Iniziare una nuova lettura nella
piena tranquillità della propria dimora fa pensare ad un momento di relax, da centellinare,
da gustare, prendendosi le pause tradizionali per riflettere. Certo, dipende
molto dall’argomento, e un thriller avvincente ci farà correre spediti verso l’epilogo,
al contrario di uno libro di storia, che ci obbligherà a qualche sosta in più.
La lettura di cui voglio parlare
oggi, iniziata molto tempo fa e terminata solo oggi - tanto da sentirmi a un
certo punto in dovere di tranquillizzare l’autore che sì, ci stavo lavorando -,
è stata molto faticosa e allo stesso tempo soddisfacente.
L’aggettivo “faticosa”, mi rendo
conto, diventa fuorviante senza una spiegazione minima… forse “impegnativa”
renderà più chiaro il mio pensiero che vado a snocciolare. L’argomento è di
tipo musicale, ma insisto ancora sulla modalità di approccio.
Trattasi di un libro suddiviso in
svariati capitoli - a memoria 48 -, ognuno dei quali ha richiesto da parte mia
carta, penna e cellulare. Ergo, mediamente un capitolo al giorno.
Vediamo perché.
Nonostante il mio lungo bazzicare nei
meandri della musica, con grande memoria per quanto è accaduto negli anni ’70,
vissuti nel pieno del mio splendore mentale e fisico, mi sono reso conto di…
non sapere nulla, un’ignoranza profonda che, forse, si giustifica con il fatto
che esiste talmente tanta musica - e il fenomeno non è mai scemato - che appare
più probabile una buona conoscenza specifica funzionale alla musica che più si
ama, piuttosto che una cultura universale.
Attenzione, non sto parlando di qualità
ma di quantità.
E mi è venuto in mente la sciocchezza
propinatami da un presunto musicofilo, molto più giovane di me - carico della
presunzione tipica del suo ruolo politico del momento - che, durante una
discussione, mi sbatteva in faccia che non esisteva nulla nel campo musicale
che io potessi insegnargli, mentre io, dopo averlo insultato, pensavo tra me e
me che ogni giorno inventato da Dio mi serviva per apprendere qualcosa di
nuovo, magari anche da un adolescente.
Tutto questo giro di parole/sfogo per
regalare la mia modalità di fruizione del capitolo
giornaliero: lettura attenta, segnalazione su di un pizzino del nome o nomi sconosciuto/i, utilizzo del
cellulare per inviare il promemoria alla posta personale e, per gli argomenti a
mio giudizio più interessanti, ricerca in rete degli artisti, successiva traduzione
dall’inglese all’italiano (evidentemente non sono l’unico che “non sa”, se del
musicista che cerco non esiste nulla nella nostra lingua) e proposizione nel
mio blog, con tanto di immagini e inserimento degli ascolti disponibili, con il
mio obiettivo di sempre, la condivisione.
Sveliamo il nome del libro e del suo
autore.
Trattasi di “ACID QUEENS-Viaggio tra le voci femminili della musica
psichedelica”, di Enrico Rocci,
rilasciato nel luglio 2021 da Officina di Hank.
A mio giudizio il titolo è un po’ fuorviante, perché sembrerebbe condurre esclusivamente verso le “donne della generica famiglia rock”, ma non è così, e le signore di cui si parla, frontwomen o meramente costole di un nucleo, emergono perché inserite in un contesto, a volte meravigliose protagoniste, ma non necessariamente.
Il vero collante è la psichedelia,
quel concetto che mi sono abituato sin dall’adolescenza a veder composto da
musica carica di effetti e contaminata da voci/rumori/frammenti poco ortodossi,
da luci colorate sparate in ogni direzione e, of course, dall’assunzione di sostanze
precise.
Immagine limitativa che, in ogni
caso, mi porto dietro da tutta la vita.
L’allargamento della coscienza alla
base del termine è evidenziato dalle parole dell’autore, che catturo in minima
parte:
“Psichedelia. Sostantivo singolare femminile. La via alla trascendenza, la chiave di accesso a uno stato di coscienza superiore spesso è una donna, celeste o meno. Ce lo ricordano tradizioni orientali, insegnamenti tantrici, culti antichissimi… e la prima voce che udiamo, quando ancora stiamo nel pancione della mamma, è quella di una donna, con tutta la dolcezza di cui è capace. Un tale imprinting rende più soave e ancestrale il viaggio della mente se a guidarci è il canto di una sirena”.
Il racconto di Rocci si snoda dagli
anni Sessanta ai giorni nostri ed ha una precisa collocazione per quanto riguarda la geografia linguistica. Scrive
l’autore: “Tra le pecche di questo libro di sicuro c’è l’aver descritto una psichedelia
esclusivamente anglofona. Anche quando ci si allontanava dalle bianche
scogliere di Dover o dalle terre d’oltreoceano, infatti, la lingua delle dolci
sirene era sempre l’inglese. Ed erano tanti i legami che continuavano a
ricondurre alla perfida Albione”.
In realtà qualche altra dislocazione spaziale, alla fine, viene proposta (Portogallo, Italia) ma è cosa certa che i grandi cambiamenti musicali hanno sempre avuto una sola lingua.
Non vorrei fare un lungo elenco degli
artisti inseriti nel book ma segnalo alcuni nomi che, dopo ricerca e ascolto,
mi hanno maggiormente sorpreso e, nel caso di band vissute in un ristretto
spazio temporale nel tempo in cui la tecnologia latitava, appare complicato trovare traccia
di tutto quanto raccontato da Rocci, che non si limita alla proposizione di
biografie, ma aggiunge aneddoti e suggerimenti per l’ascolto, con tanto di
commento personale.
Escludendo la super conosciuta Grace Slick e il mondo che l’ha circondata, la mia curiosità - e il conseguente approfondimento - è caduta, ad esempio, su Dorothy Moskowitz e i The United States of America, su Barbara Robison dei The Peanut Butter Conspiracy, su Nancy Blossom e i Fifty Foot Hose, su Barbara Hudson degli Ultimate Spinach (ma chi si ricordava del movimento "Bosstown Sound"!?), di Barbara Gaskin degli Spirogyra (ma questi li conoscevo bene!), di Gilli Smith dei Gong (anche questi mi appartengono da sempre!) di Celia Humphris e dei meravigliosi Trees, delle più note, Sandy Danny (Fairpot Convention) e Jacqui McShee (che ho conosciuto) e i suoi Pentangle, della strana storia di Linda Perhacs, di Alisha Sufit con i Magic Carpet, di Angela Naylor dei Caedmon, di Clodagh Simonds/Alison Bools/Maria White dei Mellow Candle… potrei proseguire per molte pagine, arrivando a tempi più recenti, ma spero che questi nomi, credo, non molto conosciuti, possano stimolare la lettura e l’ascolto conseguente.
Il libro è scritto in modo diretto,
chiaro, con un linguaggio molto “popolare”, nel senso che, almeno a me pare,
sia calato su una trattazione che potrebbe avvenire al di fuori della formalità
che la compilazione di un libro impone.
Grande l’ironia che Rocci mette in
campo e segnalo un piccolo esempio che mi ha colpito, in quanto Ligure, anche
se non sono certo sia da tutti comprensibile, ma il significato è sicuramente immaginabile.
Verso fine libro lo scrittore descrive la figura di Jane Weaver, che trova ispirazione per la sua musica dal vivere in una zona industriale e commenta: “Quelle centrali e la raffineria di Stanlow erano fantastiche per l’immaginazione, sembravano le enormi città metalliche di Blade Runner, terrificanti, e di notte splendidamente illuminate”.
Commenta sardonico Rocci a tal proposito: “Come dire che pure per i residenti di Busalla c’è la speranza di ricevere forti input creativi!”.
Il libro trova a metà percorso un set fotografico a colori che contiene 61 pics, e che diventa un ausilio per la ricerca e un completamento del viaggio che la lettura impone.
Enrico Rocci definisce “Acid Queens”
un libro da ascoltare e non posso che concordare, anche se nel mio caso è
diventato, anche, un contenitore da riscrivere, quantomeno da proseguire, perché
sono solo a metà dell’opera!
Imperdibile!