Da poche ore è terminato il Festival in Val Curone (30 giugno /1° luglio 2012), e riporto a caldo le mie impressioni (il testo è stato scritto il giorno dopo).
A forza di commentare eventi
musicali, mi rendo conto come la potenziale, probabile domanda, “ma come è
andata?” assuma sempre più, come unità di misura assoluta, il numero delle
presenze.
Per chi organizza - per passione e non per mestiere -
l’iniziale motivazione, quasi ideologica, si trasforma col passare del tempo in
esigenza di fare quadrare i conti, di dare risposte esaurienti a chi chiede, di
sperare di passare indenni attraverso i molteplici rischi connaturati ad ogni
tipo di evento, ad ogni situazione in cui uomini e donne vivono lunghi momenti
di socialità.
Per tutti gli altri esistono parametri che oltrepassano
l’aspetto organizzativo, anche se spesso sono coinvolti direttamente.
Parlo ad esempio dei musicisti,
che anche nel caso in cui tutti gli ingranaggi abbiano girato bene e nel verso
giusto, non trarranno grande soddisfazione personale nel suonare davanti ad un
pubblico inadeguato numericamente.
Parlo anche dei meri spettatori,
che non riusciranno ad entrare in loop con gli artisti sul palco, e la magica
atmosfera da “concerto giusto” stenterà ad innescarsi.
Musicisti e pubblico sono legati a doppio nodo in fase live,
e riescono ad alimentarsi a vicenda solo quando esiste il feeling che spesso
passa anche attraverso i numeri delle anime presenti.
Da questo punto di vista, il 1° Val Curone Musica Festival,
svoltosi a Fabbrica Curone nei due
giorni a cavallo tra giugno e luglio, non è stato un successo.
Molte le attenuanti.
Intanto possiamo dare a “Caronte”
qualche colpa, e i 40 ° pomeridiani - e gli eventi culturali erano previsti a
partire dalle ore 16 - hanno tenuto lontano una possibile fetta importante di
abitanti del luogo e di “stranieri”, sicuramente poco vogliosi di affrontare un
viaggio e successivo impegno di ore in quelle condizioni atmosferiche.
A fornire ulteriore disagio, la presenza dell’Italia nella finale europea, fatto che
ha costretto a modificare l’intero programma e che, nonostante il montaggio di
un maxi schermo per la visione in piena comunione, ha tenuto distanti gli
appassionati del calcio, che si moltiplicano in occasioni del genere.
Anche il luogo,
abbastanza lontano da un’uscita autostradale, può avere inciso, anche se questo
era probabilmente già stato messo in conto.
La scelta sulla location destinata al Festival è ricaduta su
di un campo di calcio, che in alcuni momenti è sembrato una somma di zolle
dell’assolato Texas.
Nelle previsioni iniziali un paio di ore erano destinate ad
eventi vari, presentazioni di libri, e visita agli stand gastronomici dedicati
ai prodotti tipici della zona, ma le variazioni apportate e l’allungamento del
soundcheck legato - anche - alla
temperatura proibitiva, ha di fatto permesso la sola presentazione del libro di
Fabio Zuffanti,
“O Casta Musica”,
che ha suscitato un buon dibattito che ha coinvolto musicisti e spettatori.
Uno stralcio dell’intervento:
E poi la musica, che nella serata di apertura ha visto la
presenza della band di Fabrizio Fanari,
trio strumentale basato sul virtuosismo legato a un certo tipo di rock, quello
che fa capo alla scuola di Satriani e Vai. Eccone un esempio:
A seguire Barbara Rubin che con il suo gruppo ha presentato parte dell’album “Under The Ice”, con l’aggiunta della
chicca “Must We Change”, nota per la proposizione di Jon Anderson. Nonostante
qualche inconveniente tecnico che ha portato, anche, ad un’interruzione, giudico convincente la
performance di Barbara, che non avevo mai sentito dal vivo:
Cala il sole - ma non
i moscerini - e sale sul palco Il Tempio delle Clessidre. Sono fisicamente provati,
in pieno jet lag, appena arrivati dagli Stati Uniti dove hanno partecipato al
Near Fest. Ma il palco è una droga positiva e regala energie insperate. E così,
nasce l’occasione per ascoltare qualcosa di nuovo, che farà parte del prossimo
album. Anche per loro uno spicchio di concerto:
I Panic Room, direttamente dal Galles, chiudono la
serata.
Band poco conosciuta in Italia, ma voluta fortemente da uno
degli organizzatori, Mauro Callegari, hanno viaggiato in un furgone -
vero tuffo negli anni ’70 - per 1800 chilometri, e hanno dimostrato qualità,
simpatia e voglia di integrazione. La cantante e leader, Anne-Marie Helder, ha colpito un po’
tutti per le sue doti canore, per i suoi sforzi di esprimersi nella nostra
lingua e per il suo modo di stare sul palco. Bello vedere Anne-Marie
socializzare con Barbara Rubin ed Elisa Montaldo del Tempio delle Clessidre.
Ecco una pillola di concerto:
La seconda giornata nasce sotto allo stesso cielo infuocato.
La notte ha favorito riflessioni e lasciato qualche tensione
palpabile anche ad occhi esterni.
Ma un’altra giornata di piena musica aspetta il pubblico,
probabilmente lo stesso del giorno precedente.
Set ridotti per tutti, ovvio compromesso per mantenere la puntualità
nello svolgimento del programma.
Si parte subito con il grande blues di Fabrizio Poggi, con una nuova
formazione - almeno per me - che prevede anche la partecipazione del
tastierista Pippo
Guarnera e dell’ex “Treves” Tino Cappelletti al basso, oltre al sorprendente
chitarrista Enrico
Polverari.
Fantastici, come sempre:
Ritorna sul palco Anne-Marie Helder, questa volta da sola, con la
sua chitarra. Trenta minuti acustici in cui si evidenziano ulteriormente le
doti canore della vocalist e la sua personalità:
E’ già molto tardi - rispetto al match di calcio - quando i Former Life salgono sul palco. Ci rimarranno anche
successivamente - tre di loro - per
suonare con Aldo Tagliapietra, per cui il loro set è il più sacrificato, una
quindicina di minuti, tempo durante il quale presentano una novità che troverà
spazio nel prossimo album.
Sono gli unici - a parte Tagliapietra, che praticamente ha
fischiato l’avvio della partita, decretando anche “… e che vinca il migliore…” – a non aver “chiacchierato” sul palco,
anche se qualche novità importante andava evidenziata, come la ristampa del
loro album - con l’aggiunta di una bonus track - e l’uscita “regolare” nei
negozi di dischi, nel prossimo settembre. Anche per loro un piccolo ricordo:
E arriva il momento di Aldo Tagliapietra che, attorniato da nuova linfa
(i tre Former Smaniotto-De
Nardi-Ballarin più Aligi Pasqualetto), propone parte dell’ultimo
album, “Nella pietra e nel Vento”-
ora anche in versione vinile - miscelato a un po’ di storia delle ORME. Nonostante
le difficoltà oggettive a cui ho fatto accenno, la performance cattura le
attenzioni dei presenti, molti venuti appositamente per lui:
E quando uno stuolo di bambini (ma dov’erano i genitori
prima?) con la faccia pitturata col tricolore e le trombette in mano cala sul
green e si avvicina al palco, Aldo capisce che è il momento di lasciare spazio
allo sport. La musica finisce con “Sguardo
verso il Cielo”, e proprio dal cielo sembra cali lo schermo destinato alla partita, mentre
scende il sipario sul 1° Val Curone
Music Festival.
Cosa resta di tutto questo, davanti ai miei occhi di persona
“coinvolta in minima parte”, ma presente nei due giorni?
-Il coraggio di
aver portato la musica, certa musica, laddove non era mai arrivata.
-Un’esperienza che
potrebbe essere utile per il futuro.
-Qualche inconveniente
tecnico, ma è mia profonda convinzione che le manifestazioni di questo
genere siano apprezzate dal pubblico per molti motivi, e che ogni cosa passi in
secondo piano quando si viene a creare lo spirito aggregativo che solo la
musica sa fornire. E quando tutto va bene, chi ne patisce non è il pubblico o
il musicista, ma chi organizza, soprattutto se tutto questo non è un mestiere ma una passione, perché oltre a
responsabilità e fatica, verrà a mancare anche la partecipazione personale, che
è alla base dell’idea iniziale: chi ha ruoli manageriali difficilmente riuscirà
a godersi la musica.
-Molte polemiche
e, temo, la rottura di qualche equilibrio.
-Molta buona musica,
e occorre ricordare la presenza di professionisti, oltre ovviamente a Aldo Tagliapietra.
-Il piacere di
vedere l’entusiasmo di una band inglese che, nonostante una certa notorietà in
patria, ha raccolto poco pubblico nel mini tour italiano.
Tra i miei personali
piaceri inserisco l’aver contribuito a parlare
di musica, assieme a Zuffanti, Rubin, Montaldo e parte del pubblico: nella discussione era compreso anche
il nodo cruciale degli spettacoli live e della loro gestione. Parlare dei
problemi legati al contorno musicale, e condividere i nostri pensieri, è
l’unico mezzo che abbiamo per dare un contributo ad una possibile -utopistica? -
svolta culturale.
Inserisco anche un siparietto
interessante, almeno per me, legato al pranzo della domenica, momento in
cui ho potuto discutere con Sergio De
Nardi - papà di Andrea e “antico” tastierista - e con Aldo Tagliapietra,
dell’accordatura del sitar, del mandolino e dell’accordatura aperta “in sol” di
Keith Richards, oltre ad aver scoperto retroscena curiosi sul viaggio che le
ORME fecero all’Isola di Wight … piccole soddisfazioni!
L’alta temperatura ha provocato un inconveniente che,
fortunatamente, non ha avuto gravi conseguenze: Mirko Marogna, il responsabile del
service, nella giornata di domenica ha accusato un malore, e per approfondire
gli accertamenti è stato ricoverato per alcune ore. Momento inusuale che ha
visto l’intervento del Soccorso Alpino, che ha
eseguito il trasporto in ospedale con un elicottero atterrato a pochi metri
da noi: l’ho registrato pensando a Mirko, per ricordargli il suo… eccesso di
protagonismo!
Ancora una volta ci siamo interrogati su cosa occorre fare
per smuovere la gente… su come portare suoni “diversi” ai giovani, e in questo
caso non c’era l’alibi della musica di nicchia, di quel prog che sembrerebbe
solo adatto a pochi nostalgici.
Un raggio di luce mi è arrivato dal giovane Federico, forse diciottenne (ma non ci
giurerei), impegnato nell’occasione nei piccoli lavori di contorno e con
l’oneroso compito (assieme all’amico Matteo)
di passare la notte tra sabato e domenica in un sacco a pelo, negli spogliatoi
del campo sportivo, per “curare” l’attrezzatura tecnica.
Parlando con lui ho scoperto del suo amore per la musica, del
suo costante impegno e della sua competenza su situazioni che nemmeno suo padre
ha potuto vivere in diretta, per motivi anagrafici.
Certo, la sua conoscenza così approfondita di certi
particolari di quarant’anni fa non può considerarsi la normalità, ma tra lo
zenith e il nadir possono esserci diverse posizioni intermedie, ed è a queste
che, ragionevolmente, possiamo sperare di arrivare.
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