Carnegie Hall, New York, 3 febbraio 1970
“Più che un love-in hippie sembrava la terapia dell’urlo primordiale stile John Lennon”
Melanie era la principessa della lacrima facile del flower power, la prima ragazzina hippie in crisi di indentità. Contemporanea di Carole Kink, Carly Simon e Joni Mitchell, era spiritualmente più affine a Kurt Cobain: canzoni d’amore, sconfitta e solitudine, canzoni che da delicate diventavano rumorose, da tragiche diventavano trascendentali nel giro di pochi secondi, canzoni strimpellate con l’implacabile ferocia di una punk. Piccola di statura, dotata di una voce deliziosa, per nulla in sintonia con le buone maniere e la moderazione post hippie, Melanie non teneva nascosto nulla.
Presente a quasi tutti i più importanti festival rock,
Melanie poteva contare su un fedele seguito di fan adoranti che la
consideravano un faro solitario dell’innocenza e sincerità della “Love
Generation”.
Alla Carnagie Hall, “nel luogo dove sono
cresciuta”, e in occasione del suo ventitreesimo compleanno, il
pubblico svolse un ruolo più che decisivo nel denudamento rituale dell’anima
post psichedelica. Fu una notte di silenzi in cui si poteva sentir cadere uno
spillo, e di invasioni di palco, di monologhi impudichi e di risate timide. A
un certo punto, proprio mentre le richieste della platea per questa o quella
canzone diventavano sempre più pressanti e isteriche, una voce solitaria si
fece largo fra le altre;” Canta quello che vuoi!”
Presa coscienza della propria insensibilità, la folla approvò con un potente “Sì!”.
Proprio a causa di quel seguito adorante, Melanie aveva ricevuto accuse di banalità artistica (le stesse rivolte in Gran Bretagna ai T. Rex) solo in parte giustificate.
Presa coscienza della propria insensibilità, la folla approvò con un potente “Sì!”.
Proprio a causa di quel seguito adorante, Melanie aveva ricevuto accuse di banalità artistica (le stesse rivolte in Gran Bretagna ai T. Rex) solo in parte giustificate.
Accanto alle canzoncine da battimani ritmico come “I Don’t
Eat Animals e Psychotherapy”, ce n’erano altre che corrispondevano
perfettamente alla dichiarazione di principio enunciata nei versi di Tuning
MyGuitar: “Canterò la vita che vivo/e cercherò di alleviare il
dolore di quelli intorno a me…”
Se si vuole parlare di catarsi musicale, allora sarà difficile trovare qualcosa di più catartico dei quattro palpitanti brani che aprirono il concerto alla Carnagie Hall: Close To It All, Uptown and Down, Mama Mama e The Saddest Thing. Ma fu con Tuning My Guitar che toccò vette epiche in grado di fare impallidire Judy Garland. “Non mi importa chi sei tu”, urlò a un certo punto Melanie nel corso di quella straordinaria esibizione immortalata nell’album Leftover Wine.
Se si vuole parlare di catarsi musicale, allora sarà difficile trovare qualcosa di più catartico dei quattro palpitanti brani che aprirono il concerto alla Carnagie Hall: Close To It All, Uptown and Down, Mama Mama e The Saddest Thing. Ma fu con Tuning My Guitar che toccò vette epiche in grado di fare impallidire Judy Garland. “Non mi importa chi sei tu”, urlò a un certo punto Melanie nel corso di quella straordinaria esibizione immortalata nell’album Leftover Wine.
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