domenica 30 novembre 2025

Arianuova -“Volevo Andare Altrove”

 


Arianuova -“Volevo Andare Altrove”

LizardRecords


Ci sono dischi che non si limitano a essere ascoltati: si attraversano, come si percorre un paesaggio mutevole. Volevo Andare Altrove, esordio degli Arianuova, è uno di questi. Non è soltanto un album, ma un viaggio che mette in scena la tensione umana verso un altrove indefinito, un bisogno che ci accompagna da sempre e che diventa qui materia sonora.

L’apertura con Rota Fortunae è come un varco improvviso: scale discendenti e vortici strumentali che evocano la ruota della sorte, la vita che gira senza preavviso. È un preludio che non concede certezze, ma prepara all’ignoto. Subito dopo, La strada buona diventa manifesto: un canto di liberazione, il desiderio di cambiare direzione, di respirare aria nuova. La voce si fa confessione, le tastiere disegnano scenari che oscillano tra malinconia e speranza, mentre la chitarra apre squarci di luce.

Il ponte dell’arcobaleno di Rainbow bridge ci porta in una dimensione sospesa, dove mito e leggenda si intrecciano con la memoria personale. Qui la musica diventa carezza, un conforto che non indulge nel sentimentalismo ma lascia spazio a un respiro cosmico. Downfall, al contrario, è tensione pura: riff incalzanti, voci campionate, un ritmo che precipita fino al silenzio del piano elettrico. È la caduta, la fragilità di chi rincorre il successo e si ritrova improvvisamente senza appigli.

La tempesta arriva e passa in La quiete dopo la tempesta, otto minuti di progressione strumentale che alternano calma e turbolenza, fino a un finale epico. È il brano che meglio mostra la capacità della band di trasformare la narrazione in musica, senza mai perdere coerenza. Poi, La commedia è finita: una ballata che riflette sulla fine dello spettacolo, sul tramonto della musica dal vivo, ma anche sulla dignità di chi continua a credere nel palco e nel pubblico. La voce di Zanon restituisce tutta la nostalgia di chi sente svanire il calore delle mani che applaudono.

Il cuore del disco è la lunga suite L’orologio che andava all’indietro. Sedici minuti che diventano un viaggio nel tempo, tra paure, cadute, fughe verso la luce e ritorni alle origini. È un brano che chiede ascolto attento, ma ripaga con intensità emotiva e costruzione narrativa. Qui il tempo non è solo misura musicale: è esperienza, memoria, vertigine. A chiudere, Fortunae rota volvitur riprende il tema iniziale della sorte, riportando l’ascoltatore al punto di partenza, ma con la consapevolezza di aver attraversato un cammino.

Volevo Andare Altrove è un album che si legge come un racconto e si ascolta come un viaggio. Gli Arianuova non si limitano a citare il progressive, ma lo reinventano come linguaggio per parlare di inquietudini contemporanee. È un disco che chiede tempo e attenzione, ma che restituisce emozioni autentiche e la sensazione di aver compiuto un percorso insieme agli autori.

 

Formazione

Daniele Olia-tastiere, chitarre, liuto, voci

Luca Bonomi-batteria

Massimo Zanon-voce

Michele Spinoni-chitarra

Lista brani

1-Rota Fortunae-3'30''

2-La strada buona-5'20''

3-Rainbow bridge-6'12''

4-Downfall-4'57''

5-La quiete dopo la tempesta-8'10''

6-La commedia è finita-6'45''

7-L’orologio che andava all’indietro-15'45''

8-Fortunae Rota volvitur-2'10''


Musica, testo e arrangiamenti: Daniele Olia

Mix e masterizzazione: Luca Bonomi

Progetto grafico: Daniele Olia

Tutti i brani sono registrati e depositati presso SOUNDREEF

Distribuzione album

Volevo andare altrove è disponibile presso:

BTF www.btf.it ,  GT Music    www.gtmusic.it , MaRaCash www.maracash.com , Pick Up www.pickuprecords.it  ,  Syn-Phonic  www.synphonicmusic.com

Inoltre, è disponibile in download digitale sulle principali piattaforme di streaming

Info e Contatti

www.lizardrecords.it

lizardopenmind@yahoo.it

infoqirsh@gmail.com

 

 

sabato 29 novembre 2025

George Harrison: oltre il silenzio, un'anima musicale profonda

 

Oltre il mito: la profondità musicale e spirituale di George Harrison, un'eredità che continua a risuonare


George Harrison. Il "Beatle silenzioso". Un appellativo che, sebbene riconosca la sua indole più introversa rispetto agli esuberanti Lennon e McCartney, rischia di oscurare la profondità e la complessità di un artista che ha lasciato un'impronta indelebile nella storia della musica. Andare oltre questo stereotipo significa esplorare le molteplici sfaccettature di un uomo la cui spiritualità, il talento compositivo e la ricerca di autenticità hanno plasmato la sua vita e la sua opera.

Le radici musicali di Harrison affondano negli anni della formazione a Liverpool e nell'irresistibile ascesa dei Beatles. Il suo ruolo all'interno della band, spesso sottovalutato, si rivela cruciale. Emerge un chitarrista dalla tecnica raffinata e dal tocco inconfondibile, capace di arricchire le melodie con riff iconici e assoli carichi di feeling. Ma soprattutto, si afferma come un autore di crescente maturità, le cui composizioni, inizialmente relegate ai lati B o a momenti secondari degli album, hanno progressivamente conquistato spazio e riconoscimento, culminando in gemme come "While My Guitar Gently Weeps", "Something" e "Here Comes the Sun".

Un aspetto centrale della sua vita è il profondo percorso spirituale intrapreso. Il suo interesse per la cultura e la filosofia indiana, introdotto nella band durante le riprese di "Help!", lo ha condotto a un'intensa ricerca interiore che si è riflessa non solo nella sua vita privata, ma anche nella sua musica. L'introduzione di sonorità orientali, l'uso di strumenti come il sitar e il sarod, e i testi intrisi di misticismo hanno rappresentato una svolta significativa nel panorama musicale dell'epoca, influenzando profondamente la creatività dei Beatles e aprendo nuove strade per la sperimentazione sonora.

Dopo lo scioglimento della band, Harrison ha intrapreso una carriera solista ricca e variegata, affrancandosi definitivamente dall'ombra dei suoi celebri compagni. L'album triplo All Things Must Pass (1970) è considerato un capolavoro, un'esplosione di creatività repressa che spazia dal rock al gospel, dal folk alle sonorità orchestrali, con testi profondi e personali. Questo periodo evidenzia la sua capacità di collaborare con altri musicisti di talento e di spaziare tra diversi generi musicali, mantenendo sempre una forte identità artistica.

La sua vita intima e personale rivela un uomo schivo ma dotato di un acuto senso dell'umorismo, profondamente umano e autentico nella sua ricerca di significato. Le sue relazioni, le sue passioni (come l'amore per i motori e il cinema, testimoniato dalla fondazione della HandMade Films) e le sue fragilità completano il ritratto di un artista complesso e sfaccettato.

In conclusione, George Harrison rappresenta una figura fondamentale nella storia della musica. La sua evoluzione artistica e spirituale, il suo contributo unico al suono dei Beatles e la sua prolifica carriera solista testimoniano la profondità e la genialità del "Beatle silenzioso", un'anima musicale che ha saputo far risuonare la sua voce unica nel panorama del rock.






venerdì 28 novembre 2025

"VI - ...AND THUS THE END": l'epica sonora di Vincenzo Ricca tra leggende del Prog e l'eternità di Roma

 


"VI - ...AND THUS THE END"

Vincenzo Ricca's The Rome Pro(G)ject 

La monumentalità di una saga finale 


VI - ...AND THUS THE END non è semplicemente un nuovo album, ma il capitolo finale di una delle imprese concettuali più significative del progressive rock contemporaneo. Con l'uscita di questo sesto lavoro, The Rome Pro(G)ject si consacra come il concept project più lungo nella storia del progressive rock, una "monumentale traversata musicale" interamente dedicata agli eventi e alla grandezza dell'antica Roma.

L'idea originaria, concepita nel 2009 dal compositore e tastierista Vincenzo Ricca, è evoluta da un singolo album a un vero e proprio "laboratorio musicale aperto" che ha saputo attrarre e rilanciare leggende internazionali del genere, un'iniziativa pionieristica nel panorama prog. Ricca è il vero artefice del progetto, avendo curato concezione, composizione, arrangiamento, esecuzione e produzione di tutte le tracce in questo, come nei precedenti capitoli.

L'album presenta una tracklist di sei nuovi brani (più un brano bonus) per una durata totale di 56:06 minuti. La cifra "VI" è carica di simbolismo, ma anche di aneddoti, dato che l'album detiene il record per il maggior numero di cambi di titolo durante la sua gestazione.

La tracklist evidenzia l'ambizione narrativa e la visione progressiva di Ricca attraverso un contrasto stilistico estremo:

  • 1229 Years (28:11): è la traccia più lunga dell'intera saga.
  • ...And Thus The End (1:23): è la traccia più breve della saga, creata all'ultimo minuto durante le sessioni di mixaggio e che ha dato il titolo definitivo all'album.

Dei sei brani, quattro sono interamente strumentali, mentre due presentano contributi vocali:

  • "We Wandered" è cantata da Bernardo Lanzetti.
  • "Far From Home" è cantata dallo stesso Vincenzo Ricca.

Come da tradizione, il disco include un bonus track, che in questo caso è una rivisitazione di un pezzo già edito: "Over 2,000 Fountains" in versione early demo, che vede la partecipazione di David Cross.

La forza di "VI - ...AND THUS THE END" risiede, ancora una volta, nell'eccezionale sinergia tra leggende e nuovi talenti.

  • Steve Hackett (chitarra elettrica): ritorna per la sua sesta apparizione in un album di The Rome Pro(G)ject, lo stesso numero di album in studio registrati con i Genesis, un parallelismo carico di simbolismo.
  • David Jackson (sax & flauti): L'artista detiene il record di presenze nel progetto, apparendo con la sua sezione di fiati in tutti e sei gli album.
  • Tony Levin (basso): La sua seconda apparizione sostanziale nel progetto.
  • Billy Sherwood (basso): Anche per lui è un secondo ritorno di alto profilo.
  • Bernardo Lanzetti (voce): Presta la sua voce per la terza volta, un'altra analogia con i suoi tre album realizzati con la PFM, che connette idealmente il passato e il presente del prog italiano.

Il progetto continua inoltre a valorizzare le nuove leve. Paolo Ricca, figlio di Vincenzo, è accreditato per la chitarra elettrica, e Franck Carducci (basso e chitarra 12 corde) è ormai un nome consolidato che ritorna al fianco dei veterani.


"VI - ...AND THUS THE END" si preannuncia come una conclusione degna di una saga decennale. L'album riesce a fondere ispirazione storica, citazioni musicali, originalità e strumenti vintage amati dagli appassionati di prog, dimostrando che la visione artistica di Vincenzo Ricca è ancora la forza trainante di questo progetto ambizioso.

Con il suo mix di pezzi brevi e una traccia monolitica, e la partecipazione di un cast di musicisti senza precedenti, l'album conferma la posizione di The Rome Pro(G)ject come una delle imprese più ambiziose e durature della scena progressive rock mondiale. È un'opera monumentale che mescola storia e passione musicale.





mercoledì 26 novembre 2025

Edmondo Romano: la voce degli strumenti e l’impronta della tecnica-Tratto da una chiacchierata con l'autore

 

Questo articolo nasce da un’intervista realizzata con Edmondo Romano, inserendosi in un progetto editoriale più ampio dedicato all’evoluzione della tecnologia musicale. L’obiettivo è quello di estrapolare contenuti e riflessioni per un racconto storico-critico che metta in luce il rapporto tra creatività artistica e impronta tecnica nell’opera dell’autore.

Un percorso tra tradizione e innovazione

Romano si muove lungo una traiettoria che attraversa epoche e linguaggi, coniugando la sensibilità del musicista con la curiosità del ricercatore. La sua formazione, radicata negli strumenti acustici, si è progressivamente aperta alle possibilità offerte dalle tecnologie digitali. In questo passaggio non c’è mai stata una rottura, ma piuttosto una continuità: la tecnologia diventa estensione dello strumento, non sostituzione.

L’intervista ha messo in evidenza come ogni scelta tecnica sia sempre stata guidata da un’urgenza espressiva. Romano non considera gli strumenti elettronici come semplici mezzi di amplificazione, ma come veri e propri partner creativi, capaci di generare nuove forme di linguaggio.


La tecnologia come linguaggio

Uno dei punti centrali emersi è la consapevolezza che la tecnologia non sia mai neutra. Essa influenza la scrittura, la performance e persino la percezione del pubblico. L’introduzione di nuovi strumenti modifica inevitabilmente il modo di pensare la musica: cambia la struttura, il ritmo, la relazione tra suono e silenzio.

In questo processo, la creatività rimane il motore principale. La tecnica non è fine a sé stessa, ma diventa terreno fertile su cui l’artista costruisce nuove architetture sonore. È un equilibrio delicato, che richiede rigore e sensibilità, ma che permette di trasformare l’innovazione in libertà espressiva.

Un tassello di storia collettiva

Il racconto che emerge dall’intervista non si limita alla dimensione personale. Romano diventa testimone di una storia più ampia: quella dell’evoluzione musicale contemporanea, in cui la dialettica tra arte e tecnica ha ridefinito il ruolo dell’autore. La sua esperienza si inserisce in un mosaico di trasformazioni che hanno segnato gli ultimi decenni, mostrando come la musica sia sempre più un campo di sperimentazione condivisa tra creatività individuale e strumenti collettivi.

In questo senso, l’opera di Romano non è soltanto un percorso artistico, ma anche un documento storico. Essa racconta come la tecnologia, lungi dall’essere un semplice supporto, si sia trasformata in un vero e proprio linguaggio, capace di incidere sulla memoria culturale e di aprire nuove prospettive di ascolto.

Conclusione

La visione musicale di Edmondo Romano restituisce l’immagine di un artista che ha saputo attraversare le trasformazioni tecnologiche senza mai perdere di vista la centralità della creatività. La sua opera dimostra come la tecnica, lungi dall’essere un vincolo, possa ampliare le possibilità espressive e ridefinire il rapporto tra autore e pubblico.

La sua testimonianza si inserisce nel progetto editoriale dedicato all’evoluzione della tecnologia musicale come voce autorevole e sensibile, capace di illuminare il dialogo tra arte e tecnica. Il racconto invita a considerare la musica non solo come prodotto estetico, ma come processo culturale e tecnologico, in cui ogni innovazione diventa occasione di riflessione e di libertà creativa. È proprio in questa tensione che si riconosce la forza dell’opera di Romano: un equilibrio dinamico tra invenzione e rigore, tra memoria e futuro.




martedì 25 novembre 2025

Genesis al Bataclan nel 1973: disponibile online l'intero concerto

 


Rara gemma per i fan: disponibile l'intero show dei Genesis al Bataclan 1973


Una rara e preziosa gemma per tutti gli appassionati dei Genesis è emersa online: lo storico concerto del 1973 al Bataclan di Parigi è finalmente disponibile nella sua versione integrale. Questo filmato, girato il 10 gennaio 1973 durante il tour dell'acclamato album Foxtrot, è stato caricato per la prima volta in assoluto in un'unica soluzione su YouTube.

Il video, reperibile sul canale ikhnatonrappresenta un'autentica impresa di restauro. Il canale stesso precisa che si tratta di una "bozza" con una sincronizzazione "molto debole". Il motivo risiede nella difficoltà di reperire un'unica fonte audio completa, dato che la registrazione originale del Bataclan era incompleta. Per sopperire a questa mancanza, il suono è stato meticolosamente ricostruito da 3-4 diverse registrazioni, un lavoro certosino che ha reso possibile la visione dell'intero spettacolo. L'autore del video ringrazia pubblicamente chi ha svolto questo arduo lavoro di ricostruzione audio.

Il filmato, originariamente girato su pellicola da 16 mm, offre uno sguardo unico e completo su una delle performance più iconiche dei Genesis, con Peter Gabriel al culmine del suo talento teatrale. La scaletta include brani storici come "Watcher of the Skies", "The Musical Box", la suite epica "Supper's Ready", "The Return of the Giant Hogweed" e "The Knife".






lunedì 24 novembre 2025

Addio a Jimmy Cliff: quando il Reggae ha conquistato il mondo



È morto Jimmy Cliff, la leggenda giamaicana che ha contribuito in modo fondamentale a portare il reggae e il rocksteady sulle scene mondiali. Aveva 81 anni.

Cliff non è stato solo un musicista eccezionale, ma una vera e propria icona culturale, la cui voce potente e il cui messaggio di resilienza, speranza e lotta hanno risuonato in ogni angolo del pianeta.

Nato James Chambers il 30 luglio 1944 nella parrocchia di St. James, in Giamaica, la sua vita fu l'incarnazione del messaggio che avrebbe poi cantato: You Can Get It If You Really Want.

La sua carriera decollò negli anni '60, quando la musica giamaicana era in piena effervescenza, passando dallo ska al rocksteady fino al nascente reggae. I successi giamaicani si trasformarono presto in hit internazionali, come l'irresistibile inno alla determinazione "You Can Get It If You Really Want" e la toccante "Many Rivers to Cross".

Il vero punto di svolta arrivò nel 1972 con il film cult "The Harder They Come" (Più duro è, più forte cade), in cui Cliff non solo recitò da protagonista, ma contribuì in modo decisivo alla colonna sonora.

Il film è una cruda e affascinante rappresentazione della vita a Kingston, che portò un'immagine autentica della Giamaica e delle sue difficoltà al pubblico occidentale.

La colonna Sonora è un capolavoro che è considerato il biglietto da visita globale del reggae. Brani come la title track e "Sitting in Limbo" sono diventati classici eterni, definendo il suono di un'intera generazione.

La musica di Jimmy Cliff non è mai stata solo intrattenimento. Canzoni come "Vietnam", che affrontava il tema della guerra, o le sue cover toccanti di "Wild World" (Cat Stevens) e "I Can See Clearly Now" (Johnny Nash), dimostrarono la sua incredibile versatilità e la sua capacità di infondere profondità e spiritualità in ogni nota.

Nel 2010, il suo impatto è stato suggellato con l'introduzione nella Rock and Roll Hall of Fame, un giusto riconoscimento per un pioniere che ha mescolato generi e culture, ispirando innumerevoli artisti caraibici e oltre.

Insomma, un gigante, e l'eco della sua voce, che predicava gioia, resistenza e una fede incrollabile nel potere della volontà, continuerà a fluire come i "molti fiumi" che ha attraversato.








domenica 23 novembre 2025

EmoSuoni al Priamar di Savona: dal mio primo concerto ai linguaggi universali della musica



David Jackson protagonista al Priamar, ma il vero cuore è la musica che si conferma linguaggio universale


Ci sono esperienze che si intrecciano con la memoria e che, quando tornano, sembrano chiudere un cerchio. Venerdì 21 novembre, al Priamar di Savona ho assistito a EmoSuoni, un evento dedicato alla musica inclusiva, con il Soundbeam protagonista e con la presenza di David Jackson.

Avevo 16 anni quando vidi per la prima volta i Van der Graaf Generator dal vivo. Era il mio primo concerto della vita, e quella musica mi rimase dentro come un marchio indelebile. Da allora ho seguito il percorso di David Jackson in tutte le sue direzioni, e dal 2009 ho avuto la fortuna di conoscerlo personalmente. Ogni volta che ci incontriamo ritrovo la stessa energia di allora, arricchita da una disponibilità e da un’umiltà che lo rendono unico.

Non sono certo che il folto pubblico abbia colto fino in fondo la reale dimensione dell’ospite, vero mito del progressive rock, così come è probabile che anche molti appassionati del genere non conoscano l’impegno parallelo che David porta avanti da almeno trentacinque anni: un lavoro silenzioso e costante che affianca la sua carriera musicale e che dà senso alla sua presenza in eventi come questo. La sua partecipazione, infatti, non era fine a sé stessa, ma aveva lo scopo di amplificare e sostenere l’opera instancabile degli operatori del settore, locali e oltre, che con dedizione portano avanti un progetto nobile e necessario. Grande e lodevole appare quindi il lavoro tenace - e proficuo - della cooperativa sociale Il Faggio.

 

Il Soundbeam spiegato senza tecnicismi

Non sono un esperto, quindi mi limito a una descrizione semplice. Il Soundbeam è uno strumento che utilizza fasci ultrasonici: quando una persona entra nel suo raggio e compie un movimento, questo viene tradotto in suono. In pratica, muovendosi nello spazio si produce musica. La sua forza sta nell’accessibilità: chiunque può partecipare, anche chi ha gravi difficoltà motorie o sensoriali. È un mezzo che restituisce libertà espressiva e rende possibile costituire una vera band.

 

EmoSuoni: un commento parziale ma intenso

Non ho seguito l’intera mattinata, quindi il mio commento è inevitabilmente parziale, ma ciò che ho visto è bastato a cogliere la forza del progetto. Sul palco si è formata una band autentica, composta da persone che, grazie al Soundbeam, hanno potuto suonare insieme e dialogare musicalmente con Jackson (fiati) e  Michele Fornelli (basso). Il loro nome e la presentazione ufficiale è fruibile in uno dei video a seguire.

La musica, in questo contesto, diventa davvero un linguaggio universale: abbatte barriere, cancella differenze, restituisce protagonismo.

Per completare il racconto aggiungerò:

  • alcuni stralci video dell’evento;
  • l’intervista completa a David Jackson, che spiega con la sua consueta passione il progetto e la sua lunga esperienza.

 

Conclusione

David Jackson è stato un elemento prezioso, e la sua presenza ha dato prestigio e forza all’iniziativa. Ma alla fine, ciò che resta più impresso non è tanto il nome dell’artista, quanto il risultato collettivo: una vera band composta da persone con abilità diverse che, attraverso la musica, ha saputo esprimersi compiutamente.

È lì che si trova il cuore dell’esperienza: la musica come elemento espressivo e comunicativo capace di abbattere ogni barriera. Ciò che ho visto basta a confermare la potenza di un progetto che lascia il segno. E mentre osservavo i partecipanti muoversi nello spazio e trasformare i gesti in suoni, non ho potuto non pensare a quel ragazzo di 16 anni che, al suo primo concerto, scopriva quanto la musica potesse cambiare la vita delle persone.


PROFUMO DI GIORNATA

IL FOCUS SU DAVID JACKSON

INTERVISTA A DAVID JACKSON

sabato 22 novembre 2025

Sun Chorus a Savona – La prima di sei serate alla Sala Stella Maris

 


L’inizio di un percorso

La serata di venerdì 21 novembre 2025, presso la Sala Stella Maris di Savona, ha inaugurato un nuovo ciclo culturale: la prima di sei serate organizzate con il patrocinio dell’Associazione Rossini e di UniSavona. Un progetto pensato per portare musica, teatro e narrazione in uno spazio raccolto ma vibrante, capace di accogliere esperienze artistiche diverse e trasformarle in momenti di comunità.

Il Sun Chorus e il decennale

Ad aprire questo percorso è stato il Sun Chorus, giunto dal Piemonte sotto la neve per celebrare i suoi dieci anni di attività. Nato nel 2015 da un gesto d’amore della direttrice artistica Francesca Oderda, il coro conta oggi oltre 35 membri suddivisi in sezioni vocali, accompagnati da pianoforte, chitarra e voce recitante.

Pubblico e atmosfera

  • Affluenza: inferiore alle aspettative, complice il freddo pungente e il tempo inclemente.
  • Partecipazione: intensa e calorosa; il pubblico ha seguito con attenzione, lasciandosi coinvolgere e regalando grande soddisfazione al coro.
  • Nota di merito: la minor presenza numerica è stata compensata da un ascolto partecipe e autentico, che ha reso la serata intima e significativa.

La trasferta del coro

Il Sun Chorus, partito dal Piemonte con condizioni meteo difficili, ha dimostrato una passione straordinaria. La fatica del viaggio si è trasformata in energia e dedizione sul palco, rendendo la performance ancora più intensa.

Storytelling e narrazione

Lo spettacolo “…ma di tutte la più grande è l’Amore!” ha trovato la sua forza nella parte narrativa.

  • L’attrice teatrale ha dato corpo e voce alle letture, creando un pacchetto integrato e vario.
  • L’alternanza tra musica e parola ha costruito un flusso emotivo che ha commosso anche lo scrivente.
  • Le letture di Baricco, Erri De Luca, Mariangela Gualtieri e San Paolo hanno dialogato con brani come Shallow, Bridge Over Troubled Water, The Sound of Silence.

Acustica e strumenti

  • Sala Stella Maris: dimensioni contenute rispetto al coro, ma acustica sorprendentemente ottima.
  • Strumentazione: chitarra e pianoforte (in dotazione della sala), utilizzati con efficacia per sostenere le voci.

Il mio pensiero

A mente fredda, il giudizio assume una prospettiva diversa. Se la mia reazione iniziale è stata di delusione per la modesta partecipazione, il giorno successivo si è trasformata in un sentimento ben più profondo e motivante. Frequento l’ambiente musicale da molti anni e conosco bene le dinamiche interne, ma raramente mi è capitato di provare emozioni così intense. Il Sun Chorus ha saputo creare un rapporto osmotico straordinario: ciò che ha regalato al pubblico gli è stato restituito in un circolo virtuoso che ha coinvolto tutti i presenti.

La loro esibizione è stata perfetta nel creare empatia, un elemento che va ben oltre le capacità tecniche. Ho ricevuto tantissimi apprezzamenti da chi era presente, e questo ha mitigato il mio disappunto iniziale. Non è rimasto solo un elogio: già il giorno dopo ho lavorato per aprire nuove strade, e se son rose…

Medley video

Per rendere più vivido il racconto, propongo un medley video con i momenti più significativi della serata: frammenti musicali e narrativi che restituiscono l’energia e l’intensità del concerto. Un modo per rivivere l’esperienza e condividerla con chi non era presente.


Conclusione

Il concerto del Sun Chorus a Savona non è stato soltanto la celebrazione di un decennale, ma la dimostrazione di una passione autentica. Le intemperie inaspettate e il freddo pungente non hanno impedito al coro di portare la propria musica e la propria narrazione a un pubblico numericamente contenuto, ma emotivamente partecipe. La serata ha mostrato che la vera forza di un ensemble non risiede nel numero delle voci, bensì nella capacità di creare empatia, trasmettere emozioni autentiche e intrecciare parola e suono in un’esperienza che resta impressa.

Questa è stata la prima tappa di un percorso che continuerà con altre cinque serate, ognuna pensata per arricchire la vita culturale della città e offrire nuove occasioni di incontro e condivisione.

Almeno ci si proverà!







venerdì 21 novembre 2025

“Shine On You Crazy Diamond: il rito infinito”

 


Shine On You Crazy Diamond – Il ritorno del diamante

C’era una volta un uomo che camminava tra le ombre del suono. Aveva gli occhi pieni di stelle e la mente piena di fuoco. Syd Barrett non era solo un fondatore: era un faro, un’anomalia, un sogno che bruciava troppo in fretta. E ora, cinquant’anni dopo, i Pink Floyd tornano a raccontarlo. Non con parole nuove, ma con un respiro più lungo. Un unico flusso, venticinque minuti di luce e abisso: Shine On You Crazy Diamond, pts. 1–9, come non l’avevamo mai ascoltato.

Il nuovo mix stereo di James Guthrie non è solo una pulizia sonora. È un rituale. Le tastiere si aprono come porte cosmiche, il basso pulsa come un cuore antico, la chitarra di Gilmour piange e canta. E nel mezzo, quella voce che non c’è più, ma che tutti sentiamo.

Nel video, Noel Fielding dipinge Syd. Non lo copia: lo evoca. Pennellate che sembrano sogni, occhi che non guardano ma ricordano. “Quando avevo dodici anni”, dice Fielding, “ho ascoltato The Piper at the Gates of Dawn e ho capito che la realtà poteva essere piegata.” È così che si entra nel mondo di Barrett: non con la logica, ma con la vertigine.

La nuova edizione di Wish You Were Here è un viaggio. Cofanetto Deluxe, Blu-ray, 3LP, 2CD. Dentro ci sono demo, filmati, cortometraggi. Ma soprattutto c’è The Machine Song, la prima bozza di Welcome to the Machine, portata da Roger Waters come un messaggio in bottiglia. È grezza, è fragile, è vera.

Simon Armitage ha scritto una poesia. Fielding ha dipinto. I Floyd hanno rimixato. Tutti, in modi diversi, hanno detto la stessa cosa: Syd era un diamante. Non perfetto, non eterno, ma luminoso.

E noi, cinquant’anni dopo, siamo ancora qui a guardarlo brillare.







giovedì 20 novembre 2025

Joe Walsh – 78 anni di assoli e ironia

 



Joe Walsh – Il graffio che ha cambiato il volo

 

C’è chi entra in una band e la segue. E c’è chi la trasforma. Joe Walsh, nato il 20 novembre 1947 a Wichita, non è solo un chitarrista: è un detonatore sonoro. Da quando ha imbracciato la chitarra, ha fatto del rock un linguaggio ironico, viscerale, narrativo. E quando nel 1976 è entrato negli Eagles, il volo è cambiato direzione.

Prima degli stadi, prima dei Grammy, c’era il James Gang. Tra il 1969 e il 1972, Walsh sperimenta, distorce, inventa. Album come Yer’ Album e James Gang Rides Again lo impongono come artigiano del suono, capace di fondere blues, hard rock e psichedelia con una chitarra che non accompagna: racconta.

Nel 1976, gli Eagles lo accolgono. E lui li accende. Con Hotel California, firma uno degli assoli più celebri della storia, in tandem con Don Felder. Da lì, la band si fa più ruvida, più teatrale, più rock. Walsh porta energia, sarcasmo, equilibrio. “La band era una dittatura democratica che funzionava”, dirà. E lui, con la sua chitarra, era il contrappeso perfetto.

Fuori dagli Eagles, Walsh non si ferma. Nel 1978, pubblica But Seriously, Folks…, con l’irresistibile Life’s Been Good, ritratto ironico della vita da rockstar. Nel 2012, torna con Analog Man, prodotto da Jeff Lynne. Collabora con Ringo Starr, Steve Winwood, Dan Fogelberg, e si unisce a supergruppi come The Party Boys. Sempre con quel tono: un po’ guascone, un po’ filosofo elettrico.


Walsh non suona: dialoga

  • I suoi assoli sono frasi musicali, non esercizi di stile.
  • Il talk box diventa voce aliena, come in Rocky Mountain Way.
  • I testi? Ironici, autoironici, sempre lucidi. È il ponte tra il rock classico e il country rock, tra tecnica e spirito ribelle.

A 78 anni, Joe Walsh è ancora lì. Sul palco, in studio, in onda. La sua voce roca, la sua chitarra tagliente, il suo spirito libero continuano a ispirare generazioni. Non è solo un membro degli Eagles. È il graffio che ha cambiato il volo.






20 novembre- Il sogno di Scott Halpin, batterista degli Who per un giorno



San Francisco, 20 novembre 1973. Una data che per molti fan degli Who rappresenta solo una tappa del tour americano di Quadrophenia. Ma per un ragazzo di 19 anni, arrivato dallo Iowa con il cuore pieno di musica, diventa il giorno in cui la realtà supera ogni sogno.

Quella sera, il batterista Keith Moon è visibilmente fuori controllo: tranquillanti, alcool, e un equilibrio precario. Dopo un’ora di concerto, crolla sul palco. Pete Townshend si rivolge al pubblico con una domanda surreale: Qualcuno sa suonare la batteria?”

Scott Halpin

Il fan che diventò leggenda 

  • 19 anni, originario di Muscatine, Iowa
  • Batterista amatoriale, fan devoto degli Who
  • Conosce a memoria ogni brano del gruppo 

Il momento irripetibile

  • Sale sul palco, si siede al posto di Moon
  • John Entwistle lo rassicura: “Vai via regolare, al resto ci penso io.”
  • Suona gli ultimi tre brani del concerto
  • Viene fotografato, intervistato, celebrato
  • Dichiarazione finale: È stata un’esperienza fantastica. Adesso posso anche morire… 

Il giorno dopo

  • Gli Who gli promettono 1000 dollari e una giacca del tour (rubata poco dopo)
  • Il San Francisco Chronicle gli dedica una recensione entusiasta
  • Halpin resta schivo sull’evento: “Ricordi confusi, vissuti in apnea.” 

Scott Halpin (1953–2008)

  • Musicista e compositore
  • Morto a 54 anni, ha lasciato moglie e figlio
  • Pete Townshend e Roger Daltrey inviarono le condoglianze alla famiglia 

La sua voce

Non ricordo molto. È successo tutto troppo in fretta.”

Intervista: http://www.npr.org/templates/story/story.php?storyId=5223059


Accadde quel giorno...







mercoledì 19 novembre 2025

Robert Plant e l’episodio di Our Song (1967)

 


 Prima dei Zeppelin, Plant trasformò “La musica è finita” in “Our Song”: marketing CBS, voce già leggendaria


Nel 1967 Robert Plant non era ancora il frontman conosciuto che avrebbe incendiato i palchi con i Led Zeppelin. Era un ragazzo della Midlands, un cantante che si faceva le ossa tra pub fumosi e band locali, passando da esperienze effimere come i primi Band of Joy (ancora lontani dalla formazione con John Bonham). La sua voce era già potente, grezza e magnetica, ma il mondo non lo conosceva ancora.

In Italia, il Festival di Sanremo aveva appena consacrato La musica è finita (Ornella Vanoni e Mario Zelinotti), un brano di Umberto Bindi, Franco Califano e Nisa che aveva colpito per la sua intensità melodica.

La CBS, gigante discografico americano, era in piena fase di “colonizzazione culturale”: pescava successi europei e li trasformava in versioni anglofone, sperando di replicarne l’impatto commerciale in UK e USA.

Plant, giovane promessa sotto contratto, venne scelto come voce da lanciare: un timbro ruvido ma capace di piegarsi alle esigenze pop-rock di un mercato che cercava nuove icone.

Fu così che la CBS gli affidò l’adattamento in inglese di La musica è finita, ribattezzato Our Song. Non una scelta artistica di Plant, ma un’operazione di marketing: un tentativo di trasformare la malinconia italiana in un prodotto radiofonico per il pubblico britannico.

Il singolo, insieme ad altri esperimenti come You’d Better Run e Long Time Coming, non ebbe grande fortuna commerciale. Ma oggi appare come un frammento prezioso: una testimonianza di un Plant ancora “in prova generale”, che si muoveva tra cover e tentativi discografici prima di incontrare Jimmy Page e cambiare per sempre la storia del rock.

Quell’episodio non è solo una curiosità da collezionisti: è la prova di come il destino di Plant fosse già scritto nella sua voce. Anche se incanalato in un progetto discografico artificiale, il suo timbro emergeva con forza, lasciando intravedere la potenza che di lì a poco avrebbe travolto il mondo.