L’intervista a seguire nasce nel novembre 2010 e finsce… oggi.
Incontrando alla prog Exhibition romana lo “spettatore” Jerry Cutillo - fu invece uno dei protagonisti l’anno successivo assieme a Maartin Allcock - leader
degli OAK e caro amico, concordai la
solita serie di quesiti che potessero permettergli - e permettermi - di fare il
punto della situazione su svariati argomenti, dall’album a quei tempi fresco
sino ai progetti futuri, passando per Ian Anderson e quei Jethro Tull che
proprio il 28 settembre sono stati celebrati nel corso della XV Convention ITULLIANS, manifestazione
di cui parlerò a breve. Jerry si è preso… tre anni per rispondermi, ma il risultato
è una dettagliata analisi di un particolare mondo musicale, documento che lui ha
accuratamente aggiornato rendendolo attuale anche a distanza di tempo. Di fatto
la risposta ad alcune domande è arrivata nello scorso mese di agosto, ma valeva
la pena aspettare, Jerry non si nasconde
ma applica la più totale trasparenza di pensiero.
Le risposte sono di dimensione oceanica e solo in questo spazio
- e nel blog de ITULLIANS (http://itullians.blogspot.it/)
- sono presentate per intero, mentre
una sintesi troverà spazio nel prossimo numero di MAT2020 (www.mat2020.com) e forse in un libro di
prossima uscita.
L'intervista
Ho sentito
il tuo “Shaman feet” e ho letto le collaborazioni “da paura”, da David Jackson
a Jonathan Noyce, da Glenn Cornick a Maartin Allcock. Mi racconti qualcosa di più di questo lavoro ?
“Shaman feet” è nato
dalla volontà di presentare suoni provenienti da paesi lontani e sconosciuti al
grande pubblico. Stimolato dalle risonanze degli artisti siberiani, provai anni
fa a contaminare le mie composizioni con elementi che si discostavano
radicalmente da quelli del mondo pop. Dopo la realizzazione di una serie di demo,
prodotti nel mio home studio, vi furono dei primi tentativi di registrazione delle
basi ritmiche di alcuni brani, ma i risultati non furono apprezzabili. Assorbire
e padroneggiare quei tempi complessi e geometrici, programmati come base di arrangiamenti
altrettanto articolati, non era affatto semplice. Così seguirono nuovi mesi di
lavoro ed infine, immerso nella campagna romana nella quiete del “wolf studio”,
Michele Vurchio registrò con successo le basi ritmiche di buona parte dei brani.
Il lavoro poi continuò nello studio di Mark Leigh, sound engineer dei Fairport Convention e pian piano il
progetto si avviò a conclusione. A Banbury (UK), mi raggiunse David Jackson dei
Van Der Graaf Generator per suonare i sassofoni su “My old man” e “Baba Gaia”.
Nella prima delle due tracks, quella dedicata alla memoria di mio padre, Dave interagì
molto intensamente con l’atmosfera del brano poiché era reduce anch’egli da un
lutto in famiglia. Poi nei giorni seguenti arrivarono a dare il loro contributo
anche Maartin Allcock e Jonathan Noyce ed infine, sul brano “Siberian man”
versione OAK dell’Andersoniana “Fat man”, un altro ex Tull, Glenn Cornick, suonò
il basso. Anche Tanja Tagaq e Alrik Qam, cantanti siberiani, arricchirono le
strutture vocali dei brani registrando nei loro studi e spedendomi poi i files.
Con Sonja Kristina (Curved Air) invece, ci fu un imprevisto e la sua partecipazione
sfumò. La collaborazione con lei però fu soltanto rimandata e si è materializzata
di recente nel concerto di Halloween “Demons of Prog” dove Sonja ha espresso il
meglio delle sue qualità vocali inserendosi in maniera superlativa nel sound
della nostra band.
Ciò che hai
compiuto con questi grandi musicisti ha presupposto anche un loro intervento
dal punto di vista compositivo, o sono stati più utili gli interventi in fase
di arrangiamento ?
David arrivò in studio motivato e con un paio di proposte pronte
per essere realizzate. I fugaci interventi di whistle all’inizio di “My old man” ad esempio, sono sue
intuizioni (deve aver seguito la pista del western all’Italiana con quelle
tipiche frasi alla Morricone) e poi nel finale dello stesso brano si sperimentarono
altre soluzioni. L’impeto dei fraseggi conclusivi sta a rappresentare lo
scontro generazionale tra padri e figli e le frasi ritmiche, apparentemente
disarticolate e deliranti, sono state ricostruite con precisione in sede di post produzione insieme al ruggito
dei sassofoni di David e alla rabbiosa sei corde di Iacopo Ruggeri. Una cosa
che mi colpì di David fu la sua risposta quando lo invitai a suonare, sul
finale dell’altro brano “Baba Gaia”,
qualcosa con due sax contemporaneamente (stile che aveva ereditato da Roland
Kirk). Senza indugio imbracciò i suoi strumenti e con un ghigno diabolico mi
disse: “and now… let me call my Demons
back” e lì capii di che pasta fossero i Van der Graaf Generator! Del
contributo di Maartin Allcock vorrei ricordare invece lo stile con cui ha illuminato
tracce come “Koongoorei”, “Shaman fire” e “Forest cathedrals” (il brano dedicato a Julia Hill, un’ecologista americana rimasta due anni in cima ad una sequoia
per scongiurarne l’abbattimento ad opera delle multinazionali americane del
legname). Anche Jonathan Noyce aveva manifestato il suo interesse per “My old
man” in occasione di un nostro concerto in Spagna, perciò mi sembrò naturale invitare
anche lui a parteciparvi. Si rivelò molto utile ascoltarne i suggerimenti d’arrangiamento
e illuminante sentirlo suonare ogni singola nota che si rivelava poi all’ascolto
della registrazione nitida e impeccabile. Per chiudere il cerchio vorrei ricordare
anche il prezioso contributo del nostro bassista Mauro Delorenzi, dal ’98 con
il nostro gruppo, del percussionista Rendy Di Gennaro, della celeste di Antonio
Orlando e della 12 corde di Giorgio Clementelli. Insieme a loro ho potuto
esprimere al meglio tutte le mie potenzialità curando il profilo ritmico di 4
brani, gli arrangiamenti di chitarre, tastiere e flauti nonché le parti vocali
e i testi.
Nell’album
si conferma il tuo piacere nel lasciarsi contaminare da differenti culture e da
etnie particolari. L’essere attratto da una determinata musica è spesso fatto
irrazionale, ma… cosa realmente ti fa stare bene nel proporre (e rielaborare)
suoni e trame inusuali, radicate in stili di vita che non ci appartengono dalla
nascita ?
Il singolare interesse che talvolta manifestiamo rispetto
a qualcosa che apparentemente non ci appartiene ha una motivazione misteriosa. Forse
è casualità, forse predestinazione o forse sono intuizioni inconsce che ci orientano
dove non avremmo mai osato. L’arte non è archeologia ferma sulle tracce del
passato ma pura sperimentazione ed è sempre necessaria una grande mobilità per
trovare nuove fonti d’ispirazione. Cosa c’è di più stimolante, del conoscere il
mondo e raccontarne suoni e forme condividendone percezioni e colori con
persone di uguale sensibilità? I linguaggi sono molteplici, ma il significato è
sempre lo stesso. Ed è soltanto la diffidenza che ci tiene lontani gli uni
dagli altri. Non riesco proprio a immaginarmi un approccio diverso che non sia
quello di comunicare e condividere qualcosa che appartiene a tutta la specie
umana. Ho ancora vive le immagini quando, da giovane progger, mi avventuravo
alla ricerca di note e vibrazioni. Ricordo la serenità di Don Cherry seduto a
gambe incrociate nei corridoi del backstage del Palasport con la famiglia al
completo (inclusa la piccola Nenè che si reggeva a malapena sulle gambe) che
strimpellava la sua Kora prima di entrare in scena o il sorriso che mi rivolse
Stomu Yamashta quando mi si trovò davanti nel passaggio interno riservato agli
artisti del Tenda a Strisce, io curioso adolescente con l’abitudine di
intrufolarmi dovunque e Loro creature appartenenti ad una stirpe di artisti
illuminati vibranti con tutto e tutti.
Ci riassumi il percorso che ha portato alla genesi degli OAK ?
Quando iniziai l’avventura degli OAK avevo già maturato
quasi 20 anni di esperienze musicali professionali. I miei primi spettacoli con
un artista affermato risalgono infatti al 1975, quando Mino De Martino, ex
componente dei “Giganti” e con Battiato del “Telaio Magnetico”, mi prese con sé
nel suo progetto “Albergo Intergalattico Spaziale”. Poi, in qualità di
cantante/compositore, firmai nell’81 il mio primo contratto con una casa di
produzione discografica dove ebbi la fortuna di lavorare con session men come
Roberto Gatto, Marvin Johnson, Marco Rinalduzzi, Walter Martino, Dougie Meakin,
Franco Ventura e molti altri. Spesso ero impiegato anche come
arrangiatore poiché, essendo già polistrumentista, riuscivo a realizzare idee
musicali con notevole rapidità. Erano gli anni dei recording studio e in
compagnia di esperti produttori (Marco Lecci, Giulio Albamonte e i fratelli
Calabrese) scoprivo le tecniche della registrazione. La mia era un’attività a
tempo pieno e le giornate erano tutte impegnate in ascolti, incisioni o
missaggi senza alcuna preoccupazione sulle eventuali prospettive live (in quei
primi anni ‘80, con l’avvento dei video musicali e delle altre nuove forme di
promozione, le uscite dal vivo per gli artisti erano sensibilmente diminuite e
divenute di fatto marginali). Quegli anni trascorsi negli studi della “Pollicino
& company” furono un periodo molto formativo e mi predisposero al seguente successo
commerciale. Nell’anno 1985 i brani “We
Just” e “Our Revolution”,
prodotti insieme ad un’ equipe di primo piano formata da Romano Musumarra,
Mario Tagliaferri e Gianpaolo Bresciani, balzarono ai primi posti delle
classifiche europee e mi proiettarono sugli scenari internazionali. Col nome
d’arte di Moses (nickname affibbiatomi da quella simpatica canaglia del manager
Lo Celso) ero spesso ospite nei maggiori
palinsesti europei dove
condividevo gli studi televisivi con star di prima grandezza. Ricordo i
Jefferson Starship all’uscita del loro album “We built the city of R&R”,
Elton John e la sua “Nikita”, i Simply Red al lancio del loro hit “Holding
back the years”, gli A- HA, i Pet Shop Boys e tantissimi altri. Dagli autori di
“West end girls” ricevetti grandi apprezzamenti al termine della mia
performance negli studi olandesi di “Top of the Pops” e proprio da loro appresi
della popolarità che il mio disco aveva raggiunto anche nel Regno Unito. Ricordo
che “We just” fu prescelto anche come
sigla di Discoring, il più noto programma musicale della TV italiana. Nonostante tutto però, devo confessare di
essermi sentito più confuso che felice nel cavalcare l’onda di quel successo. I
suoni prog delle mie prime esperienze, le interminabili jam psichedeliche con
Mino, il jazz rock fine anni ’70, la seguente rabbia punk/new wave ed il
fascino delle avanguardie Kraftwerk e John Foxx mi ribollivano dentro. I tempi
però erano cambiati e la musica, in seguito all’esplosione della dance made in
Italy, risuonava principalmente nelle discoteche. I ritmi erano più incalzanti
e le sonorità dirette e minimali. Il look poi era divenuto una componente
essenziale per il successo di un artista (ma… diciamocelo, lo era sempre stato
anche in tempi non sospetti) e le fasi di produzione artistica avevano subito
una notevole accelerazione, dettate come erano da nuove strategie di vendita. Anche la formula “gruppo” era sulla via del
tramonto e i solisti dominavano le scene. Anch’io, quando mi trovai a fronteggiare pubblico ed
establishment discografico, lo feci in perfetta
solitudine ma con malcelata tristezza. Tutti questi fattori mi causarono una
sensazione di non appartenenza a quegli anni ’80 (ma anche rileggendo vecchie
interviste di un’esordiente Ian Anderson ad esempio, traspare una stessa
sensazione di disagio. I suoi anni ‘60/’70 di cui lui non sopportava usi,
costumi e raduni live, finendo però col costruire il suo successo grazie a
quegli eventi che muovevano folle oceaniche di potenziali consumatori). Tornando
comunque agli OAK, fu agli inizi degli anni ’90 che considerai seriamente l’ipotesi
di resettare tutto e scrivere daccapo la mia storia artistica. E ciò avvenne
esattamente nel novembre del ’93 in compagnia di un giovane e talentuoso chitarrista
appassionato di musica grunge, Iacopo Ruggeri. I brani del nostro cd d’esordio
avevano una tipologia Rock/Folk/Psichedelica e presentavano un’originalità
molto spiccata, ma le spire della covermania avevano già cominciato a dipanarsi
minacciosamente e quando l’emittente Radio Rock si fece promotrice di una serie
di spettacoli che avevano come protagoniste le neonate tribute band, anche gli
OAK accettarono una simile consacrazione. Tra i ricordi del nostro esordio c’è
la prima intervista alla radio dove il dj Prince Faster ironizzava su come ci
fosse venuto in mente, nel 1993, di puntare su i Jethro Tull (in quegli anni
caduti in disgrazia) come materia di tributo. Nonostante però i toni
dell’intervista, quel pomeriggio suonammo in diretta radiofonica tre brani di
mia composizione e fortunatamente le reazioni degli ascoltatori furono positive.
Tuttavia il declino artistico era già cominciato e dalla scala dei processi più
nobili lo sforzo creativo regrediva schiacciato dall’avanzare di gruppi impegnati
univocamente in sterili repliche dei classici. Inoltre gli aspetti evocativi delle
performance predominavano e supplivano alla mediocrità dei figuranti. Certo, devo
ammettere che il carisma e lo stile di Ian Anderson sono stati in passato fonte
d’ispirazione anche per me. Ma aver successo emulando un altro artista, per
quanto bravo sia, non può rappresentare un traguardo. Ho sempre cercato di
esprimere personalità e autoironia nelle mie rappresentazioni Andersoniane e i
vani tentativi di altri tribute men che perseverano nel tentativo di somigliare
il più possibile al proprio eroe, sia Superman o Zorro, mi lasciano interdetto
(anche se è divertente vederli mentre si sgambettano, chi con la spada troppo
corta, chi col mantello da supereroe…). Anche Anderson e Barre sembrano
decaduti a ruolo di copie di se stessi e la sensazione che ho avuto nei loro
recenti spettacoli è che ad entrambi manchi qualcosa. Ad Anderson sicuramente la
voce e i suoi funambolici stage act (nonché un gruppo all’altezza), a Barre invece
l’inimitabile componente acustica e spettacolare fornita da un front man come
Ian che rivestiva il ruolo di cantante, show man, chitarrista, flautista etc. Nei
concerti della band Martin Barre’s new day c’è un tale affollamento sul palco
che spinge a riflettere che per fare Ian Anderson (ovviamente quello dei tempi
migliori) ci vogliano almeno tre elementi! Dan Crisp ha una voce interessante e
interpreta i brani Tull con grande personalità ma la carriera di questo giovane
musicista che scrive canzoni verrà messa a rischio col perdurare di queste sterili
performance. Le sabbie mobili di un passato che non lo riguarda potrebbero finire
col soffocarne creatività e prospettive. Sono stato a Cropredy quest’anno
ospite in un concerto di Maartin Allcock e fortunatamente di Jethro non se n’è
parlato. Al contrario Barre ha
rinvangato più di un brano di Anderson suonandoli tutti però in maniera poco
convincente. Sembrava stesse raschiando il fondo del barile per trovare
qualcosa da proporre al pubblico. Un altro giovane estroso che rischia di
oscurare la propria luce è il chitarrista Florian Opahle. Mi sembra insensato che
debba mettere il proprio talento al servizio di una causa persa e bruciarsi così
gli anni migliori. Sicuramente le motivazioni sono di origine economica perché
a tutt’oggi il flautista scozzese riesce comunque a realizzare tour
internazionali nonostante l’assenza di voce, la mancanza di nuove idee e una
band amatoriale alle spalle. Nel suo recente concerto romano era con un sospiro
di sollievo che seguivo l’avvicinarsi del flauto alle labbra, sollevato dal
fatto che ci avrebbe risparmiato quei rantoli vocali per qualche minuto.
Sarebbe proprio il caso di dire: “Troppo vecchio per cantare, troppo giovane
per morire”. Ma perché non aprirsi completamente ad un nuovo percorso di sola
musica strumentale ? Ci ha provato ma senza risultati apprezzabili? L’eredità
Tulliana è più redditizia? Questa auto-indulgenza sorprende quelli come me che
conoscevano Anderson come un grande perfezionista, sempre vigile al controllo
di ogni aspetto della sua musica e sin troppo esigente con sé e con gli altri.
Come può allora permettere un simile declino ? Non ne è forse consapevole?
Mi racconti
qualcosa dell’evoluzione della line up degli OAK, dal 2008, anno in cui ti ho
conosciuto, a oggi ? Che cosa ricerchi attualmente nei musicisti che ti
circondano?
Nel 2008
festeggiammo il 15° anniversario della nascita del gruppo con alcuni spettacoli celebrativi ma le presenze sul
palco, sebbene numerose, non rispecchiarono tutto il tracciato degli OAK. Molti
dei musicisti appartenuti alla band infatti non furono disponibili per
testimoniare lo sforzo che soprattutto le prime formazioni realizzarono per
affermare il gruppo nei primi anni ‘90. Negli attuali spettacoli per i 20 anni stiamo
invece presentando il meglio degli OAK con avvicendamenti sul palco che riflettono
maggiormente i capitoli più salienti della nostra storia. Passando alla tua
seconda domanda, quella riguardo alle componenti più ricercate dalla nostra
band, posso affermare che gli OAK hanno sempre puntato ad un livello
qualitativo accettabile oltre che ad una sufficiente dose di continuità. Ma come
spesso accade ai gruppi longevi, abbiamo anche noi sofferto dell’alternanza di
momenti brillanti e professionali con altri più dilettanteschi. Le cause di
quest’ ultimi sono da attribuire alla volontà di non perdere mai il contatto
con il pubblico (la mia tendenza a produrre musica ha finito troppe volte per
assorbirmi allontanandomi dal palcoscenico) anche se poi a fronteggiare
l’audience ci si trovava con line up più che discutibili. Ma per finalizzare
obiettivi live, oltre che discografici, sono necessarie tecnica, talento,
esperienza, entusiasmo e creatività e quando non c’è presenza neanche di due di
questi elementi si va in crisi e non si sa più se rinunciare all’obiettivo o
provare ad andare avanti comunque. Per preparare uno spettacolo professionale
sono necessarie lunghe e laboriose fasi di studio che, quando non sufficientemente
produttive, rischiano di innescare un senso di frustrazione in personalità molto
sensibili. E’ comprensibile quindi che qualcuno decida di seguire la propria strada
perché nel cuore di ogni vero artista c’è sempre un forte attaccamento alle
proprie idee e questo spirito va preservato altrimenti tra 20 anni, quando non
ci saranno più i Peter Gabriel, i Paul Mc Cartney… ma anche i Depeche mode o i Radiohead,
il buio calerà inevitabilmente. Sostengo
anch’io che il futuro della musica è nelle mani di quegli artisti che dedicano
la loro vita al processo creativo esplorando nuovi territori sonori, formule
armoniche e telai ritmici inconsueti, melodie accattivanti e linguaggi inediti.
In un incontro con Gianni Nocenzi ex BMS, si discuteva, a tavola con Richard
Sinclair e Maartin Allcock, sulle cause che spingessero l’artista a diventare
sordo al richiamo del palcoscenico (Gianni ha rotto il suo silenzio soltanto in
occasione del meeting di primavera a Castiglion del Lago un anno fa). Quanto
emerso fu un profilo veramente misero dell’attuale situazione musicale e per un
artista come Gianni l’unica soluzione sembrava essere quella del ritiro dalle
scene. Ma è paradossale che debbano essere i veri maestri a tacere e
inabissarsi, mentre grappoli di incauti musicisti rumoreggiano sui palcoscenici
in preda a sindromi da ultima spiaggia, a febbri terminali causate da troppe
occasioni perdute, attratti dalla scia di quel treno che non solo hanno perso
ma che non hanno neanche mai visto passare, neanche da lontano! Ironizzando un
mio amico osservava: “Da quando hanno chiuso i Circoli Bocciofoli, come terapia
anti-invecchiamento ci si compra una chitarra e si fa la cover band”. Anch’egli
si riferiva certo a quel sottobosco di pensionati irrequieti che, mescolando
vicende rock con favole inventate di sana pianta e con al loro seguito nuclei
parentali allargati, colleghi di lavoro, condomini, compagni di calcetto, amici
di scuola ritrovati e non, vanno ad ingrassare i gestori dei locali sensibili
soltanto al calcolo delle consumazioni di cibo e bevande effettuate. Questi
ultimi perseverano nella convinzione di far divertire i musicisti con il loro
lavoro mentre in realtà sono gli artisti che forniscono loro la materia prima e
li fanno campare…e troppe volte a loro spese. Nei live club si continuano a
dettar regole che finiscono col compromettere l’esistenza di chi vive di
musica. E queste scorie, sedimentate negli anni, hanno generato anche il deprimente
fenomeno delle “tribute bands delle Tribute Bands”. Le potenzialità di un
gruppo musicale devono essere assecondate con investimenti a lunga scadenza
perchè è soltanto con il lavoro di preparazione per un nuovo album insieme ai
concerti che ne consacrano poi l’eventuale successo che il musicista raggiunge la
reale consapevolezza del suo status di artista. A tutto ciò possono poi
contribuire anche le anticipazioni dei giornalisti con recensioni e anteprime
che possono indirizzare le scelte del pubblico. Tuttavia è più che probabile
che la vera latitanza sia dalla parte degli ascoltatori! Sì, perché ascoltare è
un’arte ed oggi invece suonano tutti ma nessuno ascolta. Inoltre ci si è
abituati ad ambienti rumorosi dove il brusio ed un sottofondo di piatti e
stoviglie fa da background alle performance. Con l’avvento delle nuove
tecnologie quindi e il calo della soglia della ricettività, tutti possono suonare
tutto ma quasi mai in modo convincente. Ne sono prova anche le improbabili performance
su You tube alle quali anche gli OAK hanno pagato pegno con quelle immagini
miniaturizzate raffiguranti cadaveri anonimi in cerca di pochi minuti di notorietà.
Certo, l’importanza del web non va discussa ed è sicuramente innovativo poter
esprimere e divulgare il proprio messaggio con rapidità ma valanghe di
indistinte proposte virtuali, spesso sin
troppo auto indulgenti, possono disorientare e far perdere interesse all’ascolto.
Non mi identifico affatto con i maniaci del virtuosismo, al contrario ho sempre
esaltato il lato umano dei musicisti ammirandone il talento anche se privo di
esperienze formative, però quando ci si imbatte in personaggi che non hanno mai
messo piede in uno studio di registrazione o non sono mai saliti su un
palcoscenico professionale (nonostante l’età
avanzata) o che hanno operato le loro scelte tardivamente e che
nonostante i propri limiti si compiacciono in atteggiamenti di presunzione… beh…
allora diventa veramente difficile continuare a sperare per le sorti della
musica. Tornando alla tua domanda sulla definizione degli OAK, l’immagine che mi
viene in mente per descriverne il profilo è quella di un nucleo artistico-operativo
riuscito a salvaguardare il proprio dna assicurandosi così sopravvivenza e
futuro. Intorno ad una parte più interna ruotano però molti altri musicisti
(attivi anche con altre band e liberi da qualsiasi vincolo) che contribuiscono di
volta in volta alle realizzazioni dei vari obiettivi. Questa è la formula che si
è rivelata a noi più efficace. Più che a un’entità circoscritta e fine a se
stessa quindi, preferirei pensare agli OAK come ad un nodo aperto, di
riferimento per artisti con potenzialità ed ambizioni. Il modello di
riferimento, in tutta umiltà e con le dovute proporzioni, potrebbe essere la
scena di San Francisco fine anni ’60 o la scuola di Canterbury anni ’70, dove si
operava in un regime di reciproco scambio partendo però da una stessa filosofia.
L’impostazione da “gruppo aperto” è stata salutare alla nostra band e ci ha
permesso di affermare la nostra musica e diffondere quella del nostro gruppo
preferito partendo 20 anni fa da una città avara d’iniziative come Roma. Inoltre
la constatazione che tutto ciò sia avvenuto senza logiche associative o aiuti
da parte di organizzazioni, enti, strutture, fondazioni etc… non è un
particolare irrilevante. E quando apprendiamo notizia di nuove band al debutto,
alcune delle quali formatesi anche in seguito alla militanza nel nostro gruppo,
siamo felicissimi e auguriamo loro un lungo e ricco percorso artistico. Un
altro dei temi più ricorrenti relativi alle dinamiche interne dei gruppi è quello
della necessità o meno di una figura guida. Le elucubrazioni di qualcuno hanno poi
anche tracciato un improbabile parallelo tra il mio ruolo negli OAK e quello di
Ian Anderson nei Jethro Tull (arrivando a scherzare su un mio presunto profilo da
despota cinico e senza scrupoli, tipico del peggior Anderson, mentre io mi rispecchio
maggiormente in un personaggio come Jerry Garcia. Ma questa è la pochezza
dell’attuale scena musicale nostrana che non può far altro che creare falsi
mostri.) Sono
convinto che la definizione delle funzioni all’interno di un gruppo debba avvenire
in maniera spontanea. Ogni idea ha una fonte nativa che necessita poi di una
forza persuasiva e coesiva. Il ruolo di leader non viene mai scelto dallo
stesso ma da altri che ne predispongono la guida al timone. Poi non sempre i
gruppi rispecchiano le caratteristiche delle proprie figure di riferimento. Molte
volte accade invece il contrario; ci si adatta a esigenze, limiti e possibilità
di altri flettendo metodiche e tempi di lavorazione. Non è trascurabile anche
il fatto che, lavorando sempre in regime di assoluta libertà, nella maggior
parte dei gruppi ognuno è libero di disimpegnarsi nei tempi e nei modi a sé più
confacenti. Spesso quindi non c’è alcun vincolo contrattuale che possa
dissuadere qualcuno dal prendere decisioni unilaterali anche se devastanti per
le sorti di una band.Per concludere vorrei accennare anche ad altri aspetti sull’attività
di un gruppo. A volte ad esempio, c’è il rischio che situazioni d’incompatibilità
possano essere destabilizzanti e allora in qualità di leader bisogna porvi
rimedio assumendosene tutta la responsabilità. Le reazioni poi dei soggetti
allontanati possono essere a volte anche molto inquietanti! Per cui, in base a
questa analisi più attenta, il concetto di leadership non può certo considerarsi
una posizione privilegiata. All’interno
degli OAK vi sono forti legami di amicizia. Fiducia e rispetto ne rappresentano
le linee guida e l’atmosfera dei nostri ultimi concerti ne è la prova. Siamo felici
perché a distanza di tempo anche le vicende più critiche ci fanno sorridere
(eccetto quei rari casi da lettino di psicanalisi) ed è gratificante apprendere
il fatto che gli OAK rappresentano per qualcuno la cosa più rilevante e
produttiva della propria storia musicale.
Mi ha fatto
enorme piacere vederti a Roma, assieme a Lincoln Veronese, ricordando che in
passato avete suonato assieme musica Jethro, suppongo in maniera poco agevole,
vista la distanza tra Venezia e Roma. Che ricordi hai di quei giorni ?
Con Lincoln ci incontrammo per la prima volta nel ’98 in
occasione della terza Convention dei Tullians. Ricordo che fu lui ad aprire la
kermesse eseguendo buona parte di “Taab”
con il solo ausilio di una base midi. Al termine della serata, che vide altre
bands tra cui i Beggar’s farm e poi gli OAK che conclusero la Convention insieme a Glenn
Cornick e in alcuni brani anche Clive Bunker, Lincoln mi espose la difficile
situazione musicale nella sua regione, il triveneto. Simpatizzai con lui
perché, nonostante avessi gli OAK già da 5 anni, conoscevo bene quel genere di
problematiche. Avevo avuto anch’io difficoltà ad incrociare musicisti con le
giuste caratteristiche sia sul versante Jethro che per i brani OAK. La
musica dei Tull sembrava non essere
nelle preferenze ne di chitarristi ne di tastieristi. I primi suonavano
prevalentemente “Led Zeppelin” o “Pink Floyd” ed i secondi preferivano il
funky. Nel mio caso poi, si poteva subito intuire come alla radice del progetto
vi fosse il trip maniacale di un cantante, flautista, chitarrista, front man
devoto al clan degli Anderson! Ricordo che fui più volte costretto a scomodare
aneddoti ed esperienze relative ai miei trascorsi successi internazionali per
avere un forte ascendente sui musicisti che rispondevano ai miei annunci. Tornando
a Lincoln, ricordo il suo raffinato solo di chitarra su “Forest Cathedrals” e
le tante partecipazioni ai nostri concerti. Sebbene lui non sia mai entrato stabilmente
nella nostra formazione, il suo stile è sempre stato in sintonia con il nostro
sound. E’ sorprendente come le casualità influenzino le nostre vite e quanto
sia importante trovare le persone giuste al momento opportuno. Nel 2004 ad
esempio, in occasione di una jam session in una sala prove di periferia feci la
conoscenza di un chitarrista appassionato dei Jethro, Maurizio Di Vara. Lui
militava in una cover band di cui non ero a conoscenza; i “From the wood” (da
non confondere con i Viterbesi “The Wood”). Con la sua Gibson deluxe Maurizio
suonava i Jethro in maniera molto convincente ed aveva tecnica e physiche du role per interpretare
il miglior Martin Barre in un momento dove la nostra formazione era molto
piantata nel ruolo di tribute band. Purtroppo al termine della jam session mi
disse di far parte già di un'altra band e mi fece sentire un demo di notevole
qualità. Gli OAK dovettero perciò attendere ancora molto prima di averlo in
formazione. Con Lincoln invece ci siamo incrociati molte volte, anche a
Castiglion del Lago un anno fa. Ricordo bene quella giornata perché lui non era
in programma ma appena ci siamo visti, prima ancora di dirci ciao, è partita la
mia domanda : “Hai con te la chitarra” ? E quella sera, nonostante il programma
già definito e collaudato del nostro “Time generator”, da noi presentato in
quella primavera insieme a Richard Sinclair e Maartin Allcock, ci siamo
ritrovati a suonare un paio di canzoni
insieme a Lincoln e Bernardo Lanzetti. Ma questo genere di fuori programma sono
una consuetudine per gli OAK ed anche se sono in pochi ad avere la nostra
stessa mentalità poco importa, noi continuiamo nel rispetto della nostra indole
estroversa. L’ultima volta con Lincoln è storia recente, sto parlando infatti
del ventennale degli OAK svoltosi in aprile (ma non c’eri anche tu?). E’ un
peccato invece che entrambi non abbiate partecipato a quello di sabato 22
giugno al Music Inn di Roma. Anche in quella occasione abbiamo riproposto parte
della nostra produzione, dei Jethro e del Prog insieme ad altri 12 musicisti
appartenuti a vari line up della nostra band. E quest’ultimo concerto che secondo
i maligni poteva degenerare in rissa a causa di presunte antipatie o stupide
competizioni, si è rivelata la più bella serata dei nostri 20 anni, dove
l’amore e la passione per la musica hanno trascinato pubblico e protagonisti in
un vortice di sensazioni.
A proposito
delle Prog Exhibitions di Roma, qual è il tuo giudizio generale, indipendente
dalla valenza dei musicisti in gioco ?
Entrambe le edizioni della Prog exhibition hanno
rappresentato due piacevoli momenti per ripercorrere il capitolo più impegnato
della musica italiana; quello risalente agli anni ‘70. Sono state inoltre un
banco di prova per altre formazioni che, anche se non appartenenti allo stesso
periodo storico, sono state a lungo presenti nella realtà musicale nazionale. Il
lavoro svolto da Iaia De Capitani e Franz Di Cioccio è stato compiuto con
coraggio e grande stile e la loro considerazione nei riguardi degli artisti
partecipanti è stata impeccabile. Due anime nobili in un panorama arido e
avvelenato. Nella prima edizione del 2010 ero tra il pubblico presente alla
seconda giornata, quella della straordinaria performance di Tjis Van Leer, del
set energico degli Osanna e del finale del Banco insieme a John Wetton. Nonostante
però la notevole affluenza di pubblico, si percepiva in sala un senso di
amarcord. Francesco Di Giacomo, cantante del Banco, richiamò l’attenzione dei
presenti proprio su quell’aspetto e disse: “La musica che state ascoltando non
è più quella di un tempo… ma neanche voi siete più quelli di prima”, smorzando così
i sogni del passato con gelido realismo. Sembrerebbe infatti proprio la nostalgia
la componente predominante in queste manifestazioni che qualcuno definisce sterili.
Nella seconda edizione del 2011, alla quale ha partecipato anche il mio gruppo
insieme a Maartin Allcock, la sensazione di deja vù è ricomparsa accompagnando
le esibizioni sino all’epilogo finale. Sembra esserci comunque un rinnovato interesse
per il prog italiano anni ’70. Anche il mercato internazionale risponde bene
alle proposte dell’etichetta “Immaginifica” di Iaia e Franz che hanno
pubblicato di recente “The amazing world of Prog”, una compilation delle cose
più interessanti relative alle due edizioni della Prog Exhibition nella quale,
insieme ai capolavori dei grandi miti, compaiono anche le nostre “Baba Gaia” e “Murfatlar”
suonate dagli OAK con Maart Allcock. Ma degne d’attenzione sono anche le nuove
proposte che rimangono però ancora nell’ombra di un passato fin troppo
sublimato che finisce per inibirne le potenzialità. Bisognerebbe esprimere la
propria personalità con più spavalderia e dissacrazione e tappare la bocca agli
archeologi dell’era jurassica che contrastano il manifestarsi di una nuova
aurora di musica.
Un giudizio
tecnico. Per noi innamorati di certa musica il flauto nel rock si identifica
con Ian Anderson, che conosci molto bene per aver calcato gli stessi palchi,
oltre che per infinite ore di ascolto. A Roma non sei riuscito a vederlo in
combinata con la PFM ,
ma in compenso hai visto Thijs Van Leer. Mi dai un giudizio sulle sue qualità ?
Grazie per questa domanda, l’accostamento di questi due artisti
mi stimola parecchio. Entrambi polistrumentisti, compositori e cantanti,
Anderson e l’olandese Van Leer, si sono contesi per un periodo il primato delle
sigle radio-televisive (i Focus con “House of the king” e i Jethro Tull con “Living
in the past”). Indubbiamente però la scena londinese fine anni ’60 rappresentò
uno scenario ben più vantaggioso per Anderson, di origine scozzese, ma
trapiantato a Blackpool e poi da lì a Luton ed infine a Londra. E anche se non
fu semplice superare i primi anni di stenti nella capitale inglese, la presenza
di un tempio della musica di tendenza come il “Marquee” finì per rafforzare
maggiormente la volontà di Ian e determinare la nascita dei Jethro Tull. Le
sorti di tanti altri giovani musicisti britannici furono segnate dall’approdo
al mitico club di Wardour street. Lo stesso Hendrix, che pure proveniva dagli
Stati Uniti, trovò soltanto in Inghilterra l’humus per piantare radici e
liberare la magia della sua musica. Rimanendo nel tema delle 6 corde è evidente
come fu altrettanto decisivo per il giovane Ian, provetto chitarrista, l’aver
intuito di essere ormai in notevole ritardo rispetto ai tanti altri guitar
heroes sulla scena. Così, sbarazzatosi della sua chitarra elettrica, barattata
con un flauto traverso e un microfono, il nostro giovane scozzese, ambizioso e
senza scrupoli, lanciò la sfida a ben pochi altri flautisti sulla scena rock.
Forse avremmo avuto lo stesso i Jethro Tull anche se Ian avesse suonato il
violino o la tromba ma indubbiamente il flauto traverso era a quei tempi uno
strumento emergente nella nuova musica dei giovani. Roland Kirk ad esempio, lo
suonava in maniera molto personale e dissacratoria cantando le note contemporaneamente
all’esecuzione (tra i suoi numeri c’èra anche quello di introdurre l’imboccatura
di un flauto dolce in una narice e suonare lo strumento parallelamente a due
sassofoni mentre un mucchio di conchiglie e campanelli gli dondolavano intorno
al collo). Essenziale era infatti intrattenere il pubblico e stupirlo con
performance di natura quasi circense ed Anderson fece tesoro di questa intuizione
suggeritagli peraltro dal suo manager Terry Ellis. Questi linguaggi nuovi e
oltraggiosi fecero proseliti in UK e non fu solo Ian a rimanerne affascinato.
Con grande trasporto David Jackson mi narrava le sue esperienze descrivendomi
il grande impatto che i musicisti di colore americani ebbero sul giovane
pubblico inglese. Probabilmente invece il background dell’olandese Van Leer è più
accademico. Me lo immagino alle prese con scale, arpeggi, postura e
impostazione delle labbra, tutte cose che Ian bypassò puntando direttamente a
fare del flauto lo strumento con il quale competere con la chitarra elettrica. Ma
fu quella la vera innovazione ! Quel suono saturo e gutturale prodotto da un
flauto di metallo grezzo ma plasmato dal soffio di una grande personalità. E nonostante
Ian fosse a digiuno di tecnica ed esperienza, finì con imporre il suo stile a
tutta la band e diventare un archetipo nel panorama della musica rock. Il palcoscenico
fu quindi la sua unica vera scuola e le sue capacità comunicative fecero il
resto. Devo ammettere però che anche la performance di Van Leer alla Prog
exhibition mi ha molto entusiasmato, ma quando sul finale ha cominciato a
destreggiarsi con rantoli ed equilibrismi la sensazione che stesse recitando il
ruolo di qualcun altro ha finito per condizionare il mio giudizio su di lui.
(Eppure sembra che Ian Anderson temesse in modo particolare il confronto con
Van Leer che sarebbe dovuto avvenire nella stessa giornata della prog
exhibition). In favore di questi due grandi artisti vorrei aggiungere qualcosa anche
sul loro polistrumentismo. Tjis suona anche l’hammond, e in maniera
straordinaria direi, e anche i suoi vocalizzi
sono roba da virtuosi. Così come anche Ian dimostra la sua grande abilità
con varia strumentazione. Non tutti immaginiamo poi quanto sia difficile
mantenere la concentrazione in piena performance se si passa da uno strumento all’altro.
Di Ian non sottovaluterei anche il suo stile
al sax soprano e sopranino, che hanno un’imboccatura completamente diversa da
quella del flauto. Nei concerti quindi, passando dai primi al secondo e
viceversa, come faceva Ian nel ‘73/’74, si rischia molto, perché la muscolatura
facciale e le labbra necessitano di tempo per ridisegnarsi alle conformità di strumenti
diversi. Tornando alle particolarità del flauto traverso, un'altra conseguenza del
timbro Andersoniano, vale a dire quella forte pressione esercitata dal soffio per
ottenere quel suono rauco pieno di armonici, è l’irritazione della laringe. Il
nostro flautista ha subìto l’asportazione di una delle corde vocali, molto
probabilmente a causa dell’ingente numero di sigarette fumate ma non è da escludere
che l’uso improprio della voce e del suo strumento a fiato possano averne peggiorato
le condizioni. Concluderei infine la tua domanda dicendo che, nonostante
Anderson rappresenti l’icona più popolare, il più flautista dei due è senza
dubbio Tjis Van Leer. Ma il discorso è un altro: è sbagliato definire Anderson
un flautista. Non c’è mai stato tanto flauto nella musica dei Jethro (ma
neanche in quella dei Focus) eppure l’immagine del flautista in equilibrio su
una gamba sola ha finito per imporsi e lanciare il prodotto Tull in tutto il
mondo.
Siamo riusciti,
tra tutti, a creare una grande famiglia che percorre l’intera Italia, e grazie
alle nuove tecnologie è facile mantenere il contatto. La musica è davvero
qualcosa di miracoloso! Sei d’accordo con la mia immagine volutamente bucolica?
Direi proprio di si… anch’io sono un sognatore e la
speranza di condividere con altri le cose che amo è sempre viva. Oggi poi,
grazie al web, sembrerebbe ancora più semplice avere contatti con persone a noi
affini. E poco importa se a volte ne comprendiamo la vera natura virtuale e
realizziamo tristemente che le persone con cui ci intratteniamo sono e
rimangono degli sconosciuti. La musica è una cosa vera ed è indispensabile
avere un contatto diretto tra musicisti, come tra appassionati. I contatti nel
web avvengono in maniera rapida e superficiale e possono distorcere la realtà alimentando
il sogno di poter conoscere e raggiungere chiunque, dovunque e in qualsiasi
momento. Ricordo che quando cominciai a manifestare il mio amore per i Jethro,
dopo anni di ritiro forzato, cominciai ad avere molti contatti con altri
cultori del genere. Partivo dal presupposto che amare profondamente la stessa
cosa potesse sottintendere una sorta di empatia. In particolare, nell’ambito
dei tributi, ero convinto d’aver trovato condivisione, amicizia e senso di
appartenenza. Ma dopo un’esperienza lunga 20 anni mi sono dovuto però ricredere.
Vi assicuro che proprio nell’ambiente amatoriale, tra appassionati e fans, regna
un clima pesante, avvelenato da invidie, gelosie e tiri mancini. Ben peggiore
di quello da cui fuggii alla fine degli anni ’80 in seguito alla mia frequentazione
del business musicale internazionale. Il web quindi può rappresentare uno
straordinario mezzo di comunicazione ma quando elude confronti reali (faccia a
faccia) perde tutto il suo valore.
I tuoi
progetti con grandi nomi della musica sono in continua espansione. Resta per me
un mistero il fatto che artisti di quel calibro abbiano la quasi necessità di espatriare
e “accontentarsi”, laddove il termine è messo in relazione ad un passato
incomparabile. Perché, secondo te, in campo musicale, la professionalità è
riconosciuta solo in casi sporadici?
Ogni nostra collaborazione è nata come tentativo di
trovare una stessa condivisione nel modo di sentire e vivere la musica. Suonare
insieme significa orientare la percezione di note e ritmi su sentieri di profonda
sensibilità. Una volta poi stabiliti i giusti parametri tecnico/cognitivi come
riferimento, tutto si rivela semplice e naturale. In base alla mia esperienza con
Jackson, Kristina, Sinclair, Allcock, Noyce, Namtchylak, Rocchi e Maltese, la vera
ragione del ritrovarsi insieme è stata quella di voler provare a liberare nuova
musica. Più critici e meno convinti mi
sono sembrati invece rispetto alla riesumazione del loro passato al quale non
sembrano molto attaccati. I sodalizi con noi sono stati cementati esclusivamente
dalla voglia di creare e sperimentare le 7 note. L’aspetto economico è
sicuramente fondamentale per dei professionisti ma non è mai stato troppo
pressante e quindi, nonostante compensi da “regime di crisi”, il loro furore
artistico non si è mai raffreddato e le loro collaborazioni sono state per noi
sempre utili e risolutive. E’ inoltre gratificante ricevere lodi da questi
personaggi che ti accettano e accolgono all’interno della loro grande
famiglia rock e che finiscono per
considerarti al loro stesso livello. Certo, bisogna anche aggiungere che in
tutti questi anni il numero dei musicisti e delle band attive a livello
internazionale è sensibilmente aumentato e il ricambio generazionale, insieme
alle nuove proposte musicali (sempre comunque inferiori nel nostro paese
rispetto alla media internazionale o al periodo d’oro degli anni ’60 e ’70) ha comprensibilmente
determinato orientamenti diversi da parte del pubblico. Tanti musicisti della
vecchia guardia sono rimasti travolti dalle nuove ondate e alcuni di loro hanno
riparato in altre parti del mondo da dove continuano la loro ricerca creativa
o, nei casi meno nobili, la pedissequa riproduzione dei loro vecchi cavalli di
battaglia che rimangono il loro unico mezzo di sostentamento. Le scelte degli OAK
sono sempre cadute su personaggi che avessero delle affinità con il nostro
stile o con il progetto in lavorazione. Per noi è stato determinante accogliere
tra le nostre fila musicisti di tale personalità ed esperienza per poter accrescere
il potenziale della band come e quanto per loro è stato salutare misurarsi con altre
realtà compositive, contaminazioni sonore e di spettacolo. David Jackson ad
esempio, rimase molto impressionato dalla musica etnica che gli feci ascoltare insistendo
per avere alcuni cd e arricchire così il suo personale repertorio con materiale
tradizionale della Mongolia. Richard Sinclair rimase affascinato dalla mia
percezione dei suoni provenienti dalle dimensioni nascoste, da lui definite
“underworld”. Anche Sainkho Namtchylak e Sonja Kristina, due sensibili
sciamane, hanno avvertito la singolarità dei miei brani più esoterici,
riconoscendovisi nei tratti melodici, nei testi e nelle atmosfere. Lo scambio
quindi è reciproco e quando si avverte un medesimo senso di appartenenza verso
qualcosa di impalpabile e misterioso come certa musica, non ci sono distanze o
preconcetti che possano impedirne l’attrazione.
Ho
conosciuto sia Maartin che Richard e la cosa che mi ha stupito d’acchito è la
loro umiltà. Molti dei nostri musicisti più in vista tendono a mantenere un
certo distacco, e non hanno mai suonato con i Caravan o i Jethro Tull.
Caratteristiche personali o differente
cultura?
Penso che tanti atteggiamenti di superbia nascondano
soltanto insicurezza. Il senso di inadeguatezza di cui soffrono inconsciamente
tanti personaggi deriva probabilmente dall’aver realizzato poco o nulla di particolarmente
rilevante. Tra gli artisti con cui ho avuto la fortuna di lavorare Richard e
Maartin appartengono a quella categoria di personaggi che non hanno nulla da
dimostrare. Le loro storie, ma anche le loro attività presenti, parlano da sole
(basti pensare alla recente versione del brano “ Discipline” dei King Crimson
eseguita da Maartin Allcock interamente con strumenti acustici a doppia corda o
ai vecchi lavori di Richard insieme agli Hatfield and the north o Caravan)… il
loro ego non ha certo bisogno di ulteriori espansioni.
Cosa accade
ad un musicista che “invecchia”, oltre, qualche volta, a perdere la voce?
Ben più grave di una diminuzione delle capacità vocali è,
con il passar degli anni, la perdita d’obiettività nel riconoscere o meno la
validità del proprio discorso artistico. Tour e impegni discografici protratti
così a lungo, diventano routine creando assuefazione e dipendenza. Per
scongiurare crisi esistenziali con
effetti molto pericolosi, si procede troppo spesso sullo stesso binario ripetendo
schemi collaudati ma ormai vuoti di
significato. E’ vero che tante delle icone del rock sono ancora in vita e continuano
a sprizzare tanta energia (ne è prova il recente concerto degli Stones a Hide
Park o quello di Alice Cooper al festival di Cropredy) ma… che non si azzardino paragoni con altri tempi! Molti altri
musicisti di successo voltano pagina e avviano attività di produzione o insegnamento
mentre una buona parte smette di suonare e si concentra su altre cose. Tutte
scelte degne di rispetto. La sola cosa da evitare scrupolosamente è quella di
continuare a mungere dal proprio passato come se fosse una miniera
inesauribile. E’ difficile per tutti continuare a ripetersi sempre ad alti livelli
ed è necessario sapersi far da parte e lasciare spazio agli altri, giovani in
particolare, che altrimenti non avrebbero chance per emergere.
Dimmi almeno uno dei tuoi
progetti imminenti.
In questi 20 anni abbiamo accumulato tanto di quel materiale
video che per esaminarlo tutto ce ne vorrebbero almeno altri 10. Sarebbe
interessante racchiuderne i momenti migliori in un film che possa rappresentarci
fedelmente.
Durante l’anno in corso saremo ancora alle prese con
spettacoli per il nostro ventennale mentre in agosto voleremo a Cropredy e poi
nel Galles per suonare di nuovo insieme a Maartin Allcock. In autunno presenteremo
insieme a Sainkho Namtchylak e Maartin il nuovo spettacolo “Tuvan and Celtic
music” e realizzeremo una serie di concerti internazionali. Sainkho è una
cantante proveniente da Tuva (un’ex repubblica sovietica che si trova al centro
dell’Asia) e le sue partecipazioni ai nostri spettacoli hanno suscitato
reazioni molto positive. Siamo impegnati nella realizzazione di un cd insieme e
proseguiremo con i workshop di canto armonico e gli spettacoli multimediali. Tuttavia
non lasceremo mai decantare il nostro amore per i Jethro Tull e il Prog e
continueremo a rievocarne leggende e magia alla nostra solita maniera. Non sono
un organizzatore valido o esperto e mi identifico soltanto nel mestiere di
musicista ma se la situazione dovesse continuare ad essere così difficile e nelle
mani sbagliate, potrei anche seguitare a proporre eventi con l’ausilio della
sola forza lavoro mia e degli OAK. Ma la promessa più difficile da mantenere
sarà quella di volgere l’attenzione sulle nuove realtà musicali che premono per
affermarsi. A questi giovani vorrei fosse dato un aiuto concreto che vada oltre
ai soliti complimenti. Sarebbero necessari adeguati investimenti economici che
possano avviarne e sostenerne l’attività artistica. Acquisto di strumentazione,
spese per le sale prova, contatti con gli studi di registrazione e i live club per
produzioni e concerti, creazione di un’etichetta discografica per la
pubblicazione di materiale sonoro e video con relativa collocazione negli
opportuni motori promozionali (tv, radio, web, carta stampata). Tutto ciò potrebbe
creare una nuova fonderia d’arte, preludio alla scoperta di nuovi Genesis, Van
der graaf etc……(ricordiamo troppo spesso la genialità di questi musicisti dimenticando
i soldi spesi da un certo Mr. Stratton Smith).
Auguro a tutti un buon lavoro e… che la musica sia con
noi.