Ogni
volta che Loris Furlan, patron della Lizard, mi propone un nuovo ascolto,
so già che sarà qualcosa di inusuale, che non segue alcuna regola di mercato,
ma presenta la facciata - e la sostanza - del prodotto di qualità. E’ una sorta
di missione la sua, il vanto di nutrire un pubblico di nicchia.
In
questo caso gli attori sono due giovani ma molto esperti musicisti, Gianluca
Milanese e Nicola Andrioli, che regalano le loro “Tessere”, racchiuse in un album
composto da sette tracce strumentali, dove regnano il piano di Nicola ed il
flauto di Gianluca.
L’iter
formativo di questi due artisti è ampio, e risiede in una gamma che va dalla
rigidità degli studi classici sino alla libertà del mondo jazz, anche se nell’intervista
a seguire viene sottolineato come occorra non confondere elasticità con
mancanza di schemi.
Attraverso
i due strumenti citati si percorrono le strade della sperimentazione,
oltrepassando le trame a cui facevo accenno, classiche e jazz, per ricercare momenti intimistici valorizzati dall’amore
per i dettagli sonori, apprezzabili da un ascoltatore ben predisposto all’ascolto.
Come
accennato nel comunicato stampa, il titolo dell’album ha doppio significato,
immediatamente chiaro dopo il primo attento ascolto: “Tessere”, come minuscole parti di un mosaico più completo che
permette ai due musicisti di raccontare il loro progetto, o “Tessere” come infinito del verbo… una
continua riunione di elementi musicali che si allarga, si interseca,
interagisce, lasciando aperte le possibilità di ascolto, e non solo di nuove
costruzioni aggiuntive.
Un
album che si rivolge ad un pubblico sensibile, voglioso di lasciarsi andare e
di ritrovare momenti di riflessione, e niente come la musica è capace di condurre
sui sentieri dei ricordi, dei ripensamenti e delle “visite interiori”.
Inutile
sottolineare le qualità tecniche di Milanese e Andrioli, non è il know out
personale che può inserire un disco nella categoria dei “godibili”, ma la
padronanza assoluta dello strumento è un grande valore aggiunto.
Ciò che
colpisce è il colore, il racconto, la descrizione di attimi e luoghi, senza l’utilizzo
di alcuna parola, e ... chiudendo gli occhi, tessera dopo tessera, si aprirà un
mondo in cui vale la pena di tuffarsi.
L’INTERVISTA
Ho letto le
vostre straripanti biografie, ma… come
nasce la vostra collaborazione musicale?
Io e Nicola
ci conosciamo dai tempi del Conservatorio di Lecce dove abbiamo iniziato i
nostri studi musicali, e successivamente le nostre collaborazioni all’interno
di vari gruppi jazz della scena salentina a metà degli anni novanta.
Qual è stata la
scintilla che, scoccando, vi ha condotto verso il mondo dei suoni?
Abbiamo
suonato insieme nelle più svariate formazioni, ma poi negli ultimi anni si è
consolidato il duo che ci ha portato ad approfondire la ricerca sonora sui
nostri strumenti.
Esistono dei
punti di riferimento, delle linee guida, degli artisti che vi accompagnano sino
dagli inizi del vostro percorso?
Mentre
ancora ero studente del Conservatorio manifestavo la voglia di utilizzare il
flauto anche in altri linguaggi, non specificatamente “accademici”. Da qui la
ricerca che mi ha portato naturalmente a Ian Anderson e ai Jethro Tull, e poi a
seguire Herbie Mann, Roland Kirk, il mondo del prog dove il flauto era molto
usato, King Crimson, Area, John Coltrane, Miles Davis, Joe Zawinul (con il
quale ho avuto la grande fortuna di
lavorare per una settimana nel 2000 in qualità di flautista e di assistente
musicale).
Raccolgo il tuo
accenno ai Jethro Tull, che sono stati la colonna sonora della mia vita. Che
giudizio puoi dare di Ian Anderson come flautista?
Come ho
scritto sopra Ian Anderson è stato il primo flautista al di fuori del mondo
accademico che ho conosciuto. Sicuramente è un musicista che ha fatto la storia del rock e che ancora continua a
rimanere sulla cresta dell’onda. Inizialmente non avendo altri confronti è
stato il mio punto di riferimento, ma col passare del tempo e con l’ascolto di
tanti artisti, anche di altro ambito
musicale, ho iniziato a seguire anche altri flautisti.
La vostra
preparazione classica non vi ha impedito di spaziare nei campi musicali più
disparati. Io non amo molto le etichette, anche se riconosco la loro utilità in
termini di “comunicazione del prodotto”, ma… qual è il genere musicale che vi
da maggiori soddisfazioni?
Lo studio
accademico è stato il punto di partenza, il mezzo per raggiungere la padronanza
dello strumento, che ci ha permesso poi di affrontare i vari linguaggi
musicali. Sia io che Nicola abbiamo una forma mentis che ci porta alla continua
esplorazione. Dal jazz al rock, dalla musica popolare all’elettronica, dalla
musica antica all’improvvisazione radicale.
Che cosa amate
della fase studio e cosa vi regala una buona
performance live.
Lo studio è
fondamentale per poter raggiungere i migliori risultati in qualsiasi contesto
musicale. Il momento della performance è poi la fase più bella in cui si
possono trasmettere e ricevere le emozioni sia che si suoni per un pubblico di migliaia di persone che
per pochi intimi.
Che giudizio
date dell’attuale stato della musica dal punto di vista del talento puro? Crisi
di capacità o di opportunità?
Credo che i
talenti ci siano sempre… in questo periodo storico forse sono le opportunità
che mancano!
Il jazz è libertà
espressiva, virtuosismo, rottura degli schemi. Che cos’è per voi?
E’ la
possibilità di poter esplorare la musica a più ampio raggio. Anche nel jazz
esistono le regole, improvvisare non significa sicuramente suonare a caso, ma
si ha la possibilità di poter essere più liberi dal punto di vista della
creatività e della ricerca timbrica.
Come nascono le
vostre composizioni? Idee del singolo elaborate assieme o frutto del lavoro di
gruppo?
I pezzi del
disco sono frutto di un nostro percorso individuale che si è andato a
concretizzare in studio. Ognuno di noi aveva delle composizioni nate
precedentemente e ispirate a propri
vissuti. Solo Amazzonia è un brano che è nato direttamente in studio come
volontà di sublimare le emozioni del
momento.
Dare un titolo a
un brano strumentale significa caratterizzarlo e fornire ulteriore significato
a una musica priva di testo, ma è
oggettivamente complicato entrare nel circuito che ha portato a generare il binomio traccia/titolo. Che
valore hanno per voi, in senso generale, le liriche collegate alla musica?
Per quanto
mi riguarda fino ad ora ho composto solo brani strumentali e la scelta dei
titoli è sempre stata suggerita dall’elemento ispiratore della composizione
stessa.
Provate ad
aprire il libro dei desideri… cosa vorreste vi capitasse, musicalmente
parlando, nei prossimi tre anni?
Sarebbe
bello che la nostra musica possa arrivare a quanta più gente possibile….sia dal
vivo che attraverso il disco. Nel nostro circuito musicale è difficile avere
grande visibilità. Credo che
l’importante sia continuare a trasmettere le proprie emozioni attraverso
la propria musica e magari trovarsi al
momento giusto nel posto giusto.