venerdì 1 marzo 2013

Stanley Kubrick e me


Fotografia di Alberto Terrile

Tratto dal numero di febbraio di MAT2020 (www.mat2020.com)

Stanley Kubrick e me

Trent’anni accanto a lui, rivelazioni e cronache inedite dell’assistente personale di un genio.


Descrivere il contenuto di un libro cercando di fornire dettagli sull’iter realizzativo diventa cosa agevole se si ha l’opportunità di conoscerne l’autore, e ancor meglio  se il dialogo si sviluppa con qualche protagonista. Chiariamo. Sto parlando di “Stanley Kubrick e me”, la storia di un genio assoluto raccontata dal suo uomo di fiducia, Emilio D’Alessandro, italiano, di modeste origini, ma con qualcosa in più nel DNA… vedremo cosa.
Ho conosciuto Emilio, e ovviamente anche il giovane Filippo Ulivieri, da anni depositario di “Archivio Kubrick” - ricercatore ma non uso alla scrittura - che casualmente incoccia la strada di un ex pilota di Formula Ford, un ometto abituato ai duelli con Fittipaldi e Hunt, diventato all’ inizio degli anni 70 un dipendente di Stanley Kubrick… non uno qualsiasi, il factotum!
La storia in pillole.
Siamo negli anni sessanta, Emilio D’Alessandro, di Montecassino, fugge dal luogo in cui presta il servizio di leva, per lui insopportabile, e approda in Inghilterra. Non ha avuto la possibilità di frequentare grandi scuole, ma ha il pallino della meccanica ed un gran senso del dovere. Il suo sogno è quello di diventare pilota di Formula Uno, e prosegue la gavetta con successo, utilizzando il tempo libero lasciato dal lavoro.
Ha messo su famiglia Emilio e non corre più alcun rischio, ora è cittadino inglese.
Il suo sogno principale, diventare un professionista automobilistico, crolla quando perde il lavoro. Giorni duri, ricchi di preoccupazioni, ma sono altri tempi, e con un po’ di pazienza e spirito di sacrificio qualche cosa può nascere, e lui trova impiego in una società di taxi, dedicata al settore cinematografico.
Sarà per effetto dei suoi trasporti inappuntabili che Emilio arriverà ad una conoscenza per lui non significativa, quella con Kubrick: “Piacere io sono Stanley Kubrick…”, “Piacere io sono Emilio D’Alessandro”. Ma per Emilio quel Kubrick è un uomo come tanti, forse un operaio, a giudicare dal suo modo di vestirsi!
Un attimo di sosta.
Ho “fotografato” Emilio D’Alessandro e ho visto in lui un concentrato di ottime qualità: serio, lavoratore, amante della famiglia, leale, virtuoso moralmente e materialmente; una figura che, nel lavoro e nella vita comune, si vorrebbe sempre trovare, e non per sfruttare, ma per ricevere e dare aiuto. Non è l’unico sulla terra il buon Emilio, fortunatamente, anche se obiettivamente costituisce merce rara.
Eppure è toccato a lui, e il famoso luogo comune del trovarsi al posto giusto al momento giusto si concretizza in questa storia, e mi auguro prosegua sul filone Kubrick con una fetta di opportunità per Filippo Ulivieri, capace di descrivere in modo perfetto un uomo di cui in realtà non si sapeva nulla… nulla di vero relativamente alla sfera personale.
Leggendo il libro viene la voglia di vederlo trasposto in pellicola, e pare che qualche interesse attorno al progetto sia già in fase embrionale.
Una storia straordinaria, una favola, che vede due protagonisti, due facce della stessa medaglia, due uomini separati da tonnellate di cultura e migliaia di chilometri di distanza, in perfetto equilibrio, in armonia, bisognosi l’uno dell’altro, e mentre l’autista provetto Emilio evolve e diventa l’assistente personale, unico ad aver accesso ad ogni luogo, Stanley molla gradualmente qualche ormeggio, lasciando emergere lacune di ordine pratico, ma sicuro di avere affianco chi è in grado di compensare per ogni mancanza o problema di varia grandezza.
Emilio vive il set di grandi film, da Barry Lyndon a Shining, da Full Metal Jacket a Eyes Wide Shut (in cui ha una piccola parte come edicolante e che uscirà solo dopo la morte di Kubrick), e in questo movimento temporale presta la massacrante opera di uomo addetto ad ogni tipo di problema (inizialmente in buona compagnia), senza rispetto degli orari e delle regole sindacali, sempre pronto a guadagnarsi la giornata servendo un uomo gentile di cui tutti conoscono solo il “sentito dire”, molto lontano dalla verità. Nei viaggi di congiunzione tra l’aeroporto e la casa di Stanley, Emilio trasporta ed entra in confidenza con persone impaurite dall’imminente incontro con quell’uomo descritto come scontroso, restio a coltivare rapporti umani. La realtà è ben diversa, ed Emilio cerca di spiegare come stanno le cose… perché Stanley è un generoso, rigoroso e maniaco sul lavoro, certo, ma amante della famiglia e, in modo quasi ossessivo, degli animali. La meticolosità e l’assoluta mancanza di interesse nell’apparire in pubblico  hanno alimentato storie distorte, ed Emilio fa fatica nel comprendere i colori grigi con cui viene dipinto Stanley.
E’ un mondo costituito da stelle di prima grandezza, uomini e donne che vivono nei movie (anche se Emilio preferisce i film semplici e non vedrà mai quelli di Kubrick in tempo reale), e che si chiamano Ryan O'Neal, Jack Nicholson, Marisa Berenson, Tom Cruise, Nicole Kidman, George Lucas, Steven Spielger, Sydney Pollack.
Tutte persone che, per induzione, si fidano di lui, come fa Stanley.
Emilio sacrifica ogni cosa, mentre Stanley pare non accorgersi delle esigenze degli uomini comuni, che non chiedono più denaro di quello necessario, ma ambiscono ad un po’ di tempo libero, a un po’ di privacy, ad una vita più regolare. Non c’è egoismo o tirannia in tutto questo… “chiedimi ciò che vuoi e te lo darò…”, solo cecità al cospetto delle normali esigenze di vita.
Janette, la moglie inglese di Emilio, protesta ma accetta, come solo una buona e paziente moglie sa fare, e alla fine la sensazione è che le due famiglie, quella del genio e quella del modesto emigrante, siano una cosa sola, che nemmeno la prematura dipartita di Kubrick potrà dividere.
Che cosa rende speciale Emilio agli occhi di Kubrick, infelice senza il suo assistente accanto? E cosa rende unico Kubrick agli occhi Emilio, più addolorato per la sua morte che per quella del padre?
Stanley è Emilio che si guarda allo specchio, a volte si piace e a volte no, ma lo specchio non mente, e lui non ha di che lamentarsi. Stanley è Emilio che si specchia soddisfatto, anche se il corso della vita cambia l’aspetto e il modo di vedere le cose.
Un perfetto equilibrio nato chissà per quale strana alchimia, due amici, due fratelli, due predestinati partiti da poli opposti e arrivati assieme alla meta, legati per sempre da trent’anni passati in simbiosi.
Mi piace immaginare i due protagonisti sdraiati su di un tappeto, al telefono con un italiano illustre, Federico Fellini, con Emilio che ha il compito di tradurre ogni parola… ore di dialoghi tra i due maestri. Non è da tutti.
Ciò che rimane, ciò che va detto e rimarcato, è che il volere di Emilio D’Alessandro, il suo desiderio di ricordare Kubrick, non ha niente a che vedere con l’aspetto commerciale, nessuna voglia di mettersi in mostra ne di utilizzare i tanti cimeli, avuti in dono, per fare cassa. L’obiettivo è uno solo, rendere omaggio all’amico di una vita e fornire la corretta immagine di un uomo dipinto in molti modi, ma sempre con le stesse errate tinte, e soprattutto da chi non l’ha conosciuto, se non superficialmente o per esclusivi motivi di lavoro.
Per trovare le giuste proporzioni serviva il buon Emilio, chi poteva riuscirci se non lui!?

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