Quando
inciampo, più o meno casualmente, in una Musica che mi colpisce particolarmente,
il mio primo pensiero è condividerla con chi credo la saprà apprezzare. Evito
di cercare di comparare il mo giudizio con quelli già presenti in rete, per non
essere influenzato. In questo caso, mentre entravo in contatto con Fabio Serra,
titolare del progetto Røsenkreütz, ho avvertito una certa
… “eccitazione da scoperta” trapelare dalle parole di un giornalista e
musicista di cui ho piena stima, ed è stato piacevole trovare conferma alle
parole di Alberto Sgarlato dopo un solo ascolto dell’album “Back To
The Stars”.
Il
disco è l’evidente prova che c’è ancora molto da dire - e dare - in una fascia musicale,
quella del prog, che è
stata accantonata con grande rapidità, ma che è in continuo fermento, anche se
relegata in una zona d’ombra.
Dice
Fabio: “… questo mio progetto prog rock finalmente vede la luce dopo anni
di sofferenze; Røsenkreütz è nato come mia idea solista, poi diventata una band
vera, e dopo lungo lavoro siamo recentemente usciti su Andromeda Relix/Opal
Arts. Ho puntato ad un sound forse un pò atipico per il prog italiano, e ho
scelto di cantare in inglese per una questione puramente sonora (son cresciuto
con quel sound in testa e fatico a distaccarmene…”).
Impressionante
pensare agli anni di lavoro impiegati per arrivare ad una soddisfacente
conclusione, utilizzando momenti liberi e nottate per chiudere un cerchio che
stentava a trovare la fermatura.
L’intervista
a seguire risulterà esaustiva per comprendere a fondo cosa c’è dietro a questa
perla musicale, perché Fabio Serra riesce a fornire un’efficace immagine della
band, delle linee guida e dei significati racchiusi nell’album.
Cinquantacinque
minuti di suoni suddivisi su sette tracce sono il riassunto di un credo
musicale che ha del sorprendente, in cui emerge l’assorbimento degli
insegnamenti del passato - ovviamente - ma dove interviene un tocco personale
che rinnova ciò che i detrattori del genere chiamano “antico”. Gli “esperti”
affermano che nulla di nuovo si può inventare con un numero di note che è
sempre quello, ma se provassimo ad applicare alla musica il principio della
conservazione dell’energia (e la Musica non è pura energia?) - nulla si crea e nulla si distrugge, ma tutto
si trasforma - troveremmo all’interno di questo album una base conosciuta -
fatta di genio anni ’70 - a cui viene applicata l’unicità che è tipica di ogni
singola anima (sensibile): è questo il senso della “trasformazione”, mettere le
caratteristiche personali, uniche e incomparabili, a disposizione di una musica
accessibile a tutti, ma “manipolabile” con pieno successo da pochi … capaci e
virtuosi.
In Back To The Stars ho trovato tutto ciò
che amo del prog, quella miscela fatta di trame cangianti, di “perlustrazione
di vari mondi”, di tecnica, di melodia e di ritmo… non sempre regolare.
Una
spruzzata di Genesis, qualche goccia di Gentle Giant, una spremuta di YES e un
tocco di Kansas servono solo a ricordare chi ha avuto il merito di aprire
strade un tempo sconosciute, lasciando tracce incancellabili, ma il tutto è
riproporzionato al disegno illuminato di una fantastica squadra al lavoro, con
un direttore d’orchestra che mi ha fatto esclamare: “… ma dove si era nascosto per tutto questo tempo?”.
Non un
concept, ma tante storie che alla fine trovano un punto di arrivo di livello
assoluto, la title track, traccia di oltre diciassette minuti, che racchiude
tutte le meraviglie dell’universo Røsenkreütz.
Se è vero che ogni brano rappresenta una storia
ideata da Fabio Serra, esiste l’eccezione, il tributo al passato che è
rappresentato dalla beatlesiana “I’m the walrus”, proposta in una veste
inusuale e adatta al format ideato.
Non conosco le motivazioni della scelta, forse solo
amore per le origini del beat, ma mi piace immaginare la voglia di
interpolazione tra la massima espressione del genio di Lennon e la verve
innovativa di questo ensemble veronese dal carattere sorprendente.
Non ho purtroppo elementi per giudicare l’art work
che, sono certo, sarà adeguato alla musica.
Ed ora
la speranza è che il tempo lasciato alle spalle possa essere recuperato in
fretta, colmando le lacune, discografiche e live, che aspettano solo di essere
riempite.
Il
popolo della Musica, sempre affamato di novità, saprà premiare la qualità di Røsenkreütz.
L’INTERVISTA
Puoi
provare a sintetizzare il progetto
Røsenkreütz?
Sintetizzare? Non è semplicissimo, diciamo che è stato un mio bisogno di tornare alle origini
della musica che ho sempre amato fin da ragazzino, che ho suonato, e che per
esigenze di lavoro ho dovuto mettere da parte per molto, troppo tempo. Al tempo
stesso ho cercato di infondere nel progetto un po’ tutta quella che è stata la
mia esperienza musicale (e non) di questi anni passati in studio a produrre
musica di e per altri.
A cosa è
dovuto il lungo spazio temporale intercorso tra la nascita dell'idea e la
realizzazione dell'album “Back To The Stars”?
Principalmente
al fatto che l’ho dovuto realizzare nei ritagli di tempo, sacrificando
famiglia, sonno e quant’altro… Inizialmente lavoravo nella classica “stanza in
più” dell’appartamento dove abitavo, e di conseguenza le prime registrazioni di
batteria e basso son state fatte in remoto; poi a distanza di tempo, man mano
che gli amici che si sono prestati entravano nel mondo sonoro, ci siamo accorti
che certi takes non erano convincenti fino in fondo e loro stessi hanno voluto
rifarli. C’è stato poi di mezzo un trasloco “importante” grazie al quale ho
potuto realizzare un mio vero studio privato nel quale poi ho potuto completare
il lavoro nel modo migliore. Infine devo ammettere che ho scritto solo quando
sentivo di avere qualcosa da dire e non per riempire minuti di musica: può
apparire un po’ snobistico però essendo un lavoro che facevo per me stesso ho
preferito non sentirmi costretto.
Come
racconteresti l'anima del disco? Trattasi
di concept album?
No, non
è un concept anche se Alfredo Montresor (il fotografo che ha creato gli scatti
suggestivi della copertina e del booklet) ha subito notato che in ogni brano
c’è al centro l’uomo come figura, anche se in diverse sfaccettature; sono tutte
delle storie, alcune dei mini-film se vogliamo essere un filino presuntuosi,
con un significato dietro: Signals in the water è un brano sulla memoria
dell’acqua, intesa in un senso più ampio; Sitting on the edge
of heaven parla della difficoltà di accorgersi di quanto si potrebbe essere
felici con poco; Conditioning di dipendenza tecnologica, Nothing more
in you è un rapporto d’amore visto in termini di soffocamento e fuga; Childish
reaction parte da una riflessione su come il mondo degli adulti sia in
realtà molto infantile e immaturo; Back to the stars… è molto più
complessa ma potremmo sintetizzarla in una metafora della vita intesa come
cerchio; per quest’ultima in particolare è stato preziosissimo l’aiuto di Alex
Brunori nella stesura del testo, in quanto il nocciolo della storia era già
scritto, ma proveniva da un periodo per me molto difficile a livello personale
e non riuscivo a trasporlo correttamente: avevo solo delle frasi qua e la che
mi risuonavano bene, ma lui è stato bravissimo a leggere tra le righe della mia
storia, usare quello che c’era e... scavare più a fondo.
Mi parli
della squadra che ti circonda e di quanto abbia inciso sul risultato finale?
La
squadra base sono tutti grandi amici da tanti anni che provengono quasi tutti
da un’estrazione musicale diversa. Inizialmente il lavoro nasceva tutto al Mac
e i primi provini facevano parte di un lavoro che progettavamo di fare con Alex
Brunori, ex cantante dei Leviathan. Questo progetto si arenò per le difficoltà
di distanza nell’era “pre internet”. Quando ripresi in mano i primi demo
realizzati, decisi di farne un album solista dove avrei suonato tutto io
(programmando le batterie); poi la tecnologia audio è cresciuta e mi è venuta
in aiuto; è capitato di far sentire i provini a questi amici che si sono
entusiasmati per la cosa e mi hanno proposto di registrare le parti “vere”,
imparando gli arrangiamenti che avevo scritto e successivamente personalizzandoli.
Fatta
questa premessa, la squadra è composta da Gianni
Brunelli alla batteria, musicista di estrazione jazz
funk con tante esperienze diverse e ottimo insegnante qui al BTEC di Verona
e... grandissimo amico. E’ un batterista che amo definire “scientifico” nel
senso che tende a suonare quello che serve e non per il gusto di far vedere che
è bravo (e lo è!) Arriva sempre con gli strumenti giusti e i suoni chiari in
testa per cui quando registriamo si va sempre molto fluidi e con una buona dose
di “relax”. Gianni Sabbioni al basso è un musicista fenomenale, diplomato in
contrabbasso al Conservatorio G.Dall’Abaco di Verona; alterna una carriera
nella musica classica con numerosi concerti all’estero di musica barocca, e ha
un'anima rock: ha suonato per molti anni con Rudy Rotta (bluesman italiano) e
attualmente ha diverse situazioni in ambito rock e rock/blues con le quali
lavora molto. E’ un musicista di una modestia disarmante, ma di una
preparazione eccezionale e pure lui un carissimo amico. Massimo Piubelli
è stata l’ultima acquisizione in quanto originariamente avrei dovuto cantare io
i brani, poi ho fatto dei test e NON mi sono piaciuto come solista, oltre alla
preoccupazione di dover ricoprire il doppio ruolo per un eventuale live. Quando
ho prodotto l’album di esordio dei Methodica, Searching for reflections,
nel 2008 (uscito poi con Underground Symphony), ho conosciuto Massimo che mi è
subito piaciuto e con il quale ci siamo trovati immediatamente in sintonia.
Arrivato alla fase di dover fare le voci definitive ho pensato di chiedergli se
gli sarebbe piaciuto far parte del progetto: i brani gli sono piaciuti molto ed
è riuscito a entrare nello spirito che avevo messo nei miei demo nei quali però
sentivo sempre mancare qualcosa. E’ anche lui un musicista molto completo
(ottimo chitarrista in un’altra band di cover prog) e una persona estremamente
ricettiva e solare che facilita tanto il lavoro in studio. Per quanto riguarda
gli ospiti, evidenzio in primis Carlo
Soliman al pianoforte, che ha suonato quelle parti
che volevo registrare col piano a coda vero, ma che con la mia tecnica
pianistica da autodidatta non erano il massimo. Carlo sarà poi l’uomo dietro le
tastiere per i live e spero il tastierista ufficiale della formazione per il
futuro. Angela Merlin l’ho conosciuta quando è venuta a cantare come ospite in
un brano dei Methodica, e mi ha subito colpito per la sua maturità di canto
nonostante la giovanissima età, e mi è sembrata perfetta per il duetto di Nothing
more in you; è veramente una voce straordinaria e spero faccia qualcosa di
suo presto. Gabriele Amadei è un caro amico da molti anni, ottimo violinista, in
forza da una vita nell’orchestra dell’Arena di Verona, e che si è gentilmente
prestato per eseguire quelle parti che sennò avrei dovuto simulare con molta
fatica con campioni vari. Luca
Nardon è uno straordinario percussionista della
provincia di Vicenza che ho conosciuto lavorando su un altro progetto molti
anni fa. Casualmente sullo stesso hard disk avevo quello che sarebbe stato
l’embrione di Sitting on the Edge of Heaven, lui si è incuriosito e l’ha
voluto sentire e da li ha cominciato a prendere le sue scatole magiche e creare
quella tessitura particolare che potete sentire. Infine Cristiano Roversi
con il quale siamo amici da diversi anni: abbiamo collaborato in passato su dei
suoi progetti (ho suonato delle chitarre su Antiqua di cui ho curato anche il mastering, così
come quello dei Catafalchi del Cyber). Nel brano Conditioning mi sarebbe
piaciuto dare un respiro particolare alla parte del basso, e così ho pensato a
lui e allo Stick per dare quell’atmosfera un po’ Gabrielliana/Tony Levin che
avevo in testa fin dall’inizio.
“Back To
The Stars” ha colpito immediatamente chi
lo ha ascoltato: come spiegheresti a parole la vostra filosofia musicale?
Quando
ho scritto i brani non mi sono posto il problema di piacere a Tizio o Caio o di
essere allineato a un determinato genere; semplicemente ho scritto delle cose
che piacessero a me, completandole quando sentivo che erano pronte per essere
espresse (da lì anche il tempo molto dilatato). Non volevo sentirmi sotto
pressione, visto che lo sono abbastanza con i lavori di studio “normali”.
D’altro canto mi son potuto permettere di mettere dentro quello che è il mio
mondo sonoro, che ho amato crescendo e che mi è rimasto indelebilmente addosso,
filtrandolo però anche con l’esperienza maturata in tutti questi anni: ho il
massimo rispetto per chi decide di approcciarsi al prog in maniera
“filologica”, io però preferisco non dimenticarmi che son passati 40 anni che,
nel bene o nel male, hanno portato cose diverse che mi è piaciuto contaminare e
inserire nella mia musica. Infine, quello che non ho mai voluto perdere di
vista nel percorso, è la melodia: di base sono tutte delle canzoni, e ci tenevo
che le parti strumentali fossero funzionali a un racconto più che a
un’esibizione di tecnica (che peraltro non penso di possedere particolarmente).
Diciamo, riprendendo una citazione di Jimmy Page, che non mi è interessata così
tanto la tecnica quanto le emozioni che questa musica mi suscitava e forse sono
riuscito a trasferire tutto ciò, almeno in parte, agli ascoltatori.
Avete
preparato date dal vivo per proporre il disco in fase live?
In
realtà una data è già fissata per quest’autunno assieme agli amici dei Logos,
però per scaramanzia scioglierò la riserva dopo che avremo fatto… almeno una
prova!
Scherzi
a parte, sì, c’è la voglia di proporre Back to the Stars dal vivo, anche
se sarà un’impresa non semplice, perché, come penso avrai sentito, è un disco molto “denso”, e qualcosa dovremo
sacrificare nel live, o perlomeno aiutarci con la tecnologia non potendo essere
in quindici sul palco. L’idea è comunque di contenere la live band ai cinque
elementi classici, anche per semplificare logistica, prove e impegni di tutti.
Che cosa
avete pianificato per il futuro prossimo, relativamente ai progetti musicali?
Come
futuro prossimo siamo proiettati verso la preparazione dei live: non ci
interessa suonare in ogni buco, un po’ per i numerosi impegni di tutti e
soprattutto perché non ha senso col genere che facciamo, tenderemo quindi a
privilegiare delle date “mirate”, dove serve e dove ci possa essere attenzione
per questo tipo di musica: purtroppo come ben sai viviamo nell’era delle band
tributo e diventa veramente inutile voler suonare alla classica festa della
birra dove la gente si aspetta l’ennesimo Vasco/Liga etc. A parte il discorso
live, ci sono già un paio di brani musicalmente finiti che andranno a far parte
di un prossimo disco che mi piacerebbe fosse un concept (ho già delle idee in
testa, si tratta solo di vedere se riuscirò a collegarle correttamente
scrivendo poi direttamente i testi in Inglese) e che, prometto, non impiegherò
altri dieci anni a realizzare!
Dimenticavo...
da dove arriva un nome così complicato come
Røsenkreütz?
Stavo
leggendo un libro saggistico su massoneria e rosacrocianesimo e mi ha
incuriosito la figura di Christian Rosenkreutz che, a tutt'oggi, non si sa se
sia realmente esistito. Il nome mi è “risuonato” bene e ho pensato che potesse
essere giusto; successivamente ne ho alterato leggermente la grafia, perchè
facendo una ricerca in rete ho scoperto che in giro per il mondo ci sono un tot
di band (tutte minori da quel che ho potuto vedere) con nomi simili, e poi
graficamente mi piaceva, con quei caratteri scandinavi.