mercoledì 31 luglio 2013

Tanti auguri Jeffrey Hammond-Hammond



Ha compiuto ieri 67 anni, JEFFREY HAMMOND HAMMOND, nato il 30 luglio 1946, bassista dei "Jethro Tull" dal 1971 al 1975, presente in sei album.
Un musicista "rubato" all'arte, fortemente voluto da Anderson, tanto da dedicargli tre brani.
Amico di Ian Anderson dall'età di 17 anni, quando si conobbero a scuola, formò assieme a lui una band giovanile con altri due futuri membri dei Jethro Tull, John Evan e Barriemore Barlow. Decise ben presto però di lasciare la musica per dedicarsi alla pittura, ma nel 1971 fu convinto ad entrare a far parte del gruppo, per sostituire Glenn Cornick, suonando il basso nell'album Aqualung.
Nel 1975 Hammond abbandonò la musica per tornare a dedicarsi alla sua vera passione, la pittura. Fu sostituito da John Glascock.
Stravagante, come tutti gli "artisti", aveva un modo tutto suo di stare sul palco.

Estratto da una recensione del 1974:

"... sul palco Anderson vestito come un principe rinascimentale, saltava come un forsennato da una parte all'altra del palco, incutendo timore e reverenza, imitato dallo "scalciare" di Hammond Hammond vestito a "strisce bianche e nere come una zebra" dall'aspetto Zappiano..."

Si è "ritirato" a fare il pittore, è tornato su di un palco (anche solo per salutare), dopo 33 anni alla Convention di Alessandria del 2008.


Happy Birthady Jeffrey




Biografia ufficiale

martedì 30 luglio 2013

Maelstrom-On The Gulf, di Gianni Sapia



Come un Indiana Jones della musica, la genovese Black Widow scava i terreni che hanno visto protagonisti tra gli altri Genesis, Gentle Giant, Van Der Graaf  Generator e Soft Machine e scova reperti a cui solo oggi si cerca di attribuire il valore che meritano. Dall’inesauribile miniera del progressive dei ’70 vengono dissotterrati e portati alla luce monili e gioielli di cui si era persa memoria, fino addirittura ad ignorarne l’esistenza. Ma non è mai troppo tardi per porre rimedio agli errori del passato. Perlomeno non in questo caso. Con la stessa perizia con cui due amanti di lungo corso sfiorano ed accarezzano i loro corpi, solleticandone le parti più sensibili, il marchio genovese offre agli appassionati del genere i Maelstrom, con l’album ora omonimo, ma che nel ’73, quando fu registrato, sarebbe dovuto uscire sotto il titolo On The Gulf. Sarebbe, già. Perché non vide la luce fino agli anni ’90, quando una label privata ne pubblicò una versione in CD, naturalmente introvabile. Resta un mistero sul perché un lavoro come questo non abbia mai avuto i giusti riconoscimenti. Ma il mistero altro non è che un amplificatore del fascino, dove già l’oggetto del mistero sia di per sé affascinante. E in questo lavoro di fascino ce n’è, ce n’è un bel po’. Con i Maelstrom l’America ha un’impennata d’orgoglio e rivela al mondo come quel tipo di progressive così sofisticato non fosse un’esclusiva dei cugini inglesi, ma si poteva fare anche nel Nuovo Mondo, magari insaporendolo con qualche spezia locale, tipo il jazz. Il nome maelstrom poi è stato ripreso da un’infinità di altre band, soprattutto nel metal, ma chissà, forse loro sono stati i primi, gli originali. Un mio pensiero romantico. L’album presenta dieci tracce, di cui le prime otto registrate appunto nel ’73 a Fort Walton Beach, Florida, mentre le ultime due furono registrate dal vivo nel 1980 in occasione de The Three Rivers Festival a Fort Wayne, Indiana. La prima line up era formata da Roberts Owen (chitarra acustica, sassofono, piano, mellotron e voce), James Larner (flauto, vibrafono, marimba, piano, armonica), Paul Klotzbier (basso), Mark Knox (organo Hammond, mellotron, clavicembalo), Jim Miller (batteria e percussioni) e Jeff McMullen (voce solista, chitarra elettrica), mentre nei due brani live, della formazione originale troviamo i soli Owen e Klotzbier accompagnati da Rollin Wood (batteria) e D. Kent Overholser (organo Hammond, mellotron, synth). Un album affascinante dicevo, fin dal primo pezzo, Ceres, dal carattere dolce e favoleggiante, dai cambi di ritmo indolori, quasi sfumati, che a circa metà percorso immerge l’ascoltatore in un’atmosfera più cupa e riflessiva, salvo poi indirizzarsi, dopo un ponte “organico”, verso una fuga liturgico-ecclesiastica. Le influenze jazz sono ben riconoscibili nell’incipit di In Memory e questa febbre accompagnerà tutto il brano, condito da intermezzi comici e da innesti sonori di ogni sorta che ne fanno un vero momento surreale. The Balloonist entra subito nel vivo e non ne esce più. Vivo e vibrante fino alla fine, anche quando sembra che i toni vogliano abbassarsi. Si dà un po’ di tregua apparente nella parte vocale, ma la frenesia che lo contraddistingue resta latente senza mai scomparire del tutto. Il classicismo di Alien, pur nella sua brevità, lascia in chi ascolta un gusto di buono, di dolce. È un morso ad un frutto maturo. Il brano seguente, Chronicles, segue il cammino tracciato dal brano precedente, ma si trasforma ben presto in qualcosa di più articolato, più acido, caratterizzato dalla smania del sassofono. Law and Crime è il pezzo più pop, quello di più facile ascolto, godibile nel suo contesto. Una sorta di pausa caffè durante un brainstorming. Il momento di riposo, o forse sarebbe meglio dire di riflessione, prosegue con Nature Abounds. Un brano bucolico che serve da apripista per Below The Line, pezzo dal sapore pinkfloydiano. Una ballata di carattere, che non conosce cali di tensione, il cui crescendo finale dà ulteriore vigore ad una personalità ben marcata. È un viso con gli zigomi alti, la mascella squadrata e lo sguardo fiero. Anche qui, come in quasi tutto l’album, si passa dal bosco delle streghe al bosco delle fate continuamente, senza interruzione. E siamo ai due live, Opus None e Genesis To Geneva, due brani strumentali in cui è evidente che la sperimentazione si è impadronita della creatività della band. Un esercizio di tecnica strumentale che però non risulta essere fine a se stesso, ma lascia chiaro in mente il disagio, il disappunto, per quello che poteva essere e non è stato, per quanto i Maelstrom avrebbero potuto e probabilmente voluto regalare all’appassionato pubblico del progressive-rock, ma che non hanno potuto farlo perché … perché … perché?!? Probabilmente non lo sapremo mai, ma per fortuna c’è la Black Widow Records che scava, setaccia, spolvera e lucida i tesori nascosti che il tempo ci nasconde, sia che si tratti di passato, sia che si tratti di futuro. Finché esisteranno persone come quelle che danno vita al marchio ligure, beh, allora tutto può succedere, anche che un piccolo gioiello dimenticato come Maelstrom venga riproposto a buongustai la cui fame di buono non è mai sazia. Fortuna e gloria Black Widow Records.


Track List:

Ceres (Roberts Owen)  
In Memory (Mark Knox)  
 The Balloonist (Roberts Owen)  
 Alien (Jeff McCulllen)
Chronicles (James Larner)  
Law and Crime (Roberts Owen)  
 Nature Abounds (James Larner)  
 Below The Line (Roberts Owen)  
Opus None (Roberts Owen)  
 Genesis to Geneva (D. Kent Overholser)

lunedì 29 luglio 2013

GEISHA RED CAN SATIRI


GEISHA RED CAN SATIRI è l’album omonimo, il primo, di una giovane band pavese, di recente formazione, ma di buona esperienza.
Senza il loro aiuto mi sarebbe stato difficile sviscerare i dettagli del progetto, e ritengo quindi particolarmente interessante l’intervista che segue, occasione in cui tutti gli aspetti importanti vengono almeno sfiorati.
Una delle cose che spesso affronto con le nuove band è il nome, che è poi la genesi per ogni ensemble musicale: “… che nome ci diamo?”.
Non svelo ancora il "segreto", ma è bello captare lo sforzo fatto per creare un brand che sia anche simbolo di una filosofia musicale, che si basa sulla contaminazione tra le differenti arti, cosa che apprezzo particolarmente. Un esempio? La presenza occasionale di un artista, pronto ad afferrare il feeling della fase live  per trasformarlo in dipinto…
Va da se che un concerto dei GRCS diventa spettacolo nello spettacolo, e la frase… “… se non conosci la nostre canzoni non puoi ovviamente cantarle però facciamo di tutto perché tu possa almeno ballarle…”, la dice lunga su ciò che ci potrebbe capitare di vedere e ascoltare durante i loro concerti.
Nove tracce in lingua inglese per un album che profuma di America, mixato a L.A. e masterizzato a Nashville; nove brani che presentano un volto chiaro che colloca immediatamente nella categoria groove e funky, generi che forse rappresentano un minimo comune denominatore tra i musicisti, ma la base dell’album è la libertà espressiva, che porta a spaziare dal rock al momento acustico, passando per il punk, con una fermata sullo spaccato più ameno degli anni ’70.
Le diversità - e quindi il differente background dei singoli componenti - determinano la varietà della proposta, che mantiene alla base un’enorme valore energetico la cui risultante è il rock, una “famiglia” musicale che si tende a dilatare, modificare, attenuare od esasperare, ma alla quale si può applicare il principio della conservazione dell’energia, così come lasciano intravedere le affermazioni dei GRCS.
In questo campo nulla si crea e nulla si distrugge, ma anche il rock - che cosa è se non energia esplosiva? -  può essere trasformato, e questi giovani musicisti dalle idee chiare ne danno una chiara e netta dimostrazione che lascia intravedere un futuro compositivo roseo, ed una adeguata risposta del pubblico.
GEISHA RED CAN SATIRI non va studiato a lungo, ma basterà un unico ascolto per un primo giudizio, positivo, che non cambierà più. Certo, occorre avere bisogno di sana musica, non ancorata a schemi e a codifiche, ma decisamente pulsante e imprescindibile dal battito costante che solo certe sezioni ritmiche sanno fornire.
A fine post un esempio musicale, ma prima di arrivarci prendiamo atto di idee brillanti, di giovani che scelgono la via più difficile, quella dell’autoproduzione, ma sicuramente più gratificante.
Le soddisfazioni arriveranno…


L’INTERVISTA

Leggendo la vostra biografia si scopre una genesi della band piuttosto recente, ma ascoltando la vostra musica si ha la certezza di trovarsi dinanzi a musicisti con idee chiare e con un ottimo know how: che tipo di storia e cultura musicale avete alle spalle?
La data di nascita della band la fissiamo nel 2010 perché è l'anno in cui la formazione si è stabilizzata con l’arrivo di Valerio alla voce e poi nel marzo 2012 è subentrato Manuel al basso . Il realtà il primo nucleo della band risale a un paio di anni prima, quando Tomas e Johnny (chitarra e batteria) si sono conosciuti e hanno iniziato a suonare insieme. Le idee di base di alcuni pezzi che poi sono finito sul disco vengono proprio da quel periodo lì e poi sono state elaborate e rielaborate nel tempo fino alle versioni di oggi. Musicalmente siamo molto diversi gli uni dagli altri, sia a livello di gusti musicali e cultura musicale, sia a livello di esperienze...c'è chi che non ha mai avuto altre esperienze di band prima di questa, così come c'è chi ha suonato un pò di tutto e un pò in ogni contesto. Questa diversità, seppur a volte non semplice da gestire, è comunque preziosa, perché porta a un continuo scambio di idee ed è la vera forza del gruppo.

Proponete qualcosa di originale, che miscela differenti influenze: come definireste la vostra musica… a parole?
Ci etichettano sempre come "funk/rock" e quando dici "funk/rock" il collegamento con i Red Hot Chili Peppers è praticamente automatico…ma per fortuna con loro non centriamo niente. Non è sbagliato dire "funk/rock", ma è comunque riduttivo...il sound di base è rock e ci sono groove funky, ma c'è anche altro. Nel disco c'è il pezzo funky classico, c'è il pezzo hard rock, il pezzo punk, c'è una ballata acustica con i violini, ci sono intermezzi latin e armonie quasi jazz quindi non sappiamo nemmeno noi come descriverlo a parole e forse è proprio questo il nostro punto di forza: siamo originali e difficilmente classificabili in un solo genere.

E’ uscito il vostro primo album omonimo, GEISHA RED CAN SATIRI: quale il messaggio? Esiste un filo conduttore tra le varie tracce?
Il filo conduttore tracciato nel disco è essenzialmente la libertà che abbiamo dato alla fantasia e alla creatività per andare alla ricerca del nostro sound, il voler suonare per il semplice piacere di farlo e suonare quello che ci piaceva in quel momento. Credo che questo spirito si colga molto ascoltando il disco ed è molto rappresentativo del nostro modo di essere e di fare. 

Perché tra una  Geisha e i Satiri trova spazio una lattina rossa?
Il nome GEISHA RED CAN SATIRI è nato per caso dopo degli strani viaggi mentali ma ci rappresenta molto. Da una parte c'è l'immagine della Geisha, un'artista nata e creata per soddisfare chi ne usufruisce, esperta nell'arte del canto, della musica, della pittura, del teatro e del ballo e rappresenta il mondo orientale. Il Satiro invece è un'immagine della cultura occidentale ed è l'esatto opposto della Geisha...venivano rappresentati come esseri libidinosi dediti alla promiscuità e inclini al vino e alla baldoria. La lattina rossa è l'unica cosa che sta tra questi due mondi e serve solo per attingere le pennellate che li uniscono. Questa idea di contaminazione è alla base di quello che cerchiamo di fare come band, non solo a livello musicale, cercando di spaziare tra i generi senza fossilizzarci, ma anche a livello di spettacolo, cercando di unire più discipline nello stesso contesto. Spesso dal vivo portiamo con noi un disegnatore che dipinge dal vivo (dipingendo anche sui volti della gente tra il pubblico) mentre noi suoniamo, con l'obiettivo di trasformare in immagini quello che noi stiamo facendo con la musica. Sempre partendo dall'idea di contaminazione e multidisciplinarietà, da un anno a questa parte organizziamo nella cascina dove abbiamo la sala prove (ce ne sono circa 50 con altrettanti gruppi), delle "Feste della musica" con l'obiettivo, da una parte, di portare la gente nei luoghi dove la musica nasce e cresce (visto che almeno a Pavia è rimasto un solo locale live quindi suonare dal vivo è sempre più difficile), dall'altra di mettere nello stesso contesto band e musicisti diversi e cercare di creare relazioni e collaborazioni. Durante la prima festa abbiamo fatto suonare 14 band dal pomeriggio fino a notte inoltrata...ci sono state band che facevano metal, elettronica, psichedelica, cantautori, pop, funky, latino e un trio voce/chitarra/violoncello...e poi jam session fin quasi all'alba. All'ultima festa fatta a giugno, oltre alle band, siamo riusciti ad avere una compagnia teatrale che ha messo in scena un testo di Harold Pinter, e la visita di Pierpaolo Capovilla del "Teatro deli Orrori" che è stato con noi tutta la sera e gran parte della notte ad ascoltare e parlare con le band.

Nell’ultimo anno avete partecipato ad un mini tour estivo in terra di Albione: come siete riusciti ad organizzarlo, e come giudicate l’esperienza?
Il tour in UK è arrivato dopo aver vinto un concorso nel 2011. Ora però, anche con l'aiuto di Andrea Lepori (il fonico con cui abbiamo prodotto due pezzi del disco e mixato il tutto) stiamo lavorando autonomamente per cercare di tornare a suonare a Londra nel prossimo autunno/inverno. L'esperienza è stata sicuramente positiva...ha aiutato a creare ancora più affiatamento nel gruppo ed è stato bello poter suonare la propria musica e avere riscontro da un pubblico sicuramente più attento di quello che troviamo in un qualsiasi locale qui in Italia. E' una frase fatta ma c'è una diversa cultura della musica e dei concerti…o semplicemente loro ne hanno una e noi no. C'è interesse, attenzione e partecipazione ai concerti e la gente paga volentieri per vedere gruppi che non conosce e sentire qualcosa di nuovo.

L’album è stato mixato a Los Angeles e masterizzato a Nashville, luoghi che profumano di musica, seppur di diversa tipologia. Come siete riusciti a realizzare il progetto? Poca fiducia nelle possibilità di casa nostra o mero elemento di prestigio?
La struttura di Nashville a cui abbiamo fatto masterizzare il disco è una struttura con cui il nostro fonico (Andrea Lepori) lavora da anni, per cui sapeva che poteva garantirci un ottimo lavoro seppur con budget esiguo a disposizione. La scelta del mixaggio a L.A non è dovuta a questioni di prestigio (anche se gli studi in cui è stato fatto sono studi storici e i nomi che sono passati tra quelle mura fanno rabbrividire) o sfiducia nei mezzi ma semplicemente perché ci sembrava il giusto sfogo artistico che questa produzione doveva avere. Abbiamo avuto questa possibilità e l'abbiamo .

Perché l’utilizzo della lingua inglese?
E' la lingua che viene spontaneo usare. La maggior parte dei nostri brani nasce da una jam...si iniziano le prove jammando un pò per riscaldarci; poi ci si ascolta e ci si segue a vicenda cercando di lasciarci trasportare gli uni dagli altri. Mentre noi facciamo questo con la musica, Valerio fa la stessa cosa con la voce cercando di incastrare una melodia sulla ritmica e sull'armonia che noi stiamo improvvisando e nel fare questo gli viene spontaneo improvvisare parole e frasi in inglese, di senso più o meno compiuto. Su questi abbozzi di frasi e parole poi ci si lavora cercando di tirare fuori un testo con un senso e un messaggio.

Che cosa accade nei vostri live? Come avviene l’interazione col pubblico?
I live sono molto energici e molto fisici... diciamo che ci piace far ballare e far muovere il culo alla gente e per questo la nostra musica si presta molto; è molto difficile stare fermi, sia noi sul palco, sia la gente sotto. Facendo musica nostra, che quindi la maggioranza del pubblico può non conoscere, è fondamentale riuscire a creare questo tipo di connessione band-pubblico. Se non conosci la nostre canzoni non puoi ovviamente cantarle però facciamo di tutto perché tu possa almeno ballarle... questo è il concetto.

Ipotizziamo il futuro: cosa vorreste vi accadesse, musicalmente parlando, nel breve spazio temporale?
Suonare, suonare e suonare...è la cosa più importante per ogni musicista e band. Vogliamo suonare il più possibile, in posti e contesti diversi e con un pubblico sempre diverso. Allo stesso tempo continuiamo a lavorare sempre su brani nuovi, ricercando e approfondendo quello che è il nostro sound. Siamo una band, facciamo musica ed è quello che più ci preme fare.




Biografia
Nati nel 2010 dall’incontro di un gruppo di musicisti pavesi molto eterogeneo in quanto a background musicali, i GEISHA RED CAN SATIRI propongono un repertorio formato esclusivamente da brani inediti e autoprodotti. I suoni tipici del rock si mischiano alle ritmiche swing, le percussioni latine si uniscono ai grooves funky e le chitarre distorte del punk si mischiano a quelle acustiche per creare continue influenze e contaminazioni tra suoni e generi musicali. Nell’ultimo anno, oltre a un mini tour estivo in Inghilterra tra Londra e Brighton, la band ha avuto modo di suonare su palchi storici come quello di "SPAZIOMUSICA" a Pavia,"LE SCIMMIE" a Milano, “CARROPONTE” a Sesto San Giovanni e in contesti importanti tra cui il “MEI: Meeting delle Etichette Indipendenti” a Faenza in seguito alla vittoria del “PAVIA ROCK FESTIVAL 2012”. Sempre nel 2012, con il brano “Pink moon”, partecipa a “TOW THE LINE : SONGS BY NICK DRAKE”, la compilation tributo al cantautore inglese edita da Martinè Records.


domenica 28 luglio 2013

Gianni Leone e Suor Velia


Gianni Leone è un grande musicista, enfant prodige ad inizio anni ’70, motore ideativo de Il Balletto di Bronzo, protagonista di diversi progetti e tutt’ora in fervente attività.
E’ anche uno dei collaboratori di MAT2020, ma le riflessioni e i commenti che periodicamente mi invia sono antecedenti alla nascita del web magazine, e spesso hanno il solo scopo di condividere ricordi o momenti del quotidiano. E’ questa una cosa che apprezzo particolarmente, perché disinteressata e spontanea.
Io ne approfitto per rendere pubblici alcuni dettagli della sua vita… sapere cosa c’è dietro all’aspetto pubblico è sempre interessante e potrebbe aiutare qualche giovane, ausilio che Gianni presta con normalità a chi seriamente glielo chiede.
Il quadretto di oggi ha a che fare con la riconoscenza, e nello specifico dobbiamo ringraziare anche noi Suor Velia, forse determinante per la formazione musicale di Leone.
Scrive Gianni…

Suor Velia Vitali, oggi 85enne, fu la mia prima insegnante di pianoforte. E' a lei che devo le mie basi musicali. Vive e insegna ancora nell'Istituto di Napoli in cui frequentai l'asilo e le elementari.  Parallelamente agli studi scolastici, durante gli ultimi 3 anni, studiai pianoforte e canto con lei. Quante volte, quei suoi occhi blu, osservavano attenti le mie mani per cogliere errori e correggerli! Poi, dalla prima media in poi, cambiai scuola e insegnante.
Ieri mi ha inviato questa sua foto, perfino un po' civettuola (e magari non proprio recentissima, parrebbe...). Io le avevo già spedito un paio delle mie, e ci siamo fatti pure i reciproci complimenti. 

   Leo   
 Roma, 15 luglio 2013.

sabato 27 luglio 2013

Pino Ciccarelli - MAGARI IN UN'ALTRA VITA


Gianmaria Consiglio mi segnala il romanzo+cd di Pino Ciccarelli, MAGARI IN UN'ALTRA VITA, prenotabile al link:
http://www.produzionidalbasso.com/pdb_2653.html
che verrà pubblicato non appena sarà raggiunto il numero minimo di prenotazioni previsto. Chi prenoterà pagherà effettivamente soltanto nel momento in cui si sarà concretizzata la pubblicazione.

LIBRO + CD

Il romanzo racconta la vita di un adolescente ambientata negli anni settanta, un passato prossimo che fece da sfondo anche alla vita dell'autore. 
La musica regna sovrana in ogni pagina del libro come nei cuori dei protagonisti che si muovono all'interno del romanzo così come avrebbero fatto molti di quei ragazzini che vivevano in quell'epoca: sognando di diventare musicisti, affrontando le prime esperienze d'amore e d'amicizia. Le note accompagnano ogni capitolo regalandoci un senso in più, restituendoci la misura di ogni parola, di un sentimento, di un tempo vissuto.
Si è voluto esplorare, insieme al racconto, la musica di un'epoca, andando a pescare brani che risalgono ad anni diversi ma che restituiscono un affresco della musica degli anni settanta e sottolineano l'influenza che ha avuto per quella composta negli anni a venire.
La narrazione guida i protagonisti nel passaggio dall'infanzia all'età adulta con tutto quello che ne consegue: se essa parte raccontando la vita semplice e a volte divertente di un bambino, termina accennando alla complessità della vita adulta, dei problemi affrontati in quel periodo, non ultimo l'avvento della droga. Fa da sfondo una periferia cittadina che a volte protegge e altre stronca; una periferia che è fatta di persone che si conoscono e delle relazioni che stringono tra loro; una periferia fatta di alberi, profumi di fieno ma anche palazzoni, presagio dell'epoca contemporanea, all'ombra dei quali si consumano le gioie e le miserie di chi ci vive. Un ultimo regalo che l'autore ci concede è un cd che ha un' anima propria ma che completa la lettura e ci immerge totalmente nella magia del racconto; delinea con le armonie inedite le personalità dei protagonisti, affiancando a queste melodie i riarrangiamenti di alcuni pezzi dell'epoca.
L'autore Pino Ciccarelli è un sassofonista e clarinettista napoletano, insegnante di educazione musicale. Ha ideato il progetto “Concerto Musicale Speranza”: nel primo cd, "Processione d'ammore", pubblicato per la Polosud Records nel 2009, ad ogni traccia corrono incontro all'ascoltatore, caotici e festosi, il ricordo del padre clarinettista e i turbamenti dell'età adolescenziale. Proprio in questo humus sembrano formarsi le pagine del primo libro dell'autore che, come composizioni melodiche, escono dalla penna di Pino Ciccarelli e ci accompagnano nel viaggio del protagonista che si affaccia all'età adulta.

venerdì 26 luglio 2013

Demetra Sine Die-A Quiet Land Of Fear, di Gianni Sapia


Odio il freddo e l’inverno e ora so con chi prendermela se esistono. Con Ade certo, malvagio dio degli inferi. È stato Lui infatti a rapire Persefone e a far sì che Demetra, dea del  grano e dell'agricoltura, nonché madre della rapita, fermasse ogni attività sulla terra. Ovvio che Zeus questa cosa non la prese bene e obbligò Ade a liberare Persefone. Ma l’infingardo equivalente del biblico Lucifero, prima di liberare la giovane, le fa mangiare i semi di melograno, così che lei subisce, per sei mesi l’anno, l’irrefrenabile desiderio di tornare negli inferi! Qualcuno dice che tra Ade e Persefone nel frattempo fosse nato del tenero e che lei, melograno o no, non fosse poi così dispiaciuta di tornare per un po’ laggiù al calduccio, ma questi sono pettegolezzi da Novella 2000. Insomma che alla fine, per quei sei mesi l’anno, la permalosa Demetra, ferma di nuovo tutto. I sei mesi freddi. L’inverno. Un mito che non conoscevo e che ora, grazie ai Demetra Sine Die, conosco. La musica ha sempre qualcosa da insegnare. Grazie ai fantasiosi genovesi Demetra Sine Die allora, ovvero Marco Paddeu (chitarra e voce), Adriano Magliocco (basso), Marcello Fattore (batteria) e Matteo Orlandi (synths) e ai loro ospiti Bobby “Nappi” Calcagno (tromba) e Silvia Sassola (voce introduttiva in Red Sky Of Sorrow), per aver solleticato la curiosità della mia mente. Curiosità che non ha smesso di essere pungolata durante l’ascolto del loro ultimo lavoro, A Quiet Land Of Fear. È un album spaziale. Ma non nel senso che viene dallo spazio, nel senso che lo occupa. Sembra essere in continua propagazione, come un nuovo universo. Sonorità spesso fatte di echi che sembrano venire da lontano ne fanno un disco cosmico, senza orizzonti, o meglio, con orizzonti ancora da definire, che si spostano sempre un po’ più in là. Fin dal brano d’apertura, Red Sky Of Sorrow, si ha questa sensazione di sconfinamento. La voce della guest Sivia Sassola dà corpo ai versi di Sir William Blake, declamando con reverente trepidazione i versi tratti da Songs of Innocence and Experience, per poi lasciare il campo alle visioni create dalla voce di Paddeu e dal shynt di Orlandi e alla repentina comparsa tribale del ritmo di Fattore, ben coadiuvato dal basso di Magliocco. Quando la chitarra irrompe nel pezzo il gusto dark metal del brano si attacca al palato. In Black Swan e il basso ad indicare la strada, mentre la batteria rende piacevole il panorama, con ritmiche mai banali. Ancora una volta è la chitarra a non lasciare solo il dark, dandogli la giusta compagnia del hard e del metal, mentre synth e voce continuano a non voler delimitare confini. Si arriva allora alla title track, che pur non abbandonando la sconfinata ossessività che sembra caratterizzare il sound dei DSD, lascia aperte le porte ad un’architettura melodica maggiormente riconoscibile. Questo fino a metà brano. Poi tutto viene stravolto. La vena visionaria dei musicisti riprende il sopravvento, il brano diventa surreale, ipnotico e non finisce, non muore mai, continua a far battere il suo cuore, a dare impulsi vitali, trasformandosi nel pezzo successivo, 0 Kilometers to Nothing, che continua ad avvolgerti tra spire sempre più strette con cui l’acida tromba dell’altra guest Roby “Nappi” Calcagno ti incatena. La batteria diventa incessante, quasi un suono unico e il cantato quasi un parlato, dando teatralità al pezzo. È qualcosa che non finisce mai, spazio sconfinato. Distorsioni sonore e cerebrali mi immergono in Ancestral Silence. Poco più di un paio di minuti di visioni sonore , giusto per sottolineare il viaggio cosmico, vera nota caratteristica di tutto l’album. E Silent Sun non si discosta da questa caratteristica. Echi sintetici, voce trasognata e batteria a fare da filo conduttore, fino allo stacco metallaro, atto conclusivo del pezzo. Sono oltre la metà di A Quiet Land Of Fear ed è chiaro ormai che l’intorno è fatto di stelle, universi, pianeti. Un dark metal che viaggia nel cosmo, dove la meta sembra essere il viaggio stesso. E il viaggio continua. Tra basso e synth si inserisce, come già in precedenza, il suono ipnotico della tromba, che si insinua nella mente, cancellando la gravità dai tuoi ricordi e ti trascina in un volo onirico durante il quale digressioni più pesanti sembrano essere vuoti d’aria che ti risvegliano all’improvviso e quando pensi che ti sfracellerai al suolo, di nuovo i suoni tornano sognanti  e ti sorreggono, come fili appesi a pianeti lontani, permettendoti di continuare a restare sospeso e volare tra lune, pianeti e fortune. È Distances, un pezzo decisamente visionario, che si conclude con forza. Per i due minuti abbondanti di Inanis può valere lo stesso discorso fatto per Ancestral Silence. Frasi che non possono essere decontestualizzate. Sottolineature. Accenti. E siamo all’atto conclusivo. That Day I Will Disappear Into The Sun è l’ultima impronta riconoscibile di un viaggio che però non è finito. I Demetra Sine Die raccolgono in quest’ultimo pezzo tutte le tessere del loro puzzle sonoro e si congedano da chi ascolta lasciandogli chiara in testa la sensazione che non è finita. Davanti spazio sconfinato, alle spalle altrettanto. Il nero trapuntato da buchi di luce di stelle. Una musica affascinante che ti accompagnerà lungo il viaggio, fino all’ultima frontiera.

giovedì 25 luglio 2013

Amp Rive- Irma Vep, di Gianni Sapia



È come la danza di una foglia che cade, cullata e sospinta dal vento. Sembra che stia per posarsi, ma una folata dà nuova linfa al suo volo, che prosegue con regolare difformità e sembra non voler mai finire.  È come il confuso orizzonte, che mescola mare e cielo. Il volo dei gabbiani tra batuffoli di nuvole e la scia di una vela che sembra aprire una ferita sull’epidermico mare. È come correre e perdere il fiato in un prato infinito, profumato dal rosso dei fragili petali di mille papaveri. È come un amore che inizia e ti intreccia le budella e ti amplifica i sensi e ti trapunta la pelle e ti secca la bocca e ti fa stupido e felice e ti fa capace di volare e ti fa esultare come Peter Pan e ti fa, ti fa e ti fa ancora. È come un amore che finisce, che parte, si allontana, lento, arranca malinconico il treno della felicità passata. È come il mare d’inverno, in bianco e nero. È una foto, di quelle che:«Dio mio come siamo cambiati!» e i ricordi respirano, disegnando un compassionevole sorriso sul volto. È la colonna sonora di un film che ti piacerà. È Irma Vep degli Amp Rive
Cinque ragazzi di Reggio Emilia, Luca Gabrielli (chitarra), Gualtiero Venturelli (chitarra), Alessandro Gazzotti (basso), Adriano Pratissoli (batteria) e Andrea Sologni (synth e chitarra), che ci regalano sei tele di puro impressionismo. Non riesco a fare un’analisi canzone per canzone, non riesco ad estrapolare ogni singolo brano dal tutto che compongono ed individuarne le peculiarità. Sono anelli della stessa catena, molecole della stessa elica del DNA. Sei pezzi che formano una squadra, ognuno con le proprie caratteristiche, perfettamente compatibili con quelle degli altri. Ingranaggi dello stesso meccanismo. Un album che ti avvolge in un morbido e rassicurante abbraccio fin dal primo ascolto, che sembra sussurrarti all’orecchio “tranquillo, va tutto bene” e si insinua senza malizia nella tua mente, lasciando che sogni e malinconie prendano il sopravvento sul quotidiano. Il disco parte e la tua mente anche, per un viaggio che collega senza interruzione stomaco e cervello, fegato e cuore e ti abbandona in uno stato di catatonica veglia, follia razionale dovuta a quella parte di cervello che ci fa vivere una vita parallela, dove i sogni hanno forma e sostanza. La fredda critica mi fa dire post-rock, chiaramente ispirato a gruppi come Mogwai o Explosions in the Sky. L’uomo ha bisogno di definire per poter controllare. Ma la musica non si definisce, né tantomeno si controlla e Irma Vep gonfia i suoi polmoni con ampi respiri e assapora il gusto e il profumo della musica, soltanto musica. Già, perché non c’è voce. Non c’è voce umana, soltanto la voce universale di onde sonore che riempiono l’aria. Schiacci play e tutto comincia. E finisce. Proprio così. Senti il primo brano, il secondo, il terzo, li senti tutti e quasi non te ne rendi conto. Allora lo ascolti un’altra volta, perché pensi di averne perso un pezzo. Schiacci play e tutto comincia. E finisce. Allora lo ascolti un’altra volta e un’altra e un’altra ancora. La mente che viaggia. Quello che senti diventa secondario e cosa senti si prende la ribalta. L’album scorre fresco e gorgogliante come un ruscello di montagna, grazie alle capacità corali dei musicisti e sulla corrente navigano veloci Procession, Best Kept Secret, A Sort Of Apology, Clouded Down, If e The Apocalypse In F, che ti fanno passare quasi quaranta minuti a divagare tra le tue fantasie. Quasi quaranta minuti che potrebbero essere uno o mille. La relatività del tempo raggiunge la sua sublimazione grazie all’infinito musicale. BEEP BEEP! Il suono di un clacson lontano sgretola le mie fantasie e mi riporta in questo mondo. L’album è finito, il sogno si è interrotto. Resta in me la sensazione di aver costruito qualcosa di bello grazie alle emozioni provate durante l’ascolto dell’album. Non qui, in quell’altro mondo o in quegli altri mondi, che ognuno di noi crea dentro di se, per trovare rifugio quando la realtà diventa difficile, pesante, opprimente. Una sensazione di soddisfazione  macera nello stomaco e da lì si propaga in tutto il corpo, dandomi per un attimo l’emozione della sensazionalità. Ma la cosa che mi riempie ancor di più di meraviglia è la consapevolezza di poter rivivere questa emozione ogni volta che voglio. Sarà sufficiente mettere su Irma Vep degli Amp Rive. È sarà come la danza di una foglia che cade. Come il confuso orizzonte, che mescola mare e cielo. Come correre e perdere il fiato… come un amore che inizia… un amore che finisce… il mare d’inv…. L’inizio di un sogno… senza una fine.

mercoledì 24 luglio 2013

Active Heed-Visions from Realities



Da alcuni giorni non riesco a staccare l’orecchio dalla musica di Umberto Pagnini, il cui progetto, Active Heed, ha portato alla realizzazione del suo primo album, Visions from Realities. Eppure, stando alle parole di Umberto, il suo impegno in campo musicale è relativamente recente, e il risultato sembrerebbe al contrario il frutto di un lungo percorso alla ricerca, anche, dell’originalità.
Gli ho chiesto: “Se dovessi definire a parole la tua musica che termini useresti?”.
“Tentativo di sviluppare un’idea creativa musicale che risulti piacevole da ascoltare, ma allo stesso tempo faccia meditare e ragionare. Mai frivola”.
Genialoide? Toccato dalla fortuna sotto una qualsiasi spoglia o denominazione?
Senza il mio solito gioco basato su di un questionario, tutto sommato standard, sarebbe stato difficile inquadrare Active Heed.
Tutto si basa sulla curiosità, del protagonista della storia e di chi l’ha concepita, e ogni singola nota, ogni singola parola, diventano lo stimolo per attivare una reazione verso l’effetto domino che potenzialmente non ha una fine certa, ma potrebbe essere alimentato dal contributo determinante di nuovo know how musicale.
Musiche e liriche sono di Pagnini, artista capace di creare un concept album, in lingua inglese, che faccio estrema fatica - fatto positivo -  nell’incasellare e definire.
Abbastanza facile di questi tempi trovare il modo per inserire il termine “Prog”, che in questo caso mi pare perfetto se lo si traduce come ricercatezza, impegno, innovazione e recupero di un po’ di storia, anche classica, ma resta comunque l’unicità di un prodotto che mi porta al British, ma non ad una comparazione certa.
Quindici tracce molto varie, utili a raccontare il sogno di chi, beato lui, supera l’elemento terreno riuscendo a comprendere la verità trascendente, preparandosi a ulteriori livelli di piena conoscenza/coscienza.
Un album toccante per chi apprezza le sfumature, anche intellettualoidi… ma anche una musica capace di colpire all’impatto, senza che venga in mente di ricercarne i significati reconditi, sempre presenti in ogni lavoro di impegno.
Il secondo album è già in cantiere, e viene naturale aspettare la prossima puntata.
Certo è che qualche bel live diventerà un obbligo!
Interessante il pensiero di Umberto Pagnini.
L’INTERVISTA

Come nasce musicalmente Umberto Pagnini? Qual è il tuo percorso personale?
Umberto Pagnini nasce musicalmente circa due anni fa, nel momento in cui decide di regalarsi una silent guitar. Da quel momento ha cominciato a comporre musica raffinando la tecnica sullo strumento e nello stesso tempo la tecnica di creazione dei brani. Da sempre i suoi riferimenti sono stati il Symphonic Prog ed il Progressive Metal, ma in realtà i brani di Visions from Realities sono molto variegati e forse li si potrebbe catalogare nel Neo-Prog.

Esistono influenze precise che ti hanno formato, consce o casuali?
Ascolto di tutto basta che sia “progressivo” in senso ampio del termine. C’è del progressivo in molti generi musicali ed in altri, qualsiasi cosa tu possa ascoltare, non ce n’è per niente. Mi piacciono le opere musicali sofisticate in cui, ad esempio, sei costretto ad andarti a leggere i testi per capire il messaggio dell’artista. Mi piace tutto ciò che dimostra originalità senza diventare però astruso e stucchevole.

Mi parli del progetto Active Heed?
Active Heed si potrebbe tradurre in Italiano come “Attenzione Attiva”. Ho scelto questo nome per indicare un atteggiamento sempre attento e curioso, mai soddisfatto, che spiega bene il mio approccio alla creatività musicale. Con Active Heed vorrei entrare in contatto con artisti diversi dai quali attingere il loro peculiare talento per produrre insieme brani di qualità.

Stai presentando il tuo primo album, Visions from Realities: mi racconti qualcosa della costruzione, del messaggio e qualche dettaglio utile per chi lo ascolterà?
Visions from Realities è la storia di Forest the Fly che è un semplicissimo (e qualunque) essere vivente che, non soddisfatto delle spiegazioni che altri gli e ci danno del perchè esistiamo (in senso ampio), cerca (e ci riesce) di trovare una sua spiegazione, la spiegazione di tutto (o del Tutto). Attraverso un percorso a tappe riesce a raggiungere la presa di coscienza della vera Realtà, e riesce a superare il livello di Realtà della vita terrena per passare al successivo. Il secondo album racconterà dei seguenti tre livelli di Realtà.

E’ prevista una pubblicizzazione dal vivo?
Al momento non sono previsti concerti dal vivo.

Quali sono i musicisti e i collaboratori che ti aiutano nel tuo progetto?
Gli amici che mi hanno aiutato nella realizzazione di Visions from Realities sono tutti elencati qui: http://www.activeheed.com/friends.htm

Apprendo dalle tue note che hai già materiale per un nuovo album: hai già le idee chiare su come si svilupperà?
Sì, ho parecchio materiale già pronto su cui sto lavorando, ed ho già cominciato a preparare alcuni brani per il nuovo album. Si svilupperà come il proseguimento di Visions from Realities in cui Forest the Fly affronta il livello del Tempo, quello Matematico e poi quello Duale della Realtà, superandoli ovviamente, e quindi arrivando alla fase successiva del Gioco della Vita.

Testi e musica: che peso dai ai due elementi?
Nel mio caso prima nasce la musica e la melodia della parte vocale insieme ad un’idea di base del momento della storia. Per cui direi che la melodia ha prevalenza in fase creativa anche se poi l’intreccio di parole che determina il testo, a brano completato, aggiunge un valore di unicità facendolo forse prevalere. Credo comunque che in generale si possa dire che testi e musica si bilancio esattamente al centro per importanza.

L’ultima domanda di solito riguarda i progetti futuri, nel tuo caso ti chiedo invece di esprimere un sogno, da realizzare in un tempo brevissimo.
Trovare i musicisti giusti con i quali entrare in sintonia ed insieme portare i miei brani ad un livello qualitativo superiore.

martedì 23 luglio 2013

Prog Legend Night-Il racconto




Prog Legend Night è il nome - significativo - scelto dagli organizzatori di una pregevole iniziativa nata nel milanese, Cusano Milanino per l'esattezza, Parco La Bressanella: l’unione tra forze istituzionali e private può portare a grandi risultati.
Un palco naturale in pietra ha accolto la musica di qualità, e i presenti hanno dimostrato di apprezzare incondizionatamente le quattro ore di performance coperte da tre band.
Alla fine l’obiettivo prefissato - raggiungere le trecento unità - è stato superato, ma l’evento avrebbe meritato ancor di più.
Per chi come me è abbastanza “antico”, erano evidenti i segni - e le meraviglie - del passato, a cominciare dalla location adattissima ai raduni estivi e molto simile a quelle utilizzate negli anni ’70, capiente e… profumata: odori naturali e atmosfera giusta, tra stand gastronomici, merchandising, musicisti in visita e una certa eccitazione organizzativa che accompagna solitamente chi mette la passione davanti ad ogni cosa.
Il motore è la musica progressiva, che per la prima volta è entrata a La Bressanella e, visti i risultatati, potrebbe riproporsi dalla porta principale.
Se dovessi sintetizzare il mio feeling di serata racconterei di un momento particolare, verso la fine dell’esibizione dei Get’em Out, quando ho provato ad allontanarmi dal palco per ascoltare la musica dei Genesis da lontano, posizionandomi all’interno del green e alzando la testa verso il cielo stellato, e per un attimo sono tornato indietro di molti anni, trovando una sorta di “onda perfetta” - così direbbero i surfisti: a distanza di tempo la musica riesce ancora a colpirmi mortalmente con “frustate” che auguro a tutti di provare sulla schiena, e non mi riferisco all’esercito di zanzare o insetti similari che hanno attaccato in massa un audience comunque attrezzata.
Sottolineo l’ovvio… c’è musica e musica, e quanto ho ascoltato nell’occasione è andato oltre le mie più rosee aspettative.
Esistono due piani di percezione della riuscita di un concerto, quella del musicista - quasi mai contento perché tutto avrebbe potuto andare meglio - e quella di chi ascolta e si lascia andare, relegando in un angolo la razionalità. Chi era sul palco si sarà lamentato, tra imperfezioni tecniche, difficoltà da cambio set e umidità, che oltre a pesare dal punto di vista fisico influisce sull’accordatura degli strumenti. L’ascoltatore attento, non accondiscendente per cieca fede musicale ma conscio delle problematiche insite in simili eventi, ha invece gioito, perché i dettagli negativi sono stati superati dalla qualità e dalla quantità, sostantivi che in coppia sintetizzano il successo di una kermesse musicale come la Prog Legend Night.
Aprono i FEM, una giovane prog band che non conoscevo, ma molto vicina al debutto discografico, dopo l’uscita di un EP di sondaggio.
In sei anni di vita i FEM arrivano a delineare l’obiettivo, una produzione propria che riscopre gli stilemi e l’essenza del prog; ma per fare ciò occorre prima assimilare l’esistente - in questo caso “italiano” - e ubriacarsi di tempi dispari e mellotron.
Ed è proprio con un mix di BANCO, PFM e ORME che la band presenta il proprio set, con perizia ed efficacia davvero inusuale, se si confronta l’elemento anagrafico con la difficoltà di esecuzione.
Il frontman, Scream, è un ex, e il suo amalgama con il resto del gruppo è palese e l’impatto è notevole.
Non sono riuscito ad assistere all’intera performance, ma ho catturato uno stralcio di esibizione.
Il video a seguire è relativo ad una canzone della PFM, dedicata a Demetrio Stratos,Maestro della Voce”, forse la più “semplice” tra quelle proposte, ma assolutamente coinvolgente.
Sentiremo ancora parlare dei FEM!



Attorno alle 21 salgono sul palco i Get’em Out.
Molto, molto bravi, e vederli da vicino accentua la riflessione sulla difficoltà esecutiva di una musica estremamente complicata, dove le varie parti cercano incastri perfetti, con l’obiettivo proprio di ogni tribute band di trasformarsi in clone  dell’originale.
Appaiono tutti estremamente concentrati e ciò che arriva al pubblico è… la musica dei Genesis!
Watcher of the Skyes, Supper’s Ready, The Musical Box, Tha Lamb…, Can-Utility…, Dancing with the Moonlit Knight, The Lamb…, The Knife, questi a memoria i brani proposti, in un crescendo di emozioni che solo certa musica, se messa in scena adeguatamente, può dare.
Franco Giaffreda - che conoscevo come chitarrista del Biglietto Per l’Inferno.Folk - è nell'occasione il Peter Gabriel della situazione, molto nella parte, simile anche nell’aspetto e capace di stupire con la voce e il travestimento. E’ da pochi mesi nel gruppo e il livello di integrazione mi è parso ottimo.
Meglio delle mie parole possono le immagini, sicuramente rappresentative di un concerto di grande valenza.


Tra il secondo e il terzo atto entra in scena The Lunatics, una sorta di club virtuale che raccoglie uomini e materiale targato Pink Floyd.
E’ l’occasione giusta per presentare il libro “Storie e segreti dal mondo dei Pink Floyd” e per diffondere l’attività degli associati.

E si arriva alla fase conclusiva con l’audience predisposta al  momento mistico.
Gli Anderson Council ripropongono il repertorio Pink Floyd, abbinando i brani più conosciuti ad altri seminali, raggruppando uno spazio temporale che va dal ’67 al ’79:
The Piper at the Gates of Down (Astronomy Domine), Ummagumma (Careful…),  Meddle (One of These Days, Echoes), The Dark Side of the Moon ( The Great Gig…, Money, Time), Wish you Were Here (omonimo e Shine on you Crazy Diamond), Animals (Pigs), The Wall (Comfortably Numb)… questi i capolavori proposti davanti ad un pubblico ammutolito.
Il senso di sacralità è salito alto nell’aria, alimentato dal visual (luci e proiezioni video) e dall’utilizzo della quadrifonia, e il tutto ha contribuito a creare una sorta di effetto ipnotizzante che ha coinvolto sino all’ultima nota.
“Brividi”, è questo ciò che mi ritorna in mente a distanza di quarantotto ore.


Mi ripropongo di raccontare prossimamente,  nei dettagli,  la storia di FEM, Get’em Out e Anderson Council,  certo che i filmati possano in ogni caso alimentare la curiosità.

C’è qualcosa di nuovo nell’aria, profumo di cambiamento, spesso descritto come movimento nostalgico, ma è in realtà vero valore che ritorna.

Ho passato una bella serata e viene spontaneo un ringraziamento globale a chi ha dedicato tempo e denaro all’organizzazione di Prog Legend Night.