Ho ancora fresco nella
memoria il giorno in cui arrivò la notizia che Jimi Hendrix era stato
trovato morto. Avevo 14 anni e avevo da poco visto Woodstock e
Jimi era per me un mito.
Qualche mese fa, è
uscito un articolo sulla Stampa online dove veniva descritta
una verità diversa da quella conosciuta, e il decesso per overdose veniva
trasformato in omicidio.
Vediamo quelle note.
I fan più irriducibili
non si arrendono al finale aperto firmato dal medico legale e continuano ad
arrovellarsi sulle ultime ore del grande Jimi Hendrix nella camera spoglia del
Samarkand hotel, nel cuore della vulcanica Londra del 1970. Che gli eroi si
spengano giovani e spesso in circostanze poco chiare è l’assioma di chi si
nutre di leggende. Figurarsi nel caso del rocker rivoluzionario considerato
dalla rivista Rolling Stone Magazine il maggior chitarrista della storia della
musica. Il libro di un ex tecnico di Hendrix, James «Tappy» Wright, riapre ora
il caso svelando un retroscena inedito e destinato a scatenare i patiti della dietrologia.
Secondo Wright, che a giugno lancerà in Gran Bretagna Rock Roadie, memorie di
un fonico all’ombra dei concerti di Tina Turner e Elvis Presley, l’icona di
Woodstock non morì d’overdose, come spesso vagheggiato, ma fu ucciso dal suo
manager disposto a tutto pur d’incassarne la polizza sulla vita. A rivelargli
il delitto, spiega l’autore nella prefazione, fu lo stesso assassino, Michael
Jeffrey, dopo una pesantissima sbronza carica di fantasmi e rimorsi.
«Non riuscivo a sostenere quella conversazione, a guardare l’uomo che conoscevo da così tanto tempo, la sua faccia pallida e la fila dei bicchieri vuoti davanti a lui», scrive «Tappy» Wright. L’episodio risale al ‘71, un anno dopo la scomparsa di Hendrix. La sera del 18 settembre 1970 i medici archiviano il decesso come «intossicazione da barbiturici e annegamento nel vomito» lasciando aperta l’ipotesi sulle cause. Se avessero anche solo menzionata l’eventualità di un suicidio l’assicurazione avrebbe dato battaglia. Invece, forte del mistero, Jeffrey si presenta alla cassa e riscuote, senza colpo ferire, 2 milioni di dollari, l’equivalente di 1,2 milioni di sterline attuali (1,3 milioni di euro).
Un gol a porta vuota. Salvo portarsi dentro il segreto machbetiano fino a un quantitativo di alcol sufficiente a giustificare la confessione: «Dovevo farlo Tappy, capisci non è vero? Dovevo farlo. Sai dannatamente bene ciò di cui parlo. Dovevo farlo, Jimi mi sarebbe stato più redditizio da vivo che da morto. Quel figlio di puttana voleva mollarmi. Se lo avessi perso avrei perso tutto».
L’epilogo della storia
o l’ennesima puntata d’una leggenda eterna quanto la Jimi Hendrix Experience?
Nel ‘92 John Bannister, il chirurgo che aveva seguito Hendrix al pronto
soccorso, scrisse in un articolo d’essere convinto che il chitarrista fosse
«annegato» nel vino nonostante la scarsa percentuale di alcol trovata nel
sangue: «Ricordo nitidamente la quantità di vino che c’era nel suo stomaco e
nei polmoni. Pensai che avesse preso sedativi e bevuto moltissimo prima di
andare a dormire. Sospetto che si sia strozzato con l’alcol, a casa o lungo la
strada per l’ospedale». Inutile sperare che Jeffrey aggiunga
nuovi dettagli o smentisca quelli rivelati da «Tappy»: è morto un incidente
aereo nel ‘72, neppure il tempo di spendere interamente l’eredità del mito.
(Francesca Paci)
(Francesca Paci)