasciava Gregg Allman, e almeno il nome dovrebbe essere famigliare a tutti quelli che bazzicano il mondo del rock, seppur episodicamente.

Chi conosce un po’ della sua vita non si sarà meravigliato più di tanto, perché i percorsi carichi di eccessi hanno una conseguenza logica, e poi di Keith Richards ce n’è uno solo al mondo!

Vale la pena tracciare un minimo di storia, un iter che ha accomunato nella disgrazia numerosi membri della The Allman Brothers Band.

Pare che la fiammella si sia accesa nel garage del batterista Butch Trucks - era il 1969 - organizzatore di una jam session che prevedeva la presenza di Duane Allman (voce chitarra), Berry Oakley (basso), Dickey Betts (chitarra) e Jai Johanson (batteria/percussioni). L’entusiasmante performance fece sì che i musicisti si trasformassero repentinamente in band. Il tassello mancante, Gregg, fratello di Duane, si unì subito dopo, con il ruolo di cantante e tastierista.

E nasce la leggenda, una delle band più influenti del rock americano, capace di scavalcare l’approccio al blues dei chitarristi inglesi (Page, Clapton, Beck…), favorendo una strategia jazzistica basata sull’improvvisazione e su una rivoluzionaria sezione ritmica. Definire la Allman Brothers Band una semplice band southern rock appare riduttivo, perchè la loro risonanza nella musica rock è pari a quella esercitata dai Cream, da Jimi Hendrix e dai Grateful Dead, miti che si mantengono freschi nel tempo.

Occorre dire che il “rock sudista” americano prese corpo a cavallo tra gli anni ’60 e ’70, caratterizzato da un colore locale molto radicato, accompagnato spesso da pennellate di tragedia. Gli Allman furono i primi a delineare i contorni di quell’ideologia, tra musica e comportamenti: l’attaccamento ai valori della propria terra, il gusto per le lunghe improvvisazioni e la vita da hippie. Un’intera armata di southern rockers prese d’assalto il rock americano sventolando orgogliosamente la bandiera della Confederazione e conquistando l’attenzione generale del Paese, tanto da indurre un politico potente come Jimmy Carter a interessarsi di loro e a cercarne in qualche modo l’appoggio quando tentò la scalata alla Casa Bianca.

Ma la vita degli Allman fu travagliata e funestata da disgrazie rilevanti, e a poco più di due anni dall’incontro decisivo Duane perse la vita, a soli 24 anni: è il 29 ottobre del 1971 quando il chitarrista di Nasville muore in sella alla sua Harley Davidson, davanti agli occhi della fidanzata che lo segue in auto, sulla via di casa.

E la maledizione che pende sui musicisti della TABB colpisce ancora un anno dopo, quando Berry Oakley trova la stessa sorte e con modalità molto simili: anche lui in moto, a pochi isolati di distanza dall’incidente precedente, e alla stessa età!

Arriviamo ai giorni nostri, l’anno 2017, che ha visto la dipartita di Butch Trucks - a gennaio -, suicida al cospetto della moglie, mentre per Gregg si parla di attacco di cuore, summa di una serie infinita di problemi di salute accumulati nel tempo: avevano entrambi sessantanove anni.

A tenere duro Dickey Betts e Jai Johanson.

Nel corso di cinquant’anni si sono succedute reunion e modifiche alla line up, ma ciò che resta è il marchio indelebile di una formazione che ha disegnato una strada musicale precisa, un blues rock dalle venature psichedeliche che poteva contare su di un formidabile tandem chitarristico e sulla possenza della doppia sezione ritmica, mentre Greg Allman, con la sua caldissima voce da soul man nero e il suo Hammond, sapeva colorare il tutto con intese tinte gospel.

E in quei giorni Macon, la città della Georgia in cui andarono tutti a stabilirsi in una specie di comune artistica, diventò il centro di una nuova scena rock dall’incredibile vitalità e creatività, superando nel ruolo perfino San Francisco.

Il funghetto magico della psylocibe, scelto come logo della band, divenne il simbolo di uno stile di vita comunitario e hippie, pieno di utopie e di “esplorazioni” ad ampio raggio.

Tanti tra i protagonisti di quel movimento se ne sono andati, come logica di vita vuole, ma resta ciò che molti di loro hanno creato, incancellabile, godibile, una musica di cui rimangono pregne quelle terre, arrivata a noi in tempi lontani, quella che i più oculati e attenti hanno afferrato… senza lasciarla più.





domenica 26 maggio 2024

Doug Ingle: è morto l'ultimo membro originale dei rocker psichedelici americani Iron Butterfly



Il fondatore di Iron Butterfly, Doug Ingle, è morto a 78 anni

 

Il cantante, organista e principale compositore degli Iron Butterfly Doug Ingle è morto circondato dalla famiglia il 24 maggio.

Suo figlio, Doug Ingle Jr, ha dichiarato: "È con il cuore pesante e con grande tristezza che annuncio la scomparsa di mio padre Doug Ingle. Papà è morto serenamente questa sera alla presenza della famiglia. Grazie papà per essere un padre, un insegnante e un amico. Cari ricordi d'amore porterò con me il resto dei miei giorni andando avanti in questo viaggio della vita. Ti voglio bene papà".

Ingle aveva 78 anni. La sua morte arriva tre anni dopo la dipartita del batterista Ron Bushy, membro fondatore, morto a 79 anni di cancro all'esofago.

Ingle era nato a Omaha, nel Nebraska, e si trsferì in California da bambino in tenera età. Il suo interesse per la musica proveniva da suo padre, che era un organista di chiesa.

Ha fondato gli Iron Butterfly nel 1966 e il loro album di debutto, “Heavy”, è stato pubblicato due anni dopo.

La band di San Diego ha avuto un'enorme influenza ed è classificata tra i gruppi fondatori dell'heavy rock americano. Erano soprattutto conosciuti per il loro classico di 17 minuti, “In-A-Gadda-Da-Vida”, la title track del loro secondo album, che ha raggiunto lo status di quadruplo disco di platino negli Stati Uniti. Ingle ha cantato e co-scritto il brano.

La canzone “In-A-Gadda-Da-Vida” è nata da un soundcheck in studio in cui la band ha in gran parte improvvisato, in attesa che il loro produttore ritardatario si presentasse.

Per caso, l'ingegnere stava registrando come test.

È stato modificato e pubblicato come singolo, ma la versione dell'album è diventata un classico, essendo stata reinterpretata dagli Slayer e facendo la sua famosa apparizione nello show televisivo animato I Simpson.


Ma questa a mio giudizio è insuperabile!!!






Ricordando Alan White che ci ha lasciato due anni fa

 


Il 26 maggio del 2022 ci lasciava Alan White all'età di 72 anni


Alan nacque a Pelton, nella contea di Durham, in Inghilterra, il 14 giugno 1949. Prese lezioni di pianoforte all'età di sei anni mentre iniziò a suonare la batteria a dodici anni, esibendosi in pubblico a partire dai tredici anni.

Nel corso degli anni ’60 affinò il suo “mestiere” suonando con molteplici band, tra cui The Downbeats, The Gamblers, Billy Fury, Alan Price Big Band, Bell and Arc, Terry Reid, Happy Magazine (in seguito chiamato Griffin) e Balls con Trevor Burton (The Move) e Denny Laine (Wings).

Nel 1968, Alan si unì ai Ginger Baker's Airforce, un nuovo gruppo che fu messo insieme dall'ex batterista dei Cream e da altri noti musicisti della scena musicale inglese, tra cui Steve Winwood, ex Traffic.

Nel 1969 ricevette una richiesta che inizialmente pensò potesse essere uno scherzo, perché John Lennon gli chiese di unirsi alla Plastic Ono Band. Il giorno dopo Alan si ritrovò a imparare canzoni nel retro di un aereo di linea diretto a Toronto con Lennon, Yoko Ono, Eric Clapton e Klaus Voormann. L'album che seguì, “Live Peace In Toronto”, vendette milioni di copie, raggiungendo la posizione numero 10 nelle classifiche.

La collaborazione di Alan con Lennon continuò e assieme registrarono singoli come “Instant Karma” e il successivo album di riferimento “Imagine”, con Alan che suonava la batteria in “Jealous Guy” e “How Do You Sleep at Night”. Il lavoro con Lennon diventò per Alan il passepartout per arrivare a George Harrison, che gli chiese di esibirsi nell'album “All Things Must Pass”, incluso il singolo, “My Sweet Lord” pubblicato nel 1970. Successivamente lavorò con molti artisti per l'etichetta Apple, tra cui Billy Preston, Rosetta Hightower e Doris Troy.

Il 27 luglio 1972 si unì agli Yes, avendo a disposizione tre soli giorni per imparare il loro repertorio e partì per un tour negli Stati Uniti dove suonò davanti a 15.000 fan a Dallas, il 30 luglio.

Non si separò più dagli YES, e con la scomparsa del membro fondatore Chris Squire, nel giugno 2015, Alan diventò il membro della band più longevo.

La band ha dedicato ad Alan il 50th Anniversary Close to the Edge UK Tour dello scorso giugno.

Tra le tante testimonianze disponibili in rete scelgo uno stralcio del concerto che vidi il 12 luglio del 2003, evento che cambiò significativamente la mia vita… ma questa è un’altra storia!




REPORTAGE FOTOGRAFICO FORNITO DA WAZZA











sabato 25 maggio 2024

Paul McCartney nella Piazza Rossa, 24 Maggio 2003


Paul McCartney, Piazza Rossa, Mosca, 24 maggio 2003

Il Moscov Times ci scherzò sopra, parlando della nuova sigla artistica Lenin-McCartney.
Nel 2003, i due vecchi rivoluzionari, Lenin e Lennon, se n’erano ormai andati ed era scomparsa anche l’Unione Sovietica cantata da McCartney in “Back in the USSR” durante gli anni della guerra fredda .
Vivi e vegeti sembravano invece essere i Beatles, al cui repertorio McCartney attinse ampiamente durante il suo primo concerto in terra russa.

Da anni volevo suonare in Russia, ma con i comunisti al potere non avevo mai potuto farlo”, spiegò McCartney nell’annunciare il concerto. “Non ci sono mai stato neppure da turista, quindi trovo esaltante la prospettiva di suonare Back in the USSR e tante altre canzoni davanti a gente che credo non veda l’ora di ascoltarle”.

Per quanto non ufficialmente proibiti, nella vecchia Unione Sovietica i dischi dei Beatles erano molto difficili da reperire. Solo nel 1988, quando le relazioni con l’Occidente avevano cominciato a sgretolarsi, McCartney poté pubblicare per il mercato russo Choba B CCCP  (ovvero Back in the USSR), una raccolta di classici del rock and roll.
La passione di McCartney per la Russia e la sua gente venne ricompensata il 24 maggio 2003, quando una folla di ventimila persone si radunò nella Piazza Rossa per una delle ultime date della lunga tournèe mondiale dell’ex Beatle. Grida di “Will love you, Paul”, riempirono l’aria a pochi metri dalle tombe di Lenin e Stalin.
Inutile dire che un simile accostamento fra sacro e profano aveva suscitato qualche polemica.
Prima del concerto McCartney si era recato al Cremlino per un colloquio privato col presidente russo Vladimir Putin, il quale gli aveva confidato che i Beatles erano stati “ un soffio d’aria fresca, una finestra aperta sul mondo”. Poiché Putin non avrebbe potuto essere presente al concerto serale, “Macca” improvvisò una versione di Let It Be, poi spiegò che era bello poter essere in una terra così piena di spiritualità: ” Ho sempre immaginato che la gente di qui avesse un cuore grande. Ora so che è vero”.

Ma McCartney aveva alle spalle una parete piena di grandi schermi su cui scorrevano immagini dell’epoca d’oro dei Beatles. Aprì il concerto sulle note di “Hello Goodbye” e lo chiuse, una trentina di canzoni dopo, con un medley di “Sgt Pepper’s Lonely Hearts Club Band” e “The End”.
Suonò anche “Back in the USSR”. Due volte.

(Mark Paytress-"Io c'ero")








giovedì 23 maggio 2024

Quando i The Doors incontrarono... la musica italiana!

 

Nonostante il mio lungo viaggio nel mondo della musica sia iniziato nella tenera età, ogni giorno mi accorgo di essermi perso per strada delle chicche.

Facciamo un passo indietro, di almeno undici lustri, quando, probabilmente, portavo ancora i pantaloni corti, ma conosceva già i Beatles.

In quei giorni, era la normalità ascoltare brani magnifici proposti dai gruppi più in voga, come i Camaleonti, i Nomadi, l’Equipe 84, i DiK Dik, i Quelli e molti altri.

Ciò che proponevano erano soprattutto canzoni “rubate” oltreoceano e oltremanica, con un nuovo testo che potesse ricondurre alla lingua italiana e che non necessariamente traeva spunto dalla lirica originale: pare che a quei tempi non esistessero problemi di "proprietà del pezzo".

La lista delle band di riferimento è infinita, dai Procol Harum ai The Hollies passando per i The Animals… scontato pescare nel mondo Beatles e Stones.

Ciò che mi mancava era la coverizzazione dei The Doors che, lasciando perdere la lunghissima e poco adatta alla “riduzione a 3 minuti” - necessaria all’epoca - di “The End”, qualche brano utile alla causa lo avevano pure costruito!

E poi tutto potevo pensare tranne che immaginare un loro brano proposto da un principe italiano della melodia, Nicola di Bari.

Di lui non aggiungerò nulla, tutti sanno chi è, ma presento la sua versione di “Light My Fire”, che fu trasformata all’occorrenza di “DAMMI FUOCO” (1970), che qualcuno ha commentato così: “Molto simile musicalmente alla versione di Jose Feliciano, un buon arrangiamento con i flauti e gli archi… la copertina psichedelica è veramente bella…”.

Concordo sulla copertina!


Possiamo sentire la stessa canzone attraverso la registrazione di un altro gruppo di cui non ricordavo l’esistenza e che si chiamava Gli Innnominati. Il titolo è “Prendi un fiammifero” (1967)



Qualche nota su di loro trovata in rete.

Gli Innominati erano un gruppo di Milano la cui notorietà è legata soprattutto a questa ardita cover del primo grande successo dei Doors, n.1 in USA per tre settimane nel luglio del 1967 e canzone guida del loro primo album pubblicato in USA nel gennaio dello stesso anno. Scritto in larga parte dal chitarrista del gruppo Robby Krieger, era accreditato a tutta la band. La versione italiana è "zavorrata" dal titolo e dal refrain che, con umorismo involontario, introducendo un domestico fiammifero (neanche un cerino, che può evocare forse l'accensione di una sigaretta) fanno pensare, più che al fuoco della passione, alla pentola del minestrone per la cena.

Nel resto del testo, a parte che a forza viene introdotto (come in tutte o quasi le canzoni degli anni '60, un mistero mai chiarito) il tema di un amore in crisi, che nell'originale non sembra esserci proprio, non stravolge il senso, pur se ha molta meno forza. La esecuzione degli Innominati è invece piuttosto valida, sia come interpretazione vocale sia soprattutto nella parte per organo, molto in evidenza in questo pezzo, dove il tastierista, che si chiamava probabilmente Filippo (ma il cognome non è noto) non sfigura troppo nel confronto con Ray Manzarek, che era, come noto, un virtuoso dello strumento, in grado di gestire contemporaneamente anche la parte di basso (che nella formazione dei Doors non c'era).


Non ricordavo neppure Katty Line, che ci regalò la sua versione di “Touch Me”, che in italiano diventò “Tu Vinci Sempre” (1970).


Katty Line, pseudonimo di Catherine Denise Frédérique Boloban, è una cantante francese che ha da poco compiuto 77 anni.

Inizia la sua carriera in Francia a metà degli anni Sessanta, riscuotendo subito un buon successo, esibendosi poi anche in Belgio ed in Svizzera.

In Italia diventa famosa dopo la partecipazione al programma televisivo “Stasera con Adriano Celentano”, dove si mette in luce per la sua bellezza e per le mini-minigonne che indossa: proprio il Molleggiato pubblica i suoi dischi con la sua casa discografica; inoltre, a seguito del successo televisivo, Katty Line viene ingaggiata dalla Dufour per Carosello. Partecipa al Festivalbar (1969), e risale a quell’anno il tributo ai Doors (con il testo scritto da Luciano Beretta e Cristiano Minellono).


E termino con una chicca assoluta, quella di Gene Guglielmi, che con il suo “Il Ditone” (1970), fornisce volto italico al brano “You Make Me Real.

Al di là delle mie mancanze si può evidenziare come Gene Guglielmi sia considerato un pioniere del beat italiano...

Cantautore, architetto, docente e poeta, nato a San Salvatore Monferrato il 17 aprile 1947, figura chiave del panorama musicale italiano, Guglielmi si è distinto come uno dei principali esponenti del beat italiano durante gli anni '60. La sua musica, caratterizzata da sonorità innovative e testi poetici, ha saputo catturare l'animo di un'intera generazione, incarnando i fermenti di cambiamento e la voglia di rottura con gli schemi tradizionali di quel periodo.

La sua carriera musicale ha avuto inizio con la partecipazione al concorso televisivo "Giochi in famiglia", condotto da Mike Bongiorno. Notato dal produttore Carlo Alberto Rossi, Guglielmi venne subito lanciato nel mondo discografico, diventando uno dei volti più rappresentativi del beat italiano.

Oltre alla musica, Guglielmi ha portato avanti una brillante carriera come architetto, docente universitario e poeta.

Ancora oggi, nonostante la sua età, rimane attivo nel panorama musicale italiano. Continua ad esibirsi dal vivo e a dedicarsi alla scrittura di nuove canzoni, portando avanti con passione e dedizione il suo lascito artistico.



Non si finisce mai di imparare!






mercoledì 22 maggio 2024

Il folk psichedelico dei FOREST

 


Cliccare sui titoli in blu per ascoltare il brano o l'album

Forest è stato un trio psichedelico-folk/acid-folk formatosi nel 1966 a Grimsby, nel Lincolnshire, in Inghilterra.

Il gruppo era composto dai fratelli Martin Welham, Adrian Welham e dal loro compagno di scuola Dez Allenby, e in questo assetto iniziarono a suonare musica folk tradizionale, sulle orme di ensemble contemporanei, come The Watersons e The Young Tradition.

La band fu pioniera della nascente scena acustica-psichedelica/acid-folk underground del 1960, scrivendo canzoni artigianali non convenzionali che evocavano gli antichi boschetti della Gran Bretagna, usando una varietà di strumenti acustici.

Dando il via all’attività sotto il nome di The Foresters of Walesby, il gruppo iniziò a cantare canzoni popolari a base di armonia vocale nei club folk del Lincolnshire. Dopo essersi trasferiti a Birmingham nel 1968, accorciarono il loro nome in “Forest” e presto progredirono nella scrittura all'interno del fiorente movimento folk psichedelico/acido di metà anni ‘60, sulla scia dell'emergere dell'Incredible String Band.

Poterono godere dell’appoggio di DJ John Peel - una delle voci storiche della radio britannica - e si esibirono in diverse sessioni per la BBC Radio 1.

Nel 1969 firmarono un contratto con la Blackhill Enterprises e furono tra i primi a siglare un accordo per la nuova etichetta progressive Harvest Records della EMI.

Il singolo "Searchingfor Shadows" fu pubblicato nel 1969, seguito dall'album di debutto omonimo che presentava una serie di strumenti acustici dal suono medievale, armonie, aggeggi e immagini liriche pastorali.

Full Circle” fu pubblicato un anno dopo, un eclettico set di canzoni con temi scuri che videro stili più disparati incorporati nel loro marchio di folk pagano, tra cui il pezzo neoclassico "Graveyard" e il cupamente barocco "Midnight Hanging of a Runaway Serf".

La traccia di apertura, "Hawk The Hawker", propone un accenno country per via dell'inclusione della steel guitar (suonata dal musicista Gordon Huntley) e il pezzo folk tradizionale "Famine Song" vede la band tornare alle radici di armonia in tre parti non accompagnate.

Entrambe le copertine apribili degli album presentavano opere d'arte straordinariamente inquietanti dell'artista Joan Melville.

Dez Allenby lasciò la band nel 1971 e i Welhams furono arruolati da Dave Panton (viola, oboe e sassofono) e Dave Stubbs (basso) per il loro lavoro dal vivo.

L'ultima apparizione dei Forest risale al Festival Pinkpop del 1971 a Geleen, nei Paesi Bassi, che li vide registrare le loro ultime sessioni di BBC Radio 1 prima di sciogliersi verso la fine di quell’anno.

La canzone dei Forest "A Glade Somewhere" è apparsa nel campionatore della Harvest Records Picnic - A Breath of Fresh Air nel 1970.

"Graveyard" è stata inclusa nella compilation acid-folk del 2004 della Castle Records Gather in the Mushrooms e nella raccolta Strange Folk della Albion Records pubblicata nel 2006, inclusa la traccia dell'album Forest "Fading Light".


Eredità

Il secondo album di Forest, “Full Circle”, è stato uno dei 1000 album indicati dal Guardian come “da ascoltare prima di morire”.

Martin Welham è ora la metà del duo psych-folk, The Story, con suo figlio Tom.

Dez Allenby è attivo suonando musica nell'East Yorkshire e oltre.

 

Discografia 

Album

Forest (1969)

Full Circle (1970) 

Singoli

"Searching for Shadows"/"Mirror of Life" (1969)