Ho un ricordo indelebile legato a Nunzio
Favia, per me - e credo per tutti - solo Cucciolo,
di mestiere batterista.
Per chi non lo conoscesse, la sua storia emerge
dall’intervista a seguire, ma la sua figura è per me legata ad un momento
particolare, un festival mitico organizzato dai The Trip a Cisano sul
Neva (Albenga-SV), luogo in cui provava normalmente la band.
Era il 1974 e avevo 18 anni.
Cucciolo era nell’occasione il batterista dei Trip, dopo Pino
Sinnone e Furio Chirico, che erano stati i titolari del ruolo equamente divisi
nei quattro lavori in studio, ed ora sarebbe toccato a lui, almeno per quel
poco di tempo in cui la band avrebbe proseguito l’attività. Il genere sembrava
perdere interesse tra i “frequentatori della musica”, e di lì a poco sarebbe avvenuto
un drastico cambiamento che avrebbe coinvolto tutti.
Da quel giorno Cucciolo ha proseguito con tenacia la sua
carriera ed è ancora molto attivo.
Ho provato a ricostruire con lui un po’ della sua storia, ma
alcuni degli episodi proposti rappresentano qualcosa in più del mero racconto
di vita, aneddoti che faranno riflettere e saranno di sicuro interesse per i
lettori.
Ti ho visto suonare quando avevo 18 anni, nell’occasione del
Festival di Cisano, ed era il 1974: come arrivasti alla corte di Joe Vescovi e
che ricordi hai di quell’esperienza?
Io andrai con i Trip proveniente dagli Osage Tribe, di cui ci
furono due versioni, quella storica con Marco Zoccheddu e Bob Callero e una
seconda che cercai di creare io con Red Canzian, che terminò quando partii per
il servizio di leva. Tornato dal militare, Joe, che già conoscevo, mi chiese se
potessi unirmi a loro, visto che Furio Chirico stava andando via. Io ero fresco
di congedo e non avevo progetti per le mani e accettati di buon grado. Questo è
il motivo per cui mi vedesti a Cisano; seguirono altri concerti, purtroppo in
concomitanza con lo scemare del progressive, e quindi considero quelli con i
The Trip gli ultimi eventi live legati a quello che al tempo chiamavamo “Pop”.
Ritrovasti Vescovi nei Dik Dik, dove hai suonato per molto
tempo: anche in questo caso ti chiedo di sintetizzare i tuoi ricordi e se hai
qualche aneddoto da raccontare.
In realtà fu il
contrario, fui io a far entrare Joe nei Dik Dik dove io arrivai nel ’74 e dove trovai
il tastierista varesino Roberto Carlotto, conosciuto con il nome di battaglia
di Hunka Munka; il tipo era un pò bizzarro, per cui proposi a Petruccio, Lallo
e Pepe di prendere arruolare il mio amico Vescovi, e loro, pur con qualche
riluttanza, si fecero convincere e andammo avanti con quella formazione sino a
quando Joe si unì ai Knife Edge, perché la convivenza con i “senatori” non era
facile. Onestamente ci fu un momento in cui Joe iniziò a creare dei problemi facendo
un po'… la prima donna, del tipo… se non aveva l’hammond non suonava, di
conseguenza non potevamo fare concerti in Sardegna perché trasportare l’hammond
era difficoltoso, e molti service si rifiutavano di trasportarlo, visto la
pesantezza, e quindi c’è stato un certo periodo in cui Joe era diventato un po’…
complicato. Probabilmente aveva altre cose nella testa, era un momento in cui
c’era per lui la possibilità di entrare nei Rainbow (andò via per un mese con
Cozy Powell, ma poi ritornò e quindi non si realizzò nulla), insomma, era un
po’ problematico e i tre “capi” volevano estrometterlo. Per farlo ci inventammo
(anche io partecipai al teatrino) che il gruppo si sarebbe sciolto, e lui si
dimostrò quasi soddisfatto, pronto ad iniziare il progetto con i Knife Edge, e
tutto finì lì. Ma non era vero niente! Non ci sciogliemmo, riprendemmo quel
pazzoide di Carlotto alle tastiere e Joe proseguì per la sua strada.
In una nuova
edizione dei Dik Dik, nell’86 (io poco prima avevo formato “Carlotto e Cucciolo
dei Dik Dik”) ripresero Joe, ma come “dipendente”, e in quella conformazione
organizzativa lo trattavano con poco riguardo, quasi una forma di rivalsa per quanto
accaduto in precedenza, cose del tipo… viaggio in cinque in un auto durante i
trasferimenti, mancata prenotazione di hotel, mal pagato, in aperto contrasto
col manager, sino addirittura ad arrivare ad una rissa interna. Joe mi chiamava
spessissimo ma io non potevo assumerlo nei “Carlotto e Cucciolo dei Dik Dik”,
primo perché mentre io avevo firmati tutti i contratti con i Dik Dik lui non ne
aveva siglato neanche uno, e non poteva quindi chiamarsi “ex dei…”; in secondo
luogo mi sarebbe costato molto, avrei dovuto aumentare il cachet ai committenti
e avrei perso dei contratti, per cui anche se ero tentato di suonare con lui
non mi sembrava una cosa praticamente realizzabile.
Il fatto è che gli
altri tre non lo sopportavano più, soprattutto Lallo, che dei tre è il più
razionale e buono.
Noi eravamo
musicisti completi, mentre i Dik Dik non hanno mai registrato un disco, come capitava
a tanti gruppi dell’epoca… moti gruppi si affidavano a turnisti: Gianni Dall’Aglio, Franz
Di Cioccio, Ellade Bandini, restando in topic “batteria”. Quindi non è un
pettegolezzo gratuito il mio, questa è storia!
Facciamo un passo
indietro: Come sei diventato batterista? Qual è stata la scintilla che ti ha
fatto innamorare dello strumento?
Ho iniziato prestissimo e a undici anni suonavo già ai
matrimoni a Bari e mi guadagnavo la paghetta, e non potrò mai scordare le 3000
lire a matrimonio, più i dolci e le rimanenze che potevo portare a casa! Chiaramente non avevo grossi studi alle
spalle, e quindi ho iniziato da autodidatta, innamorato di Ginger Baker. Per me
la musica leggera era un contorno, perché sono sempre stato innamorato del rock
in tutte le sue forme, e più era pesante e complicato e più mi piaceva, e ancor
mi piace. Il rock “leggero” non fa per me, i Kiss, ad esempio, non li sopporto,
così come molti gruppi super famosi… io amo i Dream Theater, i Tool; all’epoca
seguivo la Mahavishnu Orchestra perché c’era Billy Cobham, quindi sintetizzo
dicendoti che, seguendo il mio gusto personale, mi sono formato con i
batteristi rockettari.
Tu sei nato Bari, e quando sei venuto al nord per suonare eri
molto giovane: è stato un atto di coraggio, voglia di avventura, o avevi un
punto di appoggio che ti dava sicurezza?
Tutto quello che mi
stai chiedendo è racchiuso in un libro (con CD) uscito oramai sei anni fa,
esaurito - incredibile ma vero! - “Dal sud al rock”, con prefazione di
Franco Battiato e di Red Canzian.
Racconto la mia
storia ed evidenzio proprio quando, nemmeno sedicenne, arrivai a Milano e, come
facevano un po’ tutti, passavo le mie giornate sotto alla Galleria del Corso
chiedendo: “… volete un batterista?”, volete un complesso?”. Quando
trovavo qualcuno pronto ad accettare, e gli dicevo che gli strumenti erano a
Bari (a quei tempi un luogo visto come
irraggiungibile) mi mandavano a quel paese, e devo dire che per almeno un anno
è stata davvero dura… mangiavo una volta a settimana, vivevo in pensioni di
infimo grado, assieme a banditi e rapinatori… ero incosciente, o forse solo
troppo innamorato di questo “lavoro”, volevo suonare seriamente e non tornare a
Bari a spendermi per le cerimonie nuziali!
In quel periodo non
avevo alcun punto di appoggio, lo trovai dopo, grazie ad Herbert Pagani, devo
tutto a lui, dalla conoscenza con Battiato, Dik Dik e Ivan Graziani; io con
Ivan ho iniziato, e ricordo che a casa di Herbert ci dividevamo i panini e quindi
non era un momento facile, ma si lavorava anche in sala di registrazione, per
me una grande cosa, sino a poco tempo prima impensabile; negli ultimi dischi di
Pagani, compreso un album doppio del ’73 - “Megalopolis” - suoniamo io e Ivan,
con nostri arrangiamenti. Insomma, dopo quel primo anno di discreta difficoltà
sono stato fortunato e ho trovato gli appoggi di cui mi chiedevi in Herbert
Pagani, nella cui casa ho vissuto.
Hai dei “maestri”
che più di altri ti hanno ispirato?
Come ti accennavo Ginger Baker in primis, aggiungendo Mitch
Mitchell; di Billy Cobham ti ho detto - potente come dicono sia anche io, anche
se è dote naturale - e tutto questo fa riferimento ai miei inizi. Poi mi sono
messo a studiare i vari batteristi che via via conoscevo e che mi colpivano.
Non mi piacciono i drummer esclusivamente jazz, un genere che non mi prende,
che non mi ha mai appassionato e quindi non mi sono mai applicato nel proporlo.
Parliamo degli Osage Tribe?
Gli Osage Tribe li
abbiamo creati io e Battiato: un giorno, guardando il film “Il piccolo grande
uomo” - con Dustin Hoffman - con argomento l’infinita complicata relazione tra
indiani e cow boy - ci venne in mente di assumere questo nome per parlare
dell’eterna oppressione dei bianchi sugli indiani. Scoprimmo successivamente
che gli Osage erano dei “banditi”, dei venduti che uccidevano gli stessi
indiani, una sorta di mercenari, ma lo scoprimmo in ritardo e noi… avevamo
sbagliato tribù! Io avevo un adesivo di questi Osage che ho ancora è
appiccicato su una custodia di un tom, e resiste da oltre cinquant’anni!
Con Battiato
suonammo poco, il tempo di fare un 45 giri che fu poi la sigla di “Chissà
chi lo sa” - “Un falco nel cielo”- e poi uscì l’album, "Arrow Head”, e
lì lo sforzo fu enorme, sei mesi di prove, tutti i giorni, in un convento, l'Abbazia Belvedere di Genova, dove provavano molti altri (Garybaldi, New
Trolls), e lo registrammo in diretta, senza alcun artificio - “pronti e via”, e
quando si sbagliava una cosa si ricominciava da capo - alla Regson Zanibelli di
Milano.
Osage
Tribe- Nunzio
Favia, Red Canzian e Bob Callero
Cosa è accaduto nel periodo post DIK DIK?
Dopo i Dik Dik ho
continuato, ho vinto tre cause importanti al Tribunale di Milano, per l’uso del
marchio “Dik Dik”, soprattutto del repertorio; io giro come “Cucciolo by Dik
Dik “, o “… già Dik Dik”, o “… ex Dik Dik”, oltretutto ho acquisito anche il
marchio “La storia dei Dik Dik” e mi muovo così, feste di piazza, feste
patronali, novanta per cento al sud.
Ci sciogliemmo come
Dik Dik a causa di Dario Fo, senza alcuna lite, ma è una storia lunga che provo
a sintetizzare.
Dario Fo impegnò i
DIK DIK in quella che lui chiamava Opera Rock, che non era altro che “L'opera
da tre soldi” di Bertolt Brecht da lui rivisitata, e poteva contare su uno
sponsor incredibile, il Teatro Stabile di Torino, per cui nessun problema a
livello finanziario, con un impiego stratosferico di settanta persone, e fu
denominata “L’opera dello sghignazzo”.
Un mese per città…
Torino, il Brancaccio a Roma, insomma, un lavoro importante.
Nella
pubblicizzazione dell’evento il nome “Dik Dik” era preminente, e ad altri
importanti partecipati, come Nada, ciò non era gradito.
Un giorno, durante
le prove a Prato, al Teatro Fabbricone, nacque un problema grosso: Fiorenzo
Carpi, maestro di musica per eccellenza, contestò l’operato dei senatori dei
Dik Dik, inadeguati all’impegno, con Nada felice, che intravedeva la
possibilità di eliminare un nome ingombrante. Stavamo per lasciare il disturbo
quando sia io che il chitarrista Roby Facini, con noi da poco, ricevemmo una
proposta individuale, del tipo: “… se volete rimanere vi paghiamo bene, ma
apparite come musicisti singoli e non come DIK DIK…”. Accettammo.
Pietruccio se ne
andò per i fatti suoi, Lallo aprì l’ennesimo ristorante, e Pepe si mise a fare
l’impresario. Quindi ci sciogliemmo “informalmente”.
Dopo nove mesi, finita
la rappresentazione dell’opera, trovai alternative: prima accompagnai Umberto
Tozzi, poi feci tour all’estero e in Italia con Franco Simone, il primo tour
fortunato con Giuni Russo e poi ero spesso richiesto come turnista in ambito
rock, soprattutto in Grecia.
Nell’86 i tre Dik
Dik originari si riformarono, dopo che io avevo messo in piedi “Carlotto e
Cucciolo dei Dik Dik”, e accadde quello che ti ho raccontato parlando di Joe
Vescovi.
Quali sono i tuoi
progetti attuali e cosa pensi accadrà nel tuo futuro musicale?
Prosegue la mia
attività live, soprattutto nel su d’Italia, e continuo a prestare la mia opera
come turnista, in particolare in Grecia, come ausilio per cantanti locali - purtroppo
non rock - e quindi mi sono specializzato in questo ruolo. Ho cambiato un po’
il mio stile, ho studiato e oggi uso moltissimo il doppio pedale, moderatamente
anche nella musica leggera, per fornire nuove colorazioni. Questa è la mia
attuale attività - coronavirus permettendo - ed è quanto vorrei fare in futuro,
anche se credo che per molto tempo sarò bloccato, e al momento ho già perso
otto date che erano in programma al sud e che sono state annullate.
Grazie Cucciolo, e in
attesa di vederti dal vivo godiamoci una delle esibizioni che fanno parte
tutt’oggi delle tue performance sul palco.