MILANO OLTRE POP-FLAVIO OREGLIO E STAFFORA BLUZER
Il titolo e il nome dell’autore/conduttore del progetto forniscono buone indicazioni a chiunque sia avvezzo all’ascolto della musica, senza fare grandi distinzioni tra esperti e occasionali: sarà facile immaginare un contenuto a base di sarcasmo e una certa concentrazione regionale, o forse cittadina, perché le scuole di pensiero e le “correnti” esistono e le attitudini locali si sono trasformante, nel tempo, peculiarità distintive.
Nelle note ufficiali Flavio Oreglio esorta
ad allontanare la nostalgia, perché le linee guida non risiedono nella voglia
di aggrapparsi al passato rivivendo in qualche modo la giovinezza ormai alle spalle: lo
spirito e lo sguardo sono rivolti al futuro.
Non me ne vorrà l’autore se mi
soffermo sul subbuglio dei ricordi che, brano dopo brano, mi hanno pervaso
mente e cuore.
Milano e il cabaret, comicità e
musica, ritrovi esclusivi e stelle luminose che prendono il via splendendo poi
per sempre. Anni lontani, Trenta, Sessanta, Settanta…
Non era la mia musica, non era il mio
mondo, eppure… le sonorità ti entrano dentro, i motivi trainanti diventano
tormentoni, le scenette e i loro protagonisti si trasformano in immagini culto da
venerare.
E mentre gli anni passano, si scioglie la rigidità giovanile, si incrementa l’onestà intellettuale e non si fa fatica a riconoscere che, oltre all’amato rock, esiste una musica che è diventata DNA, anche se non si è nati, come nel mio caso, a Milano, e nemmeno in Lombardia.
L’ascolto di “Oltre Pop” mi ha davvero toccato e, accanto alla bellezza intrinseca di ogni singolo atto, ho vissuto un’avventura itinerante, un viaggio nel tempo che mi ha riportato, ahimè, ad un mondo in bianco e nero che inesorabilmente ritorna, sollecitato da trame sonore assassine, che ci ricordano che la Musica è l’unità di misura del tempo che scorre.
Ma mettiamo da parte questa mia attitudine al ricordo nostalgico e proviamo a delineare un progetto molto partecipato che… rappresenta il secondo step di “Anima Popolare”, un work in progress coltivato sin dal 2017 con gli Staffora Bluzer.
Lunga la lista delle persone
coinvolte, tutte visibili nell’immagine di fine articolo - così come titoli e
autori - ma appare doverosa una citazione, quella rivolta a Roberto Brivio,
mancato recentemente a causa del covid e a cui l’album è idealmente dedicato.
Flavio Oreglio ci tiene a evidenziare
che non siamo al cospetto di un “tributo”, ma ad una rilettura di un repertorio
che ripropone la tradizione milanese, partendo dagli inizi dello scorso secolo, sino al crepuscolo dei Settanta.
Trattasi quindi un’opera di studio e
di ricerca che mette in mostra una liason tra cabaret e canzone d’autore, tra
comicità e coraggio propositivo.
Un altro forte ingrediente è estrapolato da un mondo che contiene uno dei forti amori di Oreglio - aspetto forse meno conosciuto -, quello per la musica progressiva, e per chi è abituato ad una sua veste televisiva precisa, risulterà una sorpresa trovarlo, ad esempio, nel fan club dei Jethro Tull.
Ma andiamo con ordine e proviamo a snocciolare i circa cinquantaquattro minuti di musica suddivisi in quattordici episodi.
Apre il disco “La canzone
intelligente”, ricordata soprattutto per le performance televisive settantiane
di Cochi e Renato.
Un nuovo volto per un indiscusso tormentone, con una intro molto “popular” a cui segue un modus più fedele alle origini che prevede, anche, la voce di Cochi Ponzoni; ma l’armonica del bluesman Fabio Treves ridisegna i contorni di una delle canzoni più iconiche scritte dal duo milanese e da Jannacci.
Con “Il Riccardo” (Gaber-Simonetta), la contaminazione diventa più evidente, perché accanto al nocciolo conosciuto - tra lirica e suoni - si inserisce l’ariosità delle trame prog, per merito in primis del “Maestro” Lucio “Violino” Fabbri, che spruzza profumo di PFM (in questo caso quella abbinata al nome di De Andrè). Tra gli ospiti l’autorevole Ricky Gianco.
Non ricordavo invece “Ma poi”,
di Walter Valdi, artista, autore di pièces teatrali e musicali in dialetto
milanese.
Una chicca con una base jazzata che mantiene un certo rigore antico e fedeltà verso il prototipo, riportandoci alle originali interpretazioni del mai dimenticato Fred Buscaglione. Poco importante il fatto che non fosse lombardo!
E che dire di “El purtava i
scarp del tennis” di Jannacci?
Lungo parlato introduttivo dal sapore
didascalico, una perfetta apertura che, attraverso il dialogo tra Oreglio ed
Enrico Intra, indica il percorso che, utilizzando il ricordo del Derby Club,
ripropone un brano storico ma con l’abito jazz, con una esilerante “traduzione simultanea” dal dialetto milanese.
Meraviglioso sarebbe un ascolto live!
Tra i guests Germano Lanzoni e Luca
Bonaffini.
Dalla coppia “Jannacci-Valdi” nasce “Faceva
il palo”, brano proposto con certa coralità, tra jazz e dixie, che ci
riporta alla New Orleans degli anni Venti.
Maestosità orchestrale che crea
atmosfera e allegria.
Ospite Paolo Tomelleri.
“El me gat”, di Ivan
Della Mea, è una delle più famose canzoni della mala in dialetto milanese e
vede la partecipazione del già citato Brivio, indimenticato membro de I Gufi.
Altro cambio di passo, con una spiccata commistione tra folk e prog che reinventa, musicalmente parlando, una canzone scritta negli anni Sessanta.
“Se l’è un cojon”, di
Brassens/Svampa/Amodei, è definita da Oreglio tendente ad una “filosofia minimalista”,
quella capace di regalare storia/giudizio/sentenza in un attimo di ermetismo
puro.
Godibile senza tanti commenti!
“Sorrisi e lacrime” vede
l’intervento dell’autore, Umberto Faini, che, stimolato da Oreglio, racconta la
genesi della canzone e l’importanza di un titolo, rappresentativo del sentiero
della vita.
Sullo sfondo il Derby, locale in cui le
lacrime diventavano, probabilmente, conseguenze dei sorrisi… le occasioni non
mancavano di certo.
Il dialogo diventa siparietto e preludio di una versione un po’ ska, con una forte atmosfera gioiosa e da balera che sollecita fortemente la memoria.
“El biscella” (D’Anzi-Bracchi) trova ancora l’ausilio di Faini ed è strettamente legata alla tradizione popolare, sia attraverso il folklore musicale che per le perle di saggezza che ne riempiono il tratto.
“La povera Rosetta”
riporta all’antica milanesità e, ancora una volta alla malavita locale. Brano
scritto ad inizio ‘900, narra la triste e reale vicenda di una giovane
prostituta morta a diciotto anni.
Arrangiamento meraviglioso per una canzone la cui essenza resta pura, nonostante l’iniezione di novità, capace comunque di mantenere la seriosità richiesta dal contesto.
Arriva ancora dalla tradizione
popolare “El magnan”, pregno di nobili ospiti (Treves, Brivio,
Alberto Patrucco e David Riondino), il disegno di una figura scomparsa, quella del
riparatore di pentole in rame, a contatto costante con le casalinghe dell'epoca e col rischio
di pagare spiacevoli conseguenze per le sue “divagazioni”.
Canzone antica che prende corpo e
vitalità attraverso arrangiamenti curati nei dettagli, e occorre pensare che trame
come queste potevano nascere dal minimalismo legato a chitarra/voce - o piano e
voce - e l'evoluzione proposta da Oreglio impreziosisce senza smarrire lo spirito iniziale.
Proprio “El magnan” avrebbe dovuto essere l’inizio di una collaborazione tra gli artisti succitati e Oreglio, tendente a riproporre “I Gufi”, ma la dipartita di Brivio ha ovviamente arrestato il progetto.
Con “La radio” arriviamo
a metà dei seventies, una bandiera della mia generazione creata da Eugenio
Finardi e Lucio Fabbri.
Pezzo sufficientemente modificato, con
un corale alpino nella intro e una sostituzione del violino originale con la
fisarmonica.
Comunque lo si proponga un must, per contenuto innovativo - almeno all’epoca - e variazioni sonore.
“Stranamore” è un brano del
’78 di Roberto Vecchioni, che partecipa anche a questa nuova stesura,
raccontandoci che sono tanti i tipi di amore - e i modi di amare - e anche
comportamenti incomprensibili ai più possono essere a loro volta una forma di
amore.
Non mi è dato di conoscere la motivazione della scelta delle varie tessere del puzzle ma questo penultimo atto dell’album appare molto attuale e particolarmente adatto al contenitore ideato da Flavio Oreglio.
A conclusione “Non c'è Milano”
(Covri-Canciani) che include la poesia di Alberto Fortis “Il sorriso del
Duomo” da lui declamata.
La celebrazione di una metropoli del
mondo proposta nell’essenza, nella semplicità, nei luoghi comuni, sbruffona,
nobile, popolare, in fondo bonacciona nonostante l’enorme - e per questo a
volte pericolosa - autostima.
Un disegno, un fumetto, un quadretto bucolico e poetico che rappresenta il miglior epilogo ad un disco emozionante.
Quando la musica finisce viene da
immaginare cosa sarebbe vivere l’ascolto di “Milano Oltre Pop” nel
locale giusto, con la gente adeguata, magari in una periferia dove il Derby possa
essere clonato, mentre Jannacci, Gaber e Brivio, dall’alto, con fare critico, osservano attenti e
chiosano che, probabilmente, loro avrebbero fatto diversamente, non meglio, non
peggio, ma in altro modo.
A me è piaciuto questo - di modo - l’ho
assaporato goccia a goccia, leggendo e rivivendo ogni singola storia.
Ho speso poche parole per Oreglio e la
band, privilegiando il progetto in toto, o forse dando per scontato che le competenze
in gioco siano altissime.
L’immagine di Flavio Oreglio è
probabilmente legata alla comicità televisiva, quella per cui è diventato
famoso e molti sanno del suo passato da biologo; skills varie, dunque, ma il
ruolo da musicista è preminente e pervade la sua vita sin dagli inizi e “Oltre
Pop” ne è una piena dimostrazione.
Massimo voto per un progetto imperdibile.