Anderson è genio assoluto, affabulatore, incantatore, innovatore,
capace di rendere “rock” uno strumento prettamente classico come il flauto
traverso, un chitarrista acustico eccelso, un vocalist straordinario e la sua
voce, a ben vedere, è quella che manca di più ai fan sparsi nel mondo che,
forse solo a posteriori, si sono accorti dell’assoluta importanza di quella
timbrica calda e pastosa, insostituibile, che nessun aiuto artificiale potrà
riportare ai fasti iniziali.
Ian Anderson è anche un saggio e previdente uomo di affari – cosa che
quasi sempre è mancata alla giovani star degli anni ’70 – e credo
risalga già alla metà dei seventies il suo status di datore di lavoro della
band, ovvero lui il capo e gli altri stipendiati, con le naturali differenze di
compensi economici e di responsabilità.
Il gruppo è ancora molto seguito e anche in Italia esiste una cellula
primaria – di cui in qualche modo faccio parte – che prevede un fanclub
che ha a capo un Presidente – Aldo Tagliaferro – che è uno dei pochi con
cui il buon Ian ha instaurato un rapporto di salda amicizia, con tutti i
risvolti positivi del caso.
Impossibile riassumere una storia così complessa e una discografia
sterminata, e allora provo a ripescare un mio vecchio pensiero riguardante
quella musica che considero la colonna sonora della mia vita… il perché non mi
è chiaro sino in fondo, ma indagare sarebbe persino doloroso.
Potrei raccogliere numerosi aneddoti e svariate conoscenze personali per
descrivere i miei sentimenti, ma preferisco sottolineare un momento particolare
su cui ho riflettuto spesso, perché ogni volta che riascolto “My God”
– e mi capita con una certa frequenza – performata al festival dell’Isola
di Wight, mi nasce una domanda spontanea.
Per inciso “My God”, che considero tra le più belle canzoni rock
di tutti i tempi, fa parte di un album cult, Aqualung, che
consiglio a tutti i giovani che non hanno mai avuto l’occasione di accostarsi
alla musica dei Tull. Io ho provato in passato a diffondere il verbo, anche, con i
miei figli, e devo dire che non sono rimasti indifferenti.
E ritorno all’episodio a cui accennavo.
Era il 30 agosto 1970, una domenica non comune, e i Jethro Tull
anticipavano il set di Jimi Hendrix.
La manifestazione era già alla terza edizione, e molte altre sarebbero
arrivate, ma quella è l’unica che si ricordi con grande enfasi.
La band di Anderson era già conosciuta per effetto di un secondo album
strepitoso, “Stand Up” e quando salì sul palco, “Benefit”, il
terzo lavoro, era in circolo da alcuni mesi.
Ma il pubblico di Wight, almeno in quell’occasione, non era
numericamente parlando quello dei pub, dei teatri, delle realtà cittadine, ma,
more or less, 600.000 persone!
Mi è capitato di chiedere banalmente a Clive Bunker,
batterista in quell’occasione, cosa si provi a suonare davanti ad una muraglia
umana, e la sua risposta, altrettanto scontata, ha evidenziato la totale
“incoscienza da palco” che si innesca in quelle occasioni, quando mille o
centomila fanno poca differenza.
Quei giovani, hippies e amanti del nuovo che stava arrivando, imbevuti
dell’esperienze dell’estremo occidente musicale, avevano abitudini diverse,
fatte di rock più o meno duro, di folk, di country, di contaminazioni varie,
abituati a Hendrix e agli Who, Mitchell e Doors, Baez e Mody Blues, e forse non
avevano idea di cosa volesse dire trovarsi al cospetto di una band
sconvolgente, con un frontman unico che all’improvviso dava dignità rock ad uno
strumento a fiato, suonato alla Roland Kirk, soffiato, parlato, usato come
prolungamento dell’uomo e dell’artista, raccogliendosi su di una sola gamba.
Ecco, ogni volta che ascolto “My God” provo a mettermi nei
panni di quei ventenni di 48 anni fa, e mi piace immaginare il loro stupore,
per la novità e per la bellezza di un brano carico di significati, musicali e
lirici.
Sono passati lustri, tanti, e i Jethro Tull hanno cambiato ogni pezzo
usurato dal tempo, solo lui è rimasto al timone, Ian Anderson, l’antipatico,
l’illuminato, o forse tutto il contrario. Noi amanti della sua musica ce lo
coccoliamo, sempre pronti a ringraziarlo per quello che ha saputo regalarci:
essere riconoscenti è il minimo che si possa fare in questi casi!