E’ iniziato in Piazza Cattedrale, ad Asti, il tour italiano estivo dei Jethro Tull.
La prima delle cinque date, il 14 luglio, ha visto il tutto esaurito nei posti a sedere, con larga parte di pubblico anche nella zona più lontana dal palco, sintomo di un entusiasmo che non accenna a scemare quando la materia in oggetto porta il nome “J.T.“.
Che sia un atto di fede, una voglia di conferme sullo stato di salute generale o una necessità di alimentare la speranza rivolta al futuro, ha alla fine poca importanza; di fatto esistono motivazioni profonde che fanno sì che un lungo matrimonio tra loro (la band), e noi ( gli appassionati del genere) non dia segni di cedimento… magari qualche sintomo di “fatica di rapporto”, ma le radici sono ben salde nel terreno della musica di Ian Anderson.
Perché “la musica di Ian Anderson?” Con tutto il bene che si può volere agli altri, Martin Barre in primis, chi inventa e conduce il gioco è sempre lui, Ian, in ottimo stato di forma.
Tutto questo è stato palese anche ad Asti, dove i Jethro Tull hanno sfoderato una performance che gli addetti ai lavori hanno giudicato tra le migliori degli ultimi dieci anni.
Per qualche strano gioco tra inconscio e realismo, viene ormai ad innescarsi un meccanismo che fa si che, nel momento in cui ha buon gioco l’istinto, e venga naturale accompagnare sottovoce brani superconosciuti, l’emulazione non sia rivolta ad un giovane Anderson, ma a quello attuale, cioè a quello straordinario musicista che anche ieri, soprattutto nei primi due brani, ha sofferto e fatto soffrire, nel tentativo di raggiungere le note più alte. Ma dato per scontato questo stato vocale, Ian Anderson ha dato meglio di se in tutti i ruoli a lui riconosciuti, dando fondo a tutte le energie che, a giudicare da quanto ci ha fatto vedere, sono ancora notevoli.
Martin Barre si è dimostrato più pimpante che mai, preciso, tecnico, fantasioso e con qualche spunto nuovo. Un vero spettacolo.
Doan Perry, nascosto dietro ai “tamburi” (non ci sono stati brani che hanno richiesto la sua presenza in primo piano), non ha concesso molto allo spettacolo, restando diligentemente dentro al contesto.
David Goodier ha acquistato nel tempo autorevolezza e i suoi duetti al basso con Barre e Anderson sono tra le cose più godibili della serata.
Resta un po’ in sordina John O'Hara, che privilegia il lavoro di tessitura delle trame, ruolo per cui, probabilmente, è stato arruolato.
Nella “scaletta” della serata la parte del leone spetta all’album “Aqualung”, con alcune innovazioni acustiche (Hymn43) e versioni più standard (Aqualung, My God). Non mancano mai la versione corta di Thick as a Brick, Bourèe e Living in the Past, mentre non è del tutto usuale ascoltare Budapest e Heavy Horses.
Ma l’elenco dei brani serve solo per la storia, ciò che rimarrà impresso nelle menti dei presenti è la qualità, l’energia, e l’evidente soddisfazione da palco che, come in uno specchio, si riflette sul pubblico che diventa esso stesso parte del concerto.
Serata fortunata, per la musica in generale e per me che, non mi è chiaro come ho fatto a meritarmelo, ero in seconda fila, a tre metri dalla band, che non avevo mai visto da così vicino.
Tutto è andato per il verso giusto, e il cielo sempre più nero col passare dei minuti, ha dato tregua a tutti, e alla fine il pubblico al completo si è trovato in piedi per un’incredibile versione di Locomotive Breath, brano che, in questa veste, sono riuscito ad apprezzare nonostante la mia refrattarietà dovuta ad eccessivo ascolto.
Davvero una bella serata di musica!