Pietruccio Montalbetti è un nome che rappresenta qualcosa
di importante per quelli della mia generazione.
La mia fanciullezza
corrisponde all’avvento del beat e alla conseguente marea di 45 giri che
invasero la nostra vita, utilizzati in primis dai nostri genitori nelle feste
serene che segnavano quei giorni caratterizzati dal boom economico, mentre gli
anni ’60 volgevano al termine: il mangiadischi ebbe un ruolo fondamentale.
I gruppi italiani
facevano man bassa delle hits straniere, in un periodo in cui i diritti
d’autore non erano in alcun modo tutelati.
Decine di giovani band
emersero, ma solo alcune rimasero in evidenza grazie a qualche qualità in più e
magari a sporadiche apparizione nelle pellicole dell’epoca: The Rokes,
Camaleonti, Equipe 84, Corvi.
I brani coverizzati erano
personalizzati e reggono tutt’ora il confronto con gli originali, canzoni che
anche le nuove generazioni hanno nelle orecchie.
Tra i tanti ensemble
musicali ruolo primario hanno avuto i DIK DIK, che ricordo oggi, dal momento che
è appena uscito un album di Pietruccio Montalbetti, il chitarrista storico.
Ho ritrovato
Montalbetti alcuni anni fa, in veste di scrittore, commentando il suo “Io e Lucio Battisti”, e intervistandolo
ho scoperto il suo secondo amore, quello per i viaggi.
Ma la musica resta in
primo piano e il suo tributo al passato si sintetizza in questo fine 2017 con
l’album “Niente”, una raccolta di brani
dell’epoca, rivisitati e ammodernati, suonati dai migliori turnisti in
circolazione, impegnati nell'occasione presso lo studio “Musica Per Il Cervello“.
DIK DIK giustamente in
evidenza, con tre tracce storiche: “Io mi
fermo qui”, “Se io fossi un falegname”
e “Senza luce”, quest’ultima proposta
in modo originalissimo, con l’armonica sostitutiva dell’organo Hammond tipico
di Gary Brooker nella versione originale, “A
Whiter Shade of Pale”. Spazio per l’amico Battisti - e ovviamente Mogol -
con “Anche per te” e “L’aquila” - un omaggio indiretto a
Bruno Lauzi -, con una chicca che dà il titolo al disco, la versione italiana
di “Nothing but the whole”, di Jacob
Dylan.
Non poteva mancare l’immagine che incarna il Montalbetti itinerante, “Lo straniero”, conosciuta da tutti nella
versione di Georges Moustaki.
Ma ciò che a mio
giudizio rappresenta la sinossi dell’album è “I ragazzi della via Stendhal”, scritta da Ricky Gianco
appositamente per questo lavoro e interpretata, oltre che da Pietruccio e
Ricky, anche da Cochi Ponzoni, tutti e tre cresciuti assieme nella storica via
e anche compagni di scuola: dal mio punto di vista sufficientemente malinconica
e capace di far scendere la lacrimuccia a chi ha vissuto, almeno in parte, quel
periodo.
Un album piacevole,
l’ideale per sollecitare la memoria e per innestare in automatico lo spleen di
cui a volte si sente il bisogno.
Dice Montalbetti: “La musica non era nel programma nei sogni
della mia vita. Fin da piccolo
desideravo due cose: andare in giro per il mondo in solitario su una barca a
vela oppure fare l’esploratore. Il destino ha voluto che facessi il musicista,
per giunta di successo, non avevo quello che si definisce il fuoco della
musica, ma ciò che mi ha spinto era il desiderio di stare su un palco di fronte
alla gente, in fondo avrei potuto fare del teatro. Dei miei due sogni iniziali,
uno sono riuscito a realizzarlo velocemente e tutt’oggi grazie alla musica, fin
dall’inizio della mia carriera, realizzo il mio secondo sogno, per girare il
mondo in solitaria”.