“Nascondi
ciò che sono | E aiutami a trovare la maschera
più adatta | Alle mie intenzioni”
e aprire con Shakespeare non è un vezzo, né un lazzo, ma causa ed effetto di
ascolto e visione di un’opera, che si muove nel tempo e che riempie lo spazio,
celando risposte, come una maschera cela le espressioni del viso. È la
drammaturgia prestata alla musica, o viceversa. Anzi, donata, non prestata.
Reciproco scambio di virus che contaminano, sfumandoli, i confini già labili
delle emozioni artistiche. I dubbi, le ansie, le fondamenta di costruzioni
oniriche scosse dall’inevitabile, le narcisistiche riflessioni di un uomo che
cerca risposte e trova soltanto ulteriori domande. La musica è spugna e la
poesia il liquido che assorbe e di cui s’impregna. È la musica è musica! Non un
sottofondo, non un accompagnamento, ma musica con intestini, muscoli ed ossa, dai
lineamenti marcati, con una propria distorta personalità, come i volti
disegnati da Van Gogh. Si potrebbe parlare di progressive, metal, hard rock, ma
perché non anche di ritmi tribali di ancestrali tribù oceaniche? A definire la
musica si rischia sempre di fare una cazzata, soprattutto se a definirla è uno
come me, appassionato e non critico, alunno perpetuo, che della musica
raccoglie l’emozione. La musica è viva e come ogni essere vivente, ogni musica
ha la sua personalità. O non ce l’ha e si perde nella banalità della normalità.
Ma non questa volta. Non c’è niente di banale né di impersonale ne L’Uomo Infinito
dei Lamanaïf.
Dodici brani che sembrano altrettante sculture, plasmate dai suoni di Estéban Vidoz (voce), Matteo Florian (basso ed effetti), Simone Bianco (chitarra ed effetti) e Simone Sossai (batteria e percussioni),
coadiuvati dagli interventi di Sebastiano Basso (didgeridoo) e Andrea Ghion
(percussioni). Come in un labirinto disegnato dalla forza della chitarra e
dall’ossessività ritmica, la voce si incammina ora dolce, ora isterica, acida e
teatrale, ora ironica e poi melodica e poi incazzata, sulla strada tracciata da
testi che raccontano dell’intimità dell’uomo, alla ricerca della giusta via per
raggiungere qualcosa, ma senza sapere cosa. Il contraddittorio senso di un
esistenza marcata da dubbi e da domande protese verso l’infinito. Un cammino
che potrebbe apparire difficile e tortuoso, ma che la facilità
dell’espressività musicale, figlia di tecnica e passione, con cui la band
sciorina i dodici brani che compongono l’album, ne fanno un’opera fruibile a
chiunque abbia voglia di qualcosa di più della rima amore e cuore e del
TUMPA TUMPA protagonisti di tanta musica passata, presente e, temo, futura. C’è
anche tanto lavoro in questo disco, oltre l’estro. La grafica è molto curata,
dalla copertina al booklet fino ai caratteri usati, tutto dà l’dea di essere
stato ben ponderato, agghindato con lo steso maniacale amore con cui una madre vestirebbe
il figlio per la sua prima comunione. Ma non appena si appoggia il CD sul
cassetto e questi si ritrae come una lingua su cui è stata appoggiata un ostia
e la musica mobilita l’aria, allora è proprio lei, la musica, ad impadronirsi
della scena, protagonista assoluta.
L’Ipnotico Salto e il primo passo del cammino
attraverso la foresta di versi e suoni potenti che i Lamanaïf ci andranno a presentare e senza soluzione di continuità
ci spinge sotto la pioggia di Rane, il cui riff si attacca alla pelle e
continua a rimbalzare tra le pareti della scatola cranica, sospinto da una
ritmica incessante e il testo.. non parlerò dei testi, di nessun brano, non più
di quanto abbia già fatto. È mia intima convinzione che la poesia non debba
essere spiegata, ma vissuta, fatta propria e possa così risvegliare in ogni
coscienza emozioni diverse, là dove esista la sensibilità di una coscienza.
Ascoltate e lasciate che la piena di sensazioni rompa gli argini, allagando i campi
della vostra intimità. Nella terza traccia, (In) Stabile, la chitarra
rimbalza come una pallina magica sul parquet di basso e batteria, su cui la
voce si muove agile come il Michael Jordan dei tempi migliori. La vena
romantica che caratterizza l’apertura di Magnolia si trasforma ben
presto in un urlo rabbioso che cerca “il senso del mio domani” e l’alternanza
tra quiete e tempesta si protrae per tutta la durata del pezzo. Il surreale è
il tratto che caratterizza L’Uomo Infinito, brano che dà il titolo all’album.
Una canzone che echeggia negli universi mentali di chi ascolta. L’ossessività
di H.E.N (Hic Et Nunc), che cambia pelle più volte durante il suo
cammino, rende con efficacia la retorica ironia con cui si affronta la banalità
del reale. Al giro di boa si arriva a Girotondo che si apre con un
feedback cavalcato prima dal basso e poi dalla batteria, per diventare un pezzo
variopinto e nervoso, melodico e inquieto, impreziosito dal cantato di Estéban Vidoz, qui in versione
fuoriclasse che fa la differenza, senza voler far torto agli altri componenti
della band, anche loro sempre un gradino più in su della normalità. E tutto ciò
viene ampiamente confermato e ribadito in Puzzle, brano in cui le
capacità corali dei Lamanaïf sono
sottolineate dall’abilità dei musicisti di mettere la tecnica individuale al
servizio della squadra. Insonne (Pavor Nocturnis) è un momento di tregua
apparente, è il sogno che attraversa la mente durante il sonno-non-sonno,
paludosa veglia del sonnambulismo umano. Con Un Amore Chirurgico la band
si concede una digressione di pura teatralità, quasi a voler ribadire, se mai
ce ne fosse bisogno, la contaminazione di generi artistici che li
contraddistingue e apre le porte a L’Amami, penultimo brano del disco.
Siamo verso la fine, ma non c’è tregua, i ragazzi non mollano. Se qualcuno si
aspetta dei cali di tensioni sul finale, rimarrà deluso. Anzi. La loro forza è
ancora ben viva, il fuoco più ardente, l’enfasi esplode e le onde del mare si
infrangono potenti sulla scogliera finché un inquietante “stai ancora
ascoltando”, bisbigliato sotto il temporale, mi immerge nel punkeggiante
incipit di I/O, atto conclusivo. Ma non c’è stanchezza, né in chi suona,
né in chi ascolta, c’è ancora fiato per un ultimo scatto. Le gambe rispondono
bene all’ulteriore sollecitazione e quegli ultimi metri che mancano al
traguardo vengono percorsi con impeto da I/O e poi la fine e la felicità
che resta. Perché è felicità quella che resta, quando si trasforma l’astrazione
del bello, nella realtà di musica e parole.