Dopo un lungo periodo, otto anni,
Stefano Barotti
si ripresenta sul mercato discografico: sarà lui stesso, nel corso dell’interessante
intervista a seguire, a spiegarci il perché del vuoto temporale significativo.
L’album di fresca uscita si
intitola Pensieri Verticali, e anche su
questo concetto Barotti ci illuminerà.
Ho afferrato la sua musica con
netto ritardo, nell’occasione del precedente Gli Ospiti, e trovo che
sia difficile restare indifferenti alla sua proposta.
Non amo incondizionatamente il
mondo etichettato come cantautorale, soprattutto quello antico, per effetto di
un’eccessiva autoreferenzialità che sa di snob da parte di crede di proporre una
musica più nobile di altre, toccata dall’impalpabile sfera dell’intellettualità.
Stefano Barotti mi suscita
sentimenti positivi, e nel leggere le parole che accompagnano il nuovo disco -non
solo le liriche, ma anche i commenti dell’autore- mi è capitato di
immedesimarmi, di rubare suoi concetti che mi chiariscono ciò che a volte non
si riesce a spiegare, anche se è qualcosa che si ha dentro; e così, quando
afferma: “A volte non basta voltare
pagina, ma bisogna bruciare il libro”, introducendo il suo brano Nerone, una luce si accende e mi
chiarisce un punto nascosto tra i meandri della mente: in undici parole -la
sintesi perfetta- una grossa verità. E questo significa captare la lunghezza d'onda dell'artista.
Il contenitore che Stefano
propone è ricco, ma la musica in senso lato, contrariamente a quanto qualcuno
voglia farci credere, non ha niente di razionale, e se anche esistesse il testo
perfetto, il ritmo fantastico e la sonorità ideale, tutto questo potrebbe anche
lasciarci indifferenti, facendoci preferire magari... una canzone in russo, di cui
normalmente non possiamo apprezzare il significato. Questo accadeva un tempo -ma
anche oggi- con la nostra cara musica anglofona. Tutto ciò per dire che, la
perfezione ricercata dall’autore, potrebbe non condurre allo stesso risultato se non esistesse una particolarità vocale che colpisce e non ti lascia più. Il
mondo è pieno di belle voci, potenti e dalla grande estensione, ma la
caratterizzazione è atra cosa, e la timbrica di Barotti è unica.
Detto questo, sottolineatura doverosa,
arriviamo all’album.
Dodici brani, molto vari,
realizzati con il contributo significativo di musicisti straordinari -cito Paolo Bonfanti, Max De Bernardi, Kreg
Viesselman e Jono Manson- che
risultano decisivi per la colorazione di ciò che appare minimalista rispetto al
passato, situazione che è frutto dell’incontro e della successiva sintonia tra
Barotti e il produttore Raffaele Abbate; l'immagine che ne consegue è quella di un artista più “nudo” e quindi più vero rispetto alle
possibili protezioni che tecnologia e ridondanza musicale possono fornire.
La verticalità di cui si parla è la
spinta all’azione, alla ricerca di qualcosa che forse non è ben definito nei
contorni, ma che è idealmente stimolante, e alla fine, almeno la coscienza,
risulterà a posto. In un momento sociale in cui si è spesso spinti verso l’accidiosità,
la poesia e l’esortazione al movimento di Stefano Barotti diventano una linea guida da
seguire, e il messaggio del cantautore -ritorno al concetto iniziale- diventa
in questo caso prezioso, essendo traduzione della quotidianità attraverso la
normalità espressiva.
Storie di tutti i giorni,
proposte come ballad -con gli amori mai sopiti... il reggae, Nick Drake, Lennon,
Dylan-, vissute e mostrate in prima persona, con in evidenza lo strumento
principale, la chitarra, magari usata con accordature aperte.
Ho apprezzato molto il concetto di
“amore per ogni stagione”, simboleggiato da quattro brani -Povero è l’amore, Rose d’ottobre,
Ogni cento parole e Girasole- che disegnano in modo
originale e appassionato ciò che tutti noi viviamo, anche se il saperlo esprimere
non è da tutti. Amori concreti, delusi, riusciti, carnali, spirituali…
unilaterali, momenti unici che rappresentano ciò che più si avvicina al
concetto di felicità e al suo opposto, e Barotti ha la capacità di farli
sentire nostri, anche solo dopo il primo ascolto.
Il massimo del mio gradimento per
“Pensieri
Verticali”, vivamente consigliato.
L’INTERVISTA
L’album con cui mi sono avvicinato alla tua musica,
”Gli Ospiti”, risale al 2007: che significato si può dare al grande gap
temporale che porta al nuovo disco, “Pensieri
Verticali”?
Avevo deciso di cambiare rotta, prendermi tempo e
registrare il nuovo disco vicino casa. Ho scelto Leivi, Raffaele Abbate e la
Orange Homerecords dopo diverse pre produzioni, facendo un pò di esperimenti.
So che otto anni sono tanti tra un disco e l’altro, ma è un tempo che mi è
stato necessario per capire al meglio i tasselli da mettere insieme. Musicisti,
produzione, canzoni. Fare un disco col solito vestito non aveva senso. Non che
avessi bisogno di stupire con effetti speciali, ma volevo che il disco fosse
uno specchio fedele di quello che sono e voglio suonare e raccontare in questo
momento della mia vita.
Come sintetizzeresti la tua storia musicale?
Ho cominciato a scrivere canzoni a 17 anni e adesso ne
ho 42. La musica mi è stata sempre accanto, e ancora mi innamoro dei momenti in
cui sento una canzone nuova arrivare. Ho iniziato da Bob Marley, credo che
ascoltare lui mi abbia fatto innamorare della musica e avvicinato alla
chitarra. Oggi sono lo stesso “compositore di canzoni” di molti anni fa, con lo
stesso bisogno di comunicare e la stessa voglia di raccontare delle storie, ma
con un bagaglio molto più grande che mi permette di essere sicuro di me su
alcune cose, e potermi mettere in discussione su altre lavorando con altre
teste. Diciamo che un tempo c’era Stefano Barotti e a seguire le canzoni, oggi
siamo definitivamente insieme e non siamo più gelosi l’uno dell’altra.
Anche il ruolo di cantautore conduce a stereotipi e
luoghi comuni: in cosa ti senti differente rispetto allo standard?
In molti trovano limitante essere definiti cantautori.
A me non crea grossi problemi. Il punto credo sia come ci si sente. A volte
sono un cantautore, altre volte un musicista, chitarrista, altre ancora un
cantante o un arrangiatore. Dipende di cosa ha più bisogno una canzone. Forse
per questo mi sento differente. La vecchia scuola mi ha insegnato molto, ma per
diversi motivi ormai la sento distante. Non credo nella “sacralità” dei versi
dei cantautori, compresi i miei.
Esiste qualche figura, o qualche accadimento, che
consideri come importante svolta professionale?
Ce ne sono molti, tantissimi. A partire dalle mie
esperienze americane con Jono Manson per i miei primi due dischi. Ma un’altro
ricordo forte che ho e che ha cambiato la mia intenzione artistica è stato
l’incontro con Ennio Melis, storico direttore artistico della RCA nell’ormai
lontano 2000. Quando gli portavo le mie canzoni avevo l’impressione che la
grande nave della musica d’autore fosse in pieno viaggio. Persone come lui
erano fondamentali per chi aveva qualcosa da scrivere e cantare. E non parlo di
possibilità di carriera e successo. Parlo di intenzione artistica e attenzione per
il singolo. L’incontro con lui ha cambiato il mio approccio alle canzoni.
Personalmente credo che la tipicità della tua voce sia
elemento caratterizzante, un marchio di fabbrica in mezzo a tanti… “cloni che
clonano”: ti senti più vocalist, strumentista, compositore… o è impossibile
scindere le cose?
Come dicevo prima mi sento tutte le cose che citi. Ho
sempre avuto la fortuna di essere curioso. Questo mi ha portato a crescere e mi
ha insegnato a muovermi a polipo nelle mie canzoni. Molti anni fa i testi erano
la cosa primaria. Col tempo una bella frase, una bella rima non mi bastavano
più. E così ho cominciato a sperimentare esponendo le mie canzoni a qualsiasi
cosa potesse darmi “novità”. Nuovi stimoli sono arrivati dalle accordature
aperte per esempio. Suonare altri strumenti a corda come Banjo o chitarre
portoghesi. Ho approfondito il finger picking stregato da Nick Drake. Riguardo
il cantare sono cambiate molte cose. Ma sono all’antica. Cantare di “pancia”
credo sia l’unico modo per arrivare alla gente. Il fatto che la mia voce oggi
sia più interessante e a fuoco è dettato in gran parte dai miei 40 anni
suonati.
Sefano… che cos’è un pensiero verticale?
Il pensiero verticale è il pensiero non seduto. Il
pensiero dettato dalla sana curiosità, dalla voglia di bellezza. L’intenzione
di spingersi un po’ più in alto in un periodo storico dove invece è tutto
piatto e tende all’orizzontale.
Nell’album racconti le tue storie, che risultano
accompagnate da una particolare ricerca musicale, dove il blues e il rock
convivono con la pacatezza cantautorale: è il tuo DNA che ti ha portato a
collaborare con Jono Manson e Paolo Bonfanti, tanto per citarne un paio?
Due grandi musicisti/artisti. Ho imparato molto
dall’esperienza con Jono, e avere Paolo nelle mie canzoni è sempre un piacere.
Il blues e il rock li vivo più come intenzione che come sonorità, collaborare
con loro chiude un po’ il cerchio. Mi danno “il suono”, quello che serve alla
mia vena.
Mi ha colpito l’accoppiamento che hai realizzato tra
storie d’amore e stagioni: quanto può influenzare l’atmosfera, piuttosto che il
fatto oggettivo, nella creazione di una canzone?
Credo sia fondamentale. L’atmosfera è tutto. Il fatto
oggettivo a volte addirittura non accade, ma quel che si respira, si intuisce, quello
che gli occhi scoprono prima che accada e soprattutto la fantasia, il sogno,
fanno accadere tutto e di più dentro i versi.
Cosa accade nei tuoi spettacoli live?
Sto promuovendo il disco con i miei due amici
Vladimiro Carboni/batteria e Luca Silvestri/basso. I concerti stanno andando
molto bene. Sul palco c’è sempre una buona sensazione. E con loro ho raggiunto
una bella “pasta” di suono. Non c’è quasi mai nulla di stabilito, a parte un minimo di scaletta. A volte mi piace raccontare
aneddoti tra un brano e l’altro, ma è tutto molto spontaneo, non preparo nulla.
Molto dipende dal pubblico. Se si lascia corteggiare o meno. Suono e canto su
un palco da anni, per un bisogno estremo di comunicazione e “scambio”
emozionale con le persone. Questo è quello che cerco di fare al meglio ogni
volta cantando le mie canzoni.
Cosa dobbiamo aspettarci dal prossimo Stefano Barotti?
Ci sono molte cose in cantiere. Collaborazioni,
registrazioni, live. Ho ripreso a scrivere canzoni nuove. La priorità è non far
passare altri otto anni. Ma adesso mi godo “pensieri verticali”.
Track List
L’uomo
armadillo
Blues del
cuoco
La Ragazza
Vorrei
essere
Povero è
l’amore
Giudizio non
ho
Rose di
ottobre
A cena con
Drake
Nerone
Ogni cento
parole
L’arcobaleno
rubato
Cuore
danzante / Sulla pietra del pane sfidando il drago con la spada di San Giorgio
Girasole