Parto per una volta dalla sintetica presentazione dell’autore, in questo caso più volte presente nei miei spazi e collaboratore di MAT2020, un amico oltre che musicista e saggista. Parlo del genovese Antonio Pellegrini che sintetizza così la sua storia:
Musicista, scrivo canzoni, saggi musicali e spettacoli teatrali. Ho pubblicato i volumi “The Who e Roger Daltrey in Italia” (2016) e “Italian Rhapsody. L'avventura dei Queen in Italia” (2019). Da 10 anni pubblico articoli di critica musicale sul mio blog www.antoniopellegrini.blog e collaboro con web magazine e riviste.
La prima cosa che salta agli occhi e
che evidenzio in ogni occasione è quella che Pellegrini si è innamorato di
musica che non gli appartiene temporalmente parlando, il che mi porta a due
considerazioni: la prima è che esistono nicchie/generi che hanno guadagnato
l’immortalità sfidando le barriere generazionali e la seconda è che Antonio è
un giovane curioso, che non si è lasciato intimidire dai dictat imposti dal
maistream ma è arrivato a formulare giudizi dopo attenti ascolti e cernite
oculate. E poi esiste l’istinto, quella reazione a volte scomposta, di pancia,
che porta ad innamorarsi di una canzone senza riuscirne a capire il motivo,
salvo poi che riascoltandola a distanza di tempo le sollecitazioni della
memoria porteranno scombussolamenti che sfoceranno in una miriade di
sentimenti.
C’è rock e rock; difficile spiegare
perché, parlando di band coeve, esistessero un tempo battaglie adolescenziali
per sottolineare come i Led Zeppelin fossero più bravi dei Deep Purple, o
viceversa.
Gli Who, a mio giudizio, sono un’altra cosa, e anche se il mio pensiero non è richiesto - seppur conosciuto da chi mi ha frequentato - mi fa molto piacere parlarne sotto forma di commento ad un nuovo lavoro dell’autore, ancora dedicato alla band londinese.
Il suo primo impegno era incentrato
sui concerti italiani, non molti a dire il vero, e il titolo era, come già
sottolineato, “The Who e Roger Daltrey in Italia”.
La nuova ricerca, uscita il 2 settembre per Arcana Edizioni si intitola "The Who. Long Live Rock", ovvero la biografia dei The Who con la prefazione curata dal giornalista Antonio Bacciocchi, un allargamento dell’analisi del 2017 con l’integrazione di contributi interessanti, come le molteplici testimonianze dei fan italiani (tra cui i VIP Carlo Verdone e Carlo Basile) e alcuni contenuti esclusivi: una chiacchierata con l’ex Who Kenney Jones, il pensiero del bassista dei Kinks John Dalton, l’intervista a Simon Townshend (fratello di Pete) e il ricordo di Peter Twinn, ormai “italiano”, ma presente il giorno in cui Pete Townshend distrusse la sua prima chitarra.
La lettura del tomo biografico di
Pete Townshend, uscito qualche anno fa, è probabilmente quella che garantisce
di entrare maggiormente nell’intimo della band, seppure incida la ovvia visione
soggettiva, ma la sintesi realizzata da Pellegrini ha il pregio di una certa
schematizzazione cronologica interrotta, o meglio inframmezzata, dai vari
contributi e dalla discografia essenziale, con le parole dei protagonisti che
si miscelano a quelle dei fan.
Una sorta di bignami molto ricco ed
esaustivo, un lavoro complicato se si pensa che sono trascorsi 60 anni,
intensi, dolorosi, emozionanti, per Pete e colleghi, of course, ma anche per
tutti quelli che hanno seguito le loro vicende realizzando nel tempo che quelle
canzoni erano diventate la colonna sonora della vita e al contempo la misura
dello scorrere del tempo.
Ho raccontato anche alle pietre che
quando ascoltai per la prima volta “Substitute” portavo i pantaloni
corti e ancora oggi la musica degli Who mi pare fresca e godibile, il vero rock
che ho sempre desiderato.
Antonio Pellegrini ci sintetizza tutto
questo, con i suoi occhi un po' più “giovani” e probabilmente con il giusto
distacco, quella misura che serve a chi vuole condividere non solo le proprie
passioni, ma delineare al contempo eventi storici e intrecci non sempre facili
da comprendere e assimilare.
Non vorrei andare oltre perché il mio
compito in questo ambito è solo quello di stimolare la curiosità, senza
spoilerare… la fine del giallo…
Ci tengo però a utilizzare le parole di Pete Townshend usate dall’autore a conclusione del volume:
“Non siamo rimasti insieme per i soldi. Quello che ci legava era l’incredibile euforia che provavamo ad ogni concerto, l’eccitazione del contatto con il pubblico… l’energia dei concerti dal vivo e del successo ci dava molto di più che non i soldi che guadagnavamo”.
Così disse l’uomo che ha vissuto
dieci vite in una, il simbolo del rock, un uomo che aveva in testa il
collegamento totale virtuale quarant’anni prima che venisse realizzato.
Antonio Pellegrini coglie tutto
questo e lo sintetizza per noi.
Non lasciatevi sfuggire l’occasione, gli
Who non moriranno mai e "The Who. Long Live Rock" ci ricorda -
e ci ricorderà - che il rock, quello che esprime disagio e gioia e che ci
accompagna nel quotidiano, è qualcosa di estremamente serio, maledettamente
serio!
Molto belle le fotografie in bianco e nero che riportano all’essenza dell’epoca e quindi… non resta che iniziare la lettura!