L’album di cui mi occupo oggi è Anima
Mundi, di Federico Milanesi.
Come spesso accade nei miei commenti esiste una parte dedicata al
pensiero dell’artista e credo che nella lunga intervista che segue Milanesi
riesca a fornire un profilo personale che lascia poco spazio all’immaginazione,
e l’ascolto dell’album è la perfetta chiusura del cerchio.
Parlare di fermature e di punti di arrivo è però in contrasto col
messaggio del concept, che affronta un lungo viaggio interiore il cui termine è
solo apparente, giacchè la fine di un percorso coincide quasi sempre con l’inizio
di una nuova fase, spesso indipendente dalla volontà di chi agisce.
Mentre rileggevo i pensieri dell’autore, ascoltando le tracce in
sequenza, nasceva spontanea la riflessione su come un album del genere abbia
bisogno di vita vissuta, di esperienza, di sofferenza, di misticità applicata
alla realtà… il talento sarà poi quello che permetterà un passaggio chiaro del
messaggio.
La scelta di comunicare in lingua inglese ha il suo perché -ed è
questo oggetto di precisa domanda- ma credo che l’anima del racconto possa
emergere in modo universale, commuovendo e provocando scossoni interni, passo
dopo passo.
Un viaggio, lungo un giorno o una vita; un personaggio senza nome,
perché tutti quanti siamo i potenziali protagonisti di Anima Mundi; una sequenza di immagini che cambiano con buona
rapidità, tanto da donare un movie che i più navigati e abituati al mare aperto
sapranno riconoscere all’istante, forse con speranza, sicuramente con un briciolo
di rammarico; per tutti gli altri, che si trovano all’inizio del sentiero, l’augurio
è che la metafora si trasformi in didattica, in esempio da seguire.
Sedici tracce, quasi settanta minuti di musica per dare un
obiettivo e un volto -direi comune- al protagonista, che da sano pensatore si
interroga cercando il significato delle cose, di ciò che è giusto, la verità, la
bellezza, la giustizia, il valore dello spirito in comparazione con la materia.
E alla fine qualche certezza arriverà.
La dimensione musicale di Milanesi riconduce ad un certo
intimismo, e il suo modo espressivo, quasi sottovoce, misurato, caldo, pacato, lo
trasforma in un crooner dei nostri giorni, un performer che arriva all’obiettivo
senza imporre la forza fisica, ma usando l’arma della sensibilità applicata all’azione,
e tutto questo passa con forza prorompente e arriva al segno.
Ciò che ho provato a descrivere è molto più che fare musica… è il
regalo di un pezzo di sé, consistente e motivato, e di questo non possiamo che
ringraziare Federico Milanesi, in attesa di un suo nuovo racconto.
L’INTERVISTA
Potresti
sintetizzare la storia di Federico Milanesi per gli appassionati di musica che
ancora non ti conoscono?
Forse
un incontro personale lascia più spazio a domande come questa, le cui risposte
rischiano sempre di essere in pericoloso equilibrio tra il didascalico e
l’apologetico, mentre il guardarsi negli occhi spesso lascia molto più spazio a
una comunicazione non verbale, fatta di sfumature difficili da rendere in
contesti quali questo. Spero di non cadere in uno dei due estremi…!
Bene,
innanzitutto la mia anomala storia di musicista parte ancora dalla prima
infanzia, quando la mia spiccata passione per la musica si esprimeva in
interminabili ascolti dei dischi di musica classica dei miei genitori. La
rivoluzione avvenne con il regalo, durante un indimenticabile Natale, di un
armonium elettronico Farfisa. Quindi il pianoforte, gli studi classici: tutto
di rito. Quello che si discostava però dalla norma era il fatto che io
preferissi – fin da subito – dedicarmi alla creazione di musica. Intendiamoci,
ho amato e amo immensamente Bach, Mozart, Wagner… Il piacere che vivevo anche
solo nello studio di una sonata di Beethoven è qualcosa che mi portava “altrove”.
Eppure, in quell’altrove potevo anche attingere per creare nuove forme.
A
diciassette anni, la prima band, con brani miei, poi il lavoro con una tribute
band dei Pink Floyd, come cantante e tastierista. Ad un nostro un concerto
vedemmo che un gruppo di gente se ne andava. Ci domandavamo che cosa fosse
successo, non avevamo poi suonato tanto male… Uno dei nostri fan più
affezionati raggiunse il gruppo di persone che stavano andando via,
domandandogli come mai si allontanassero. Con stupore, scoprimmo che la “fuga”
non era dovuta a una qualche nostra pecca. “Se
voglio ascoltare il disco così come è,
lo metto su a casa, non ho bisogno di venire al concerto!”, gli
risposero. Ammetto che fu un episodio
piacevole, oltre che simpatico.
Quella
parentesi si chiuse, come molte altre peraltro, e da lì in poi di me non si è
praticamente più sentito parlare (non che se ne fosse mai parlato tanto in
realtà!!!).
Sì, è
vero, sono stato più tempo chiuso nella mia stanza a comporre che a propormi
come musicista. Poi ci furono gli anni della mia ricerca. Parlo di ricerca
interiore, che ha coinciso con la ricerca musicale. Anni in cui – nel gruppo
Halia (sconosciuto ai più) – abbiamo
esplorato gli effetti del suono sull’emotivo e sulla mente, abbiamo studiato i
modi in cui la musica può favorire stati di apertura interiore e contatto con
la parte più profonda e autentica di sé. Intendiamoci, niente a che fare con
l’approccio superficiale che credo abbia caratterizzato il movimento New Age:
furono anni di ricerca seria, in cui l’oggetto di osservazione erano le
sensazioni generate in noi stessi e in terze persone in seguito all’utilizzo di
un determinato suono, lo studio dell’innumerevole gamma di sfumature prodotte
nello stato interiore di chi ascolta attraverso l’utilizzo del suono. Un lavoro
intenso, che è proseguito per anni e ancora sarebbe potuto proseguire. Le
tracce di quanto è stato fatto rimangono solamente in alcuni cd del gruppo
Halia pubblicati negli anni Novanta e nei primi anni Duemila dall’Adea
Edizioni.
Il
mio approccio alla composizione non parte necessariamente dal “brano cantato” -
anche se non conto più quanti brani cantati ho scritto - ma comprende anche
molta musica puramente strumentale. Quanta libertà si vive nella musica
strumentale! In più, essendo la musica un linguaggio emotivo, è ancora più
universale, perché intesa da chiunque. La ritengo un vero linguaggio oggettivo.
Quindi, proseguendo il racconto, mi è stato chiesto di scrivere, e suonare
ovviamente, la colonna sonora del film di Beppe Arena “Perché il fuoco non muore – La vita agra di Tina Modotti”.
Pensa
che la produzione aveva fretta di presentare il film a Venezia, e così mi ha
dato un tempo tecnico per fare la colonna sonora di una settimana! Per di più,
non potevo lavorarci tutto il giorno, perché avevo degli impegni lavorativi che
non potevo sospendere… Se ci penso! Ebbene, tutta questa fase di studio è
proseguita senza sosta fino ad oggi e proseguirà ancora, sempre, o almeno
spero! Quello che in realtà mi ha tenuto fuori dalle scene era un parallelo
percorso di formazione interiore, un cammino di ricerca, che ha assorbito tutto
il mio tempo e il mio desiderio. Semplicemente, potevo benissimo fare l’artista
professionista ma… sentivo che dovevo dedicarmi alla ricerca di qualcosa di più
elevato che desse un senso più alto alla mia vita piuttosto che ad una
affermazione personale. Ora molte condizioni sono cambiate e, comunque, mi
propongo agli estimatori e non certo al mainstream, anche per raggiunti limiti
di età!!!
Ora,
a 49 anni, mi sento più pronto a entrare in gioco in prima persona, un po’ per
amore, un po’ per forza… Questa crisi ha colpito duro.
La
tua formazione classica non ti ha impedito di avvicinarti ad un certo rock,
seppure di impegno: riesci a delimitare delle zone di
genere o pensi che non esistano paletti, se non quelli tra la qualità e la
pochezza musicale?
Grazie
per la domanda. Anche qui, una risposta seria richiederebbe davvero molto
tempo.
Non
si può dividere qualcosa che è unito… No Athos, per me i generi non sono “confini”.
Io
trovo che la tendenza della mente umana a separare tutto sia un grave problema
del nostro pianeta. Se una risposta c’è, è nell’unità di tutto quello che ci
circonda.
Vedi
ad esempio la medicina allopatica, la nostra “classica” medicina ufficiale. Per
inciso, è la forma di medicina più giovane tra tutte le esistenti, ed ha la
presunzione di essere la migliore, tipicamente ignorando, quando anche non
demonizzando, migliaia di anni di esperienza scientifica compiuta nella storia
umana da altre modalità di cura. Non voglio
però divagare… A cosa approda la “nostra” medicina? Viziata, appunto,
dall’idiosincrasia della “separazione”, divide il corpo umano in aree. E così
ecco il ginecologo, il neurologo,
l’otorinolaringoiatra, il nefrologo… Non otterremo nulla dalla divisione.
La risposta è l’unità. Nell’unità, ovviamente, permangono delle sacrosante
diversità. E così, tornando alla musica, certamente si diversifica, ma senza
“barriere” di generi…!
Devo
dire purtroppo che una certa visione della musica in compartimenti è vissuta
anche da un certo tipo di musicisti, convinti di dedicarsi al genere
“migliore”. Io lo trovo molto infantile, un po’ come quando da bambini si
faceva la gara a chi è più forte. Dobbiamo ancora crescere molto: tutti quanti
noi, compresi gli artisti, che pure sono i portavoce di una parte dell’umanità
dotata di intensa sensibilità. La vera differenza, tornando al discorso dei
generi musicali, semmai, la fa la passione. Quell’amore per quello che fai,
quel rapimento, quel fuoco interno che ti porta a continuare nonostante tutto,
a cercare nuove soluzioni, a esplorare sempre più il tuo strumento, ad
esprimere sempre più con la tua voce, all’ascolto completo e totale
nell’immersione più completa, all’apprezzare e, anzi, amare il lavoro di altri
più bravi di noi. Questo fa parte dell’arte musicale. Pop, Progressive, Jazz,
Lirica, Classica, Contemporanea, Concreta, Minimalista, Romantica, Antica,
Barocca, Punk, Metal, Rock, Funky, Soul, Blues… E’ tutta arte se fatta con
passione. Io sono felice di ascoltare e anche di suonare o comporre in
qualsiasi modalità o genere. La musica fatta senza passione non è detto che sia
brutta musica, solo manca di cuore. In questo caso non possiamo parlare di
arte, anche se in qualche occasione può esprimere una certa bellezza.
Trovi
maggior soddisfazione nella composizione, nel canto o nel suonare uno
strumento?
Difficile
rispondere, penso alla composizione perché è un momento che, per come lo vivo,
si avvicina alla meditazione.
Esiste
un artista o una band che ti hanno segnato profondamente, indirizzando per
sempre la tua strada?
Ho
ascoltato di tutto. A suo tempo ho vissuto un momento bellissimo ai primi
ascolti dei Beatles. Mi sembrava di scoprire un mondo. Improvvisamente, mi
trovai nel mondo moderno! Prima di allora (parliamo dei miei 14 anni) ascoltavo
infatti solo musica classica. Poi non posso non citare i primi Genesis, la mia
seconda folgorazione dei 14 anni. Non smettevo di ascoltarli! Ma è ingiusto
racchiudere qui la rosa degli ascolti determinanti… David Sylvian, Caroline
Lavelle, Mike Oldfield, King Crimson, Cori bulgari, Pink Floyd, Djivan
Garparyan, Gurdjieff/De Hartmann, Anne Dudley, Big Big Train, Elbow, Brian Eno,
Goran Bregovic, Craig Armstrong, Imogen Heap, Ryuichi Sakamoto, Hans Zimmer,
Elliot Smith, Oren Lavie, PFM, Banco del Mutuo Soccorso, Le Orme, ovviamente
Peter Gabriel… Sono i primi che mi vengono in mente, ma sono tantissimi.
La
musica è spesso istinto, impatto inaspettato, materia: quanto incide nelle tue
creazioni l’aspetto spirituale?
In “Mother Form”, brano di Anima Mundi, il protagonista si chiede
quali segreti nasconda la forma, la materia che è nostra Madre, e si interroga
sui misteri contenuti nel tempo e nello spazio. Di certo non credo allo spirito
“prigioniero” nella materia, ma penso sicuramente che la musica possa fare da
ponte tra queste realtà apparentemente separate. Spirito e Materia sono
un’unica cosa, la musica può a volte addirittura svelarlo: è il caso dei brani
sublimi che generano in tutti emozioni profonde. Questo per dirti che ogni
volta che scrivo, non posso che rappresentare un poco il mio percorso, che è
stato profondamente segnato dalla ricerca spirituale.
Nel
2013 è stato rilasciato il tuo album di debutto, Anima Mundi: potresti
descrivermi il contenuto? Trattasi di concept?
E’ un
concept album. E’ l’ideale storia di un protagonista che sente dentro sé la
reminiscenza di “qualcosa” che non trova riscontro nella sua vita. Una
rimembranza di una realtà più ampia, un istante di bellezza in una vita densa
di contraddizioni, di paure e di domande irrisolte. E’ il primo brano “Do you remember?”. Da qui inizia il
cammino verso la ricerca e la realizzazione di quel misterioso riflesso di
Luce, quella reminiscenza che dà il via ad un processo di cambiamento profondo
attraverso un lungo percorso interiore, fissato da alcune “tappe” importanti. I
brani seguono questo ideale filo rosso, cercando di descrivere, o meglio
tratteggiare quei momenti di passaggio. Così una triste riflessione sulla
condizione umana (“Clouds”) a cui fa
posto una più viscerale tensione verso “qualcosa” ancora di indistinto, ma che
si agita potentemente in lui (“Burning
Soul”). La coscienza della non libertà e il desiderio di essere liberati
dalle proprie catene, invocando l’aiuto di un “vero amico” (“Chains”) … e quindi gli aspetti della
ricerca, non separata dalla vita sociale, ma anzi partecipe e sofferente dei
problemi dell’umanità (“Everyone is a
stranger”), il riconoscere che in
realtà non si conosce nulla di se stessi
(“Me Unknown”), e quindi la
preghiera, il momento di rottura con tutto il mondo della cosiddetta illusione
(“The abysses of all”), finalmente la
risposta al desiderio di verità del nostro protagonista, nei brani successivi,
e alla fine la rinascita… Protagonista che rimane senza nome: sono io, è Athos,
è ognuno di noi, in tempi diversi e con modalità per ciascuno diverse. Ma il
cammino è uno per tutti.
La
scelta di cantare in lingua inglese ha a che fare con la maggiore musicalità di
quell’idioma, con l’esigenza di una maggior internazionalità o cos’altro?
Mi
piace pensare a questo lavoro come il tentativo di dire qualcosa a più persone
possibili. Questo attualmente solo la lingua inglese lo può assicurare.
Come
definiresti, a parole, la tua musica?
Aiuto!
E come faccio a risponderti? Ognuno è il peggior giudice di se stesso! Ne ho
poi scritta così tanta e così diversa… Posso arrendermi?
Quanto
ami l’uso della tecnologia e della sperimentazione in fase di creazione?
Amo
profondamente la tecnologia, e sono sempre un affascinato esploratore di tutte
le innovazioni meravigliose che provengono dalla mente geniale dell’uomo.
In
fase di creazione, senza la tecnologia non potrei fare nulla: se consideri che
per il 99% la mia musica nasce nel mio studio… Adoro la ricerca tecnologica
applicata al suono e la follia di alcuni fantastici ricercatori che vanno a
trovare uno strumento in capo al mondo per consentire a noi di suonarlo a casa
nostra… E’ bellissimo, non sarò mai loro troppo grato.
Cosa
hai pianificato per il tuo futuro prossimo musicale?
Sono
alla fine di un lavoro che porterà il titolo “New Knighs”. E’ quasi una ideale prosecuzione del precedente CD.
Anima Mundi si conclude con il protagonista che realizza che,
anche se ha toccato qualcosa di elevato, il suo viaggio è solo all’inizio… “New Knights”, come il titolo suggerisce,
è ancora un “concept” imperniato – anche se in modo non sempre così intuitivo –
sulla necessità estrema in questo nostro mondo dell’intervento di “nuovi
cavalieri”. Di persone animate dai principi universali di amore, giustizia,
servizio all’umanità, difesa dei più deboli, bellezza e verità che a suo tempo
animarono la cavalleria, per portarli a questa umanità sempre più propensa a
egoismi individuali, nazionali o religiosi. Sono gli ideali che hanno condotto
i padri costituenti al momento della Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati
Uniti, e gli stessi ideali che informarono le fondamenta filosofiche più
profonde alla base (neanche troppo conosciute) del primo romanticismo. Non è
una revisione del mito dell’eroe così come ci è stato propinato in momenti bui
della storia né la nostalgia per qualche forma di autoritarismo “illuminato”,
intendiamoci: è, come “Anima Mundi”,
un messaggio in una bottiglia lanciato in mezzo a un oceano di bellezza e orrori,
ingiustizie e nobiltà, speranze e chiusure, rivolto alle tante persone
sensibili, dai nobili princìpi, che assistono alla devastazione prodotta
dall’ignoranza, dall’identificazione in falsi ideali, dalla paura e
dall’egoismo.
Sono
tempi bui: c’è bisogno di Luce a questo mondo.